Nota di lettura a L’adolescenza e la notte, Passigli ed. 2015, e intervista a Luigi Fontanella, a cura di Flavio Almerighi.
Il nostro cortile è un campo di battaglia
piccoli trionfi o cadute nella polvere
tra Tonino Iannone e Franco Arpino.
Bisogna sbrigarsi a crescere (pg. 37)
L’adolescenza è stata inventata durante la seconda metà del XX secolo. Prima i bambini diventavano adulti, strappati alla fanciullezza venivano mandati nei campi e nelle fabbriche, cosa che accade comunemente anche oggi in molti paesi “in via di sviluppo”. Erano adolescenti molti milioni di caduti durante le guerre mondiali dentro e fuori i campi di battaglia. Dopo gli anni Quaranta del secolo scorso l’adolescenza è diventata un diaframma sempre più consistente tra l’infanzia e l’età adulta, un business, infine uno status perenne causa la crisi dell’ultimo decennio, adolescenti fino ai quarant’anni, precari, bamboccioni.
Un tempo la notte atterriva, il buio che portava era assoluto e senza penombre, la mancanza di luce diurna generava mostri e paura. Il tempo ha ideato lune sempre più importanti e la notte non è più vissuta nel terrore di essere divorati o posseduti durante il sonno, è diventata il momento più romantico, libero, raccolto dell’intera giornata. Ha acquisito fascino e talento.
L’adolescenza e la notte, ultima fatica poetica di Luigi Fontanella (Passigli, 2015), mette insieme con originalità due concetti, due mondi, apparentemente lontani. O forse nessuno prima ci aveva mai pensato. Assimila il ricordo al dormiveglia, l’evocazione al momento migliore per evocare. La notte è una donna incinta, dentro di lei batte già un altro cuore. Ho tratto un’infinita bellezza dalle letture e riletture di questo libro affascinante cui non trovo punti deboli o criticità. Un lavoro molto maturo. Ho voluto per questo confrontarmi direttamente con l’autore ponendogli alcune domande.
… ecco, rifletto sognando, sempre
così dovrebbe essere il mondo
senza astio e senza invidia (pg. 65)
D. Qual è il trait-d’union tra l’adolescenza e la notte in questo libro?
R. Inizialmente non c’era un concreto e preciso nesso, se non quello della mia volontà di unire due nuclei di lavoro che si interseca(va)no tra immaginazione e memoria; qualcosa che Paolo Lagazzi ha poi in buona parte intuito nella sua Prefazione. Rimando anche alla mia Nota finale. Potrei aggiungere, a posteriori, ma in modo abbastanza scontato, che le due parti del libro rappresentano l’alfa e l’omega di ogni umana esistenza: l’infanzia/adolescenza e la tarda maturità/senilità. Ma in questo non c’è alcuna “autoindulgenza”: sono semplicemente fasi della vita che io credo convivano talora armonicamente, talora ossimoricamente, talora addirittura in modo buffo.
D. Anni giovanili: un luogo nostalgico e non più raggiungibile?
R. Luogo, almeno per ciò che mi riguarda, nient’affatto nostalgico, in quanto a me sembra di vivere, almeno psicologicamente, una specie di eterna giovinezza. Ad essa attingo continuamente, con una naturale disponibilità a farmi sorprendere dalla cosiddetta Realtà o – come diceva la Ortese (la più grande scrittrice del nostro Novecento) – dall’Irrealtà quotidiana.
D. Come mai la scelta di non titolare i brani?
Ho dato un titolo alle mie poesie nei miei anni giovanili. Ora lo faccio molto raramente perché mi sembra una cosa posticcia, stucchevole, che quasi mai nasce insieme a una poesia, cioè al suo farsi. In genere i titoli delle poesie si stilano quasi sempre “a freddo”, dopo averle scritte. E poi, non mettendo un titolo a ogni testo, a me sembra di dare una maggiore continuità tra una poesia e l’altra, come in una sorta di continuum interiore che va rincorrendosi, così come avviene con l’eco (mi viene in mente un bellissimo quadro di Delvaux intitolato appunto L’écho).
D. Soprattutto nella sezione “La notte” ho notato uno stile discorsivo di tipica matrice angloamericana contemporanea. Si sente influenzato dall’ambiente in cui vive e dagli autori con cui giunge a contatto?
R. È probabile che questo “stile discorsivo” mi derivi, in parte, sia dalla mia intensa lettura di poeti americani contemporanei sia da un mio desiderio di riscoperta e di rilettura di un filone presente anche nella nostra letteratura, e cioè quello legato alla “ballata” (nella poesia medievale un grande Maestro in questo senso è stato Guido Cavalcanti), o al “racconto onirico in versi” (un mio libro, intitolato Bertgang, uscito tre anni fa presso Moretti & Vitali Ed., riflette esattamente questa mia disposizione).
A tutto ciò occorre aggiungere una mia affezione o “empatia” verso il genere del poème en prose; penso a grandi modelli come quelli di Baudelaire e Campana, o, per avvicinarci a qualche esempio più recente, a certi componimenti in prosa poetica dell’ultimo Raboni.
D. Come vede il momento attuale della poesia italiana?
Lo vedo zoppicante e nebuloso, con una schiera sempre più crescente di poeti della Domenica e sempre meno lettori. C’è inoltre una preoccupante disaffezione alla poesia in senso generale, già a partire dai quotidiani e dalle riviste: luoghi dove i libri di poesia trovano poco, pochissimo spazio critico. Manca poi in Italia una vera educazione alla Poesia; per es. non ci sono corsi universitari dedicati esclusivamente ad essa, come diversamente avviene in Paesi come l’Inghilterra, la Spagna, gli Stati Uniti, ecc.
In questo modo i percorsi, le strade della poesia diventano più difficili e contorti. Allo stesso tempo, penso che un vero poeta, nonostante le difficoltà crescenti e la frantumazione qualunquistica della comunicazione, in particolare telematica, dove ognuno può improvvisarsi poeta e può crearsi il proprio blog (ci sono per fortuna alcune buone eccezioni, ma sono poche), abbia il dovere di essere coerente prima di tutto con se stesso, cercando una sua strada che poi corrisponde alla sua personale verità. Credo che già questa fedeltà alla propria voce, al proprio credo, al proprio modo di esprimerlo (Pasolini diceva che su tutto si può barare tranne che con lo stile) sia già un importante obiettivo per il “ruolo” che ogni poeta dovrebbe ascrivere a se stesso nell’odierna società. Non credo al poeta/profeta; credo, voglio credere, però, come già mi è avvenuto di dire, a quel poeta che sia sensibile ai guasti della sua “civiltà”, e reagisca nella maniera a lui più congeniale, cioè da poeta, e dunque con la sua parola, senza mai sacrificare l’immaginario che è dentro di lui. Che sappia insomma, baudelairianamente, esprimere l’utopia nella carne del linguaggio.
Sarebbe bello se la Poesia contribuisse davvero a migliorare il mondo in cui viviamo.