Non ti ho mai scritto, lettera al figlio, di Marisa Cecchetti.
Aprile 2017
Ciao Sami,
non ti ho mai scritto. Però sei in tutti i miei libri. Un’amica, dopo aver letto le ultime poesie, un giorno mi ha detto che ti “spremo”. Ho risposto che ti tengo sempre con me e in mezzo agli altri. Perché i libri non muoiono. Io e te ci siamo parlati più con gli occhi che con le parole. L’avevamo imparato dalla nonna. I tuoi occhi per me erano una guida, mi dicevano se ero o no nel giusto. Perché sei sempre stato saggio…Del resto non è stato facile crescere te e tua sorella da sola, ma ce l’abbiamo fatta, abbiamo imparato a non temere nulla. Eravamo tosti, sì.
Poi la paura ha spalancato la porta, improvvisa, in un giorno di dicembre; con lei abbiamo convissuto per anni e ci illudevamo di apparire sereni. Tu con l’aiuto della fede che sentivi sempre più forte, io e tua sorella con l’amore per te.
Mi manca la tua voce. Mi sforzo di riprodurla, so che aveva un tono morbido, profondo. Non riesco ad afferrarla. Non torna. Mi manca il tuo essere nella nostra vita.
Sono seduta sulla tua poltroncina verde, alla tua scrivania bianca, di lato ho la libreria, di fianco il letto a una piazza. Ho cambiato quadri, tende e libri, tolti quelli scientifici tuoi, messi i miei di letterature varie. Ma in alto si affaccia ancora la vecchia raccolta di Topolino e l’Enciclopedia delle Giovani Marmotte di quando eri bambino.
Il gatto si fa le unghie sulla poltroncina, ma quella resiste, non mostra nemmeno i segni. Il gatto? No, non è il tuo Romeo, sarebbe matusalemme, e nemmeno Filippo. Passati, per età…Questo è Tobia, il gatto più viziato che ci sia. Forse non viziato ma addomesticato, adottato, incluso. E’ la mia ombra. Dirai tu, per forza, siete rimasti in due! Vero. Non ho coccolato mai un gatto come coccolo Tobia, me ne preoccupo come fosse un bambino. Però non mi si stende sul collo, a sciarpa, come faceva Romeo con te.
Perché parlo del gatto dopo tanto silenzio?
Perché vorrei farti rientrare naturalmente nella mia quotidianità, sentire di nuovo lo scatto secco della chiave nella serratura quando torni, vedere il tuo passo veloce attraverso il soggiorno, sentire la tua musica che allagava la casa e usciva nell’aria.
Il gatto qualche volta lo chiamo Romeo. Ma lui non sa niente del passato.
Quella dei nomi è una cosa buffa: quando parlo con lo zio – quello che è rimasto, l’altro penso che tu lo abbia incontrato in un altrove – quando parlo con tuo cognato – sì, si è sposata dieci anni fa e non c’eri da tempo – li chiamo col tuo nome. Cioè: parto con la prima sillaba, SA, poi torno indietro dando l’impressione di aver balbettato. Ma qualche volta non ce la faccio a stopparmi in tempo. Lo zio una volta mi ha detto mi fa piacere che tu mi chiami Samuele, è un orgoglio per me. Grande zio! Usa ancora la tua Yamaha, ci va al lavoro nella buona stagione.
La casa è grande per me e per il gatt0. Quando si è svuotata so di aver percorso il corridoio con un senso di smarrimento. Qui non ci posso stare più, mi sono detta. Ma al solo pensiero che un giorno sarei potuta passare sotto la finestra e la stanza tua abitata da un estraneo, mi sembrava di uscire di testa.
Ora me la sento cucita addosso, la nostra casa, con tutto il passato che contiene, con il presente vivo, con gli amici che la frequentano, con la luce che la rischiara.
Il pianoforte? No, quello non c’è più. L’ho regalato ad una bambina che cominciava a fare le prime scale. Almeno non intristisce, muto. Io ho pensato a lungo di imparare, ma non mi è bastata la volontà. E poi non ho le tue mani da pianista, le mie ormai hanno settant’anni…Sì, è vero, avrei potuto cominciare vent’anni fa. E’ un rimprovero? Colpita!
C’è quello sportellino basso a sinistra della scrivania, lo ricordi, vero? Era sempre pieno delle tue cianfrusaglie. Ci ho lasciato i tuoi documenti, libretto universitario, patente, congedo, carta di identità. Ma non lo apro mai, mi farebbe male. Mi basta sapere che c’è. Dimmi tu che cosa devo fare con quei documenti. Non voglio che tua sorella rinnovi il dolore, un giorno che io non ci sarò. Ha lottato troppo per reggerlo e conviverci. Guidami tu. Lo so che mi hai sempre aiutato…Tu sei comunque qui. Chi non ti ha conosciuto impara a conoscerti perché il tuo nome ricorre nel quotidiano, con la naturalezza delle cose reali.
Ti sogno.
Sono sogni belli perché mi appari sereno, di varie età, in vari momenti della vita. Sei la proiezione del mio desiderio? Può darsi, non discuto con il subconscio. So solo che al risveglio sorrido mentre riacchiappo i brandelli del sogno.
Come sei ora? Si rimane come quando siamo partiti?
Sei bello come allora?
Dove sei ora?
Poche settimane fa, all’uscita dalla Messa, mi si è avvicinata Marzia. L’avevo salutata uscendo ma lei mi ha raggiunto quando stavo trafficando col lucchetto della bici.
“Bisogna proprio che glielo racconti, signora!”
“Che cosa?”
Aveva gli occhi lucidi e sorrideva. “Ci siamo riuniti, tutti quelli della classe ’69, a cena. C’erano anche i catechisti…”
Io le ho preso le mani nelle mie. Ho sentito gli occhi bagnati.
“Quando ci siamo seduti c’è stato un momento di silenzio. Lungo. Ci siamo guardati. Poi ci siamo alzati e abbiamo fatto un brindisi a Samuele. Lui allora era a cena con noi. Come sempre. Dopo il brindisi eravamo sereni e abbiamo sorriso e scherzato.”
I miei occhi intanto erano diventati due fontane ma ridevo. L’ho ringraziata perché ci ha fatto un regalo bellissimo.
Marisa Cecchetti in: AA.VV Lettere a mio figlio, Historica Edizioni 2017