Note di lettura a Background di Francesco Sassetto, Le voci della luna ed. 2012, a cura di Paolo Polvani.
Accade raramente di leggere un libro di poesie ed essere presi dalla frenesia, dall’ansia di sapere come va a finire, come fosse un romanzo. Spesso i libri di poesia possiedono atmosfere rarefatte e regalano piaceri rarefatti, che a volte occorre essere bravi a scovare, possedere un occhio clinico e critico quanto basta per riconoscere e gustare brividi di piacere. Sono libri che vanno centellinati come grappe, di cui a volte ci si dimentica. In questo libro di Francesco Sassetto i brividi che regala la lettura appaiono intensi e ricorrenti, si intuisce sin dall’inizio che non è un libro da centellinare, ma da leggere tutto d’un fiato, è un libro che ti prende per mano, anzi ti prende la mano e s’impone. Fin dall’inizio, fin dalla prima poesia, nella richiesta “che ci prese poco più che bambini, a chiamare / amore e attenzione”.
Prende perché ci si ritrova come tra vecchi amici, ci si riconosce “in questo desolato teatro che non mi appartiene”, in mezzo ai viaggiatori nascosti dagli occhiali da sole, appartati in un angolo di musica con l’ipod alle orecchie. Ci si riconosce nella richiesta “Dammi la mano tu che passi da queste parti / dammela adesso prima che sia tardi”. Delimita subito un’appartenenza, fonda il partito dei cantori dello sguardo largo, di quelli a cui le vicissitudini del proprio io interessano meno o quanto le vicissitudini del pendolare, dell’insegnante precaria, del compagno di viaggio occasionale.
Poesie in italiano si alternano a poesie in dialetto veneziano, a dichiarare un senso di profonda appartenenza, a scavare nelle proprie radici culturali. Come se il disagio avesse bisogno di una lingua materna per essere meglio comunicato, come se volesse tornare al vagito primigenio per dichiarare la sofferenza di stare al mondo. La poesia è immergere la vita nella lingua, levigarla nella corrente delle parole, rispecchiarla in un flusso liquido e cristallino, e più profonda, viscerale l’ansia di dichiararsi estraneo alla realtà che ci circonda, più il ricorso alla lingua della nascita diviene necessario e urgente, diviene devozione e intima adesione. E anche tentativo di salvataggio di un’identità a rischio.
Ci sono personaggi di questo libro che s’incidono nella memoria e vi resteranno a lungo, non per loro particolari qualità, ma per la loro assoluta normalità. Esiste ormai una divaricazione insanabile tra la quotidiana galleria di delinquenti, tra politici e comuni, che sfilano nei telegiornali e sugli organi di informazione e l’iconografia dell’eroe contemporaneo che va dal calciatore miliardario al divo di Amici, dall’inventario di dive e divette sciorinato dai rotocalchi scandalistici alla classifica degli imprenditori di successo. In questo libro è il compagno di viaggio che ha perso la figlia in un incidente, è il clandestino, la precaria a sfilare col carico di solitudine.
L’abilità tecnica di Francesco Sassetto consiste nel tenere alta la tensione del racconto intorno alla galleria di personaggi protagonisti dei suoi versi attraverso pochi tocchi, inquadrature minime che riportano a certa maestria dei narratori cinematografici, e una circospezione lessicale mirata all’efficacia della comunicazione e tuttavia mai scevra di una ricerca stilistica attenta a tenere magra, asciutta, la narrazione. Gente comune che incontriamo nelle stazioni, lungo le vie della città, nei luoghi di lavoro.
Di Giovanna, quarant’anni e labbra screpolate, ci dice che la gente parla piano, – e scuote la testa – spalancandoci davanti la tetra mentalità dei benpensanti di provincia, nascosti da persiane socchiuse. E tuttavia in ogni figura evidenzia un residuo di resistenza, anche in Giovanna – con quel po’ di sorriso che ancora ti avanza -. Anche se la condanna alla solitudine appare inflitta e senza appello e si legge sugli occhi segnati, – che nessuno accarezza -. Qui la tensione stilistica è indirizzata a sottolineare l’essenzialità di – due binari sbilenchi di ferrovia regionale – che delimitano il confine, territoriale e culturale, di una provincia che non concede alcun varco alla speranza di un futuro accettabile.
Anche Cettina, l’insegnante precaria salita dalle scogliere di Cefalù, arrivata a insegnare matematica e scienze ai casermoni del termitaio che avvolge Treviso, conserva – occhi miracolosamente capaci di sorridere ancora – e la parola miracolosamente intende sottolineare lo squallore di una vicenda di precarietà, di solitudine nella stanza ammobiliata alla buona, il dramma di una giovinezza andata in carta da bollo, un’esistenza segnata da un’antica ferita, un dolore nascosto, consumata tra treni e valigie e binari infiniti. Il dramma di una storia – che fa ancora male / che non è ancora finita -. Come anche Katia, l’infermiera che fa l’amore a denaro in una casa di Mestre, ogni tanto, per arrotondare, e i clienti – le buttano i soldi sul letto / ridendo e dicendo “puttana”, e lei ci sta male -. E il ragazzo africano – iscritto da sempre all’anagrafe degli abusivi -.
La bellezza di queste poesie sta sia nella capacità di registrare il male di un’Italia attraversata dal disagio di precari, abusivi, pendolari coi Ray ban storditi dalla musica e alleati nell’attacco al più debole, nello stigmatizzare il diverso, sia, e forse soprattutto, nella generosità dello sguardo dell’autore che osserva e partecipa, presta la voce a una umanità sofferente in versi misurati, la cui sobrietà non lascia spazio nemmeno a un sospetto, ad un alone di sentimentalismo. Una poesia che pur restituendo un’immagine drammatica della situazione attuale, tuttavia non elimina gli spiragli di speranza.