Questo lutto per sempre. Note di lettura a Genealogia imperfetta di Silvia Rosa, a cura di P. Polvani

Questo lutto per sempre. Note di lettura a Genealogia imperfetta di Silvia Rosa, edizioni La vita felice 2014, a cura di Paolo Polvani.

   

   

Avventurarsi dentro un libro di poesie non è molto diverso dall’esplorazione di un territorio sconosciuto:  dove ora stiamo per avventurarci che incontri faremo? strade metropolitane? panorami interiori? interni di cucine? luoghi letterari? che personaggi si presenteranno? e avremo le scarpe giuste, la giacca a vento adeguata al clima? uno zaino leggero ma fornito? sarà necessaria la cravatta?

Intanto l’avvio non poteva essere migliore:

E per un bosco qualunque, andare
nel pantano di foglie d’ocra
ricamate a nebbia e a vene leggere –

L’inizio è incoraggiante non solo per i bei panorami che ci offre, ma soprattutto per il tono affettuoso, come di mano tesa, di confidenza, di abbraccio morbido:

-qui, dove il mondo è un petalo largo
accogliente e in un istante l’io si acquieta,
riposa, si piega alla legge del vento…-

E’ l’eleganza della voce che mette subito a proprio agio, accoglie, porge il proprio benvenuto al lettore che ama la sobrietà della scelta lessicale, una tessitura che evidenzia e dichiara un lavoro, un’attenzione meticolosa nella scelta di ogni singolo vocabolo, e insieme una efficace originalità:      – un solletico tenerissimo di voci -, oppure: – e la bocca appesa al bordo della tazza / si affaccia al vuoto e inghiotte nero -.

Ma tutto il libro è fatto di novità, di scorci di piacevolissima sorpresa estetica. Trovo singolare il verso che apre “Manifesto (che non mi piace)”: – Non mi piace la musica classica -, perché l’intero libro si dipana secondo una partitura che richiama in maniera inequivocabile le composizioni classiche, articolate in quattro movimenti; la prima, Orme, è un Adagio molto, e la seconda, Amore centro, non è che un andante cantabile con moto, Per la costruzione di un’archeologia (futura) possiede il ritmo del minuetto e l’ultima, Genealogia imperfetta, restituisce le aperture di un larghetto, il ritmo di un allegro molto.

E qui mi sembra doveroso esprimere uno dei motivi di gratitudine nei confronti dei versi di Silvia Rosa: leggendo,  sempre nella stessa poesia Manifesto, i seguenti versi: – Non mi piace io che ascolto Mahler / sinfonia numero otto e dico / che meraviglia, l’adoro! – e nei versi seguenti sfoggiando una tale ironia e sincerità, e avendo un tale disincanto nel dirlo, mi ha indotto ad ascoltarla, questa sinfonia numero otto, e convinto a dire con lei: che meraviglia, l’adoro!

E’ nella genealogia imperfetta che il tono sale, si fa accorato appello, in un crescendo di verità:
– Regalami l’incanto di un abbraccio, / una carezza, un passaggio – tienimi – sulle tue ginocchia -.

Qui si registra la condanna della solitudine, un vuoto che viene da lontano, da una genealogia appunto imperfetta, di quando la carne era nido, e tutto era madre.

Fino all’acuto del disvelarsi: – come una culla candida che dondola lieve sul bordo / di un precipizio un altrove uno sguardo materno. Sono testi molto belli perché intrisi di sincero dolore, soprattutto Il gattino e Madre, in cui affiorano, si mostrano nella loro cruda evidenza alcune dolorose realtà: – e tu non mi vedi / e tu non mi vieni a cercare. – Ecco allora che ci si affida alla parola, – una parola tutta bianca che sia cura -, una parola bianca come un bianco fazzoletto di lino, quella parola capace di cancellare il grigio muro dell’ingiuria, – quella

parola tra le mani stretta e poi di getto
sulle labbra una colomba in volo
qual è la parola, quella bianca e netta
del futuro quella pagina così nuova,
qual è la parola del perdono –

perché le parole possono colmare un vuoto doloroso, possono cicatrizzare, rimarginare, solo la parola del perdono può sanare. Silvia ci restituisce un senso che giustifica e valorizza il gesto di scrivere poesie, in questa professione di sincerità dichiara che la parola può farsi zattera, appiglio, cura per chi scrive e per chi legge e si riconosce nell’evidenza del dolore, nelle mancanze, nelle assenze, nei gesti che si fingono d’amore ma che non sono amore, nelle solitudini, soprattutto nella condanna a sentirsi confinati altrove, che è un malessere ricorrente in chi scrive e per questo scrive: per ancorarsi a un qua, fissare coordinate che costituiscano un punto di riferimento fermo. Sentirsi altrove è l’inadeguatezza, la condanna di non essere stati amati, la mancanza di riconoscimento da parte di chi ci sta intorno, lo sguardo che scruta e scopre quanto sia distante, estraneo quello che ci circonda. Ecco i versi della poesia Bambola:

stai ferma,
oggi ti gioco che porterai questo lutto
per sempre, che per sempre starai anche altrove…

Penso che la funzione della poesia non si limiti ad una aspirazione verso una forma compiuta che si ispiri ai principi estetici del bello, neanche può essere circoscritta al  desiderio di comunicazione e di condivisione, che pure è di vitale importanza nella circolazione di spunti e motivi di ricerca.
(Come ho detto prima, conoscevo le sinfonie di Mahler fino alla quinta, probabilmente sarei arrivato comunque fino alla decima, nel tempo, ma ritrovarla nei versi di Silvia ha accelerato in me il desiderio della conoscenza.)

Penso che la funzione sociale della poesia risieda nella tensione verso la costruzione di un linguaggio nuovo, fresco, che fluisca nella società con energia rivitalizzante e favorisca, acuisca il desiderio di cambiamento, di semplificazione della vita, di umanizzazione dei rapporti.

E’ esattamente quella tensione che si ripercuote nella realtà con effetti positivi. Dirò una cosa opinabile, indimostrabile, persino risibile: a prescindere da quanti siano i lettori effettivi del suo libro, e dei libri di poesia in genere, qualsiasi tipo di intenzione e di tensione si riverbera nella vita reale.  Non è una visione magica, il buddismo ce l’ha sempre raccontato e anche argomentato, e la fisica quantistica puntella questa visione con i risultati cui è giunta.

Per spiegarmi concretamente, i seguenti versi che aprono il libro di Silvia:

M’innamoro a d e s s o
del bosco che mi racconti con la voce,
di quel verde lucido che sbuca
come un frutto appena colto, fresco,

regalano bellezza e accendono il desiderio di spingersi avanti con la lettura, di leggere tutte le poesie, anche più volte. Ma costituiscono comunque un’onda di creatività, di invenzione, danno vita, con la tensione verso la parola esatta, che ci restituisca alla nostra precisa dimensione umana e la illumini, danno vita a onde che si trasmettono alla realtà circostante in un movimento continuo, nella spinta di nuovi impulsi creativi. Non so se questa sia la teoria di chi non vuole arrendersi all’idea della inutilità e marginalità della poesia e dell’intenzione creativa propria di ogni arte, ma io ci credo.

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