Note su IL LAVORO, di Bartolomeo Bellanova.
Gli anni che stiamo vivendo si caratterizzano per la crisi progressiva degli Stati nazionali, soprattutto se si riflette sulla realtà dell’Occidente. La nascita di questi Stati come strutture amministrativo – politiche dai contorni ben definiti si compie nel XVII secolo quando le potenze europee smettono di seminare guerra, epidemie e terrore per il continente, con il mutuo accordo di cercare nelle nuove terre (America e Africa) la valvola di sfogo per la loro crescita ed espansione.
Ė in questi decenni che diventa sistematica la schiavitù di milioni di nativi africani e americani finalizzata allo sviluppo degli affari agricoli (piantagioni di cotone, caffè ecc …) e minerari delle corone inglese, spagnola, francese e portoghese. Si iniziano a sperimentare la divisione e la razzializzazione del lavoro su larga scala sostenute da ideologie di supremazia razziale (bianca) e religiosa (cattolica) ben radicate all’interno delle nostre società.
Questo sistema di Stati nazionali ha retto anche agli urti di due guerre mondiali devastanti, ma è stato messo in crisi negli ultimi decenni dalla globalizzazione dei mercati dei capitali e delle merci. La sovranità che riposava indiscussa all’interno del governo di ogni Stato, è stata progressivamente mutilata di proprie competenze, prima tra cui la tassazione dei profitti prodotti all’interno del proprio territorio. Imprese globali multinazionali con sedi in compiacenti paradisi fiscali hanno scelto sul mappamondo dove stabilire i propri stabilimenti di produzione, cosa produrre, a quali costi e dove adempiere al minor carico fiscale possibile. Lo Stato nazione, privato di parte delle entrate fiscali e del controllo sulle politiche industriale, ha dovuto tagliare in modo sempre più doloroso il sistema di welfare e protezione sociale figlio del boom economico seguito alla seconda guerra mondiale.
Il cittadino lavoratore si è scoperto sempre più impotente: una foglia autunnale in balia di questa ventata di delocalizzazione che da ovest ha soffiato e continua a soffiare verso est e da nord verso sud: dapprima verso i paesi dell’est Europa sberciati e lisi dopo il crollo del muro di Berlino del 1989, poi verso paesi di giovane e disordinata industrializzazione quali Pakistan, Bangladesh, Vietnam, Algeria, Egitto ecc…
Questa impotenza, a cui si è cercato di mettere qualche pezza con continui tagli al ribasso di condizioni e diritti sul lavoro, ha significato, dal punto di vista culturale e politico la rottura del patto di cittadinanza tra il cittadino e lo Stato – nazione. Il cittadino avvilito e impoverito non riconosce più la funzione di protezione svolta dal proprio Stato nelle sue attuali forme di rappresentanza (sindacati, partiti, Parlamento ecc …) e, minacciato ogni giorno da nuovi fenomeni epocali quali quello delle migrazioni o delle nuove automazioni tecnologiche, cerca vie di uscita spesso caratterizzate da una visione ristretta e egoistica della realtà circostante. Da qui l’affermazione di fenomeni di esasperato localismo e chiusura, le parole d’ordine ricorrenti di “prima gli italiani” o “America first” e i fili spinati attorno alle frontiere. Tutte esasperazioni di problemi complessi e reali che fanno comodo alle politiche della destra reazionaria che le cavalca imponendo dazi, espellendo migranti, portando, in definitiva, lo scontro sempre più al ribasso tra sfruttati di serie A e sfruttati di serie B e illudendo che sia ancora possibile far rivivere realtà ormai morte nei fatti come quella evocata dal mantra del trampismo “Make Amerika great again”.
In questa dissolvenza di fine impero credo che dovremmo provare a pensare a fenomeni del tutto nuovi quali, in prospettiva, il superamento della realtà dello Stato – nazione con confini non più malleabili e trasparenti solo per il capitale finanziario, ma anche per ogni uomo che possa essere libero di trasferirsi dove nel mondo venga garantito un livello di vita accettabile per sé e per la propria famiglia.
Abbattuto ormai quasi completamente il problema linguistico, con l’inglese che accomuna l’espressione di miliardi di persone e avendo alla portata di mano portentosi mezzi tecnologici che ci connettono agli antipodi della terra in pochi clic, perché alla maggior parte degli uomini non è concessa libertà di movimento e il loro passaporto è poco più che carta straccia?
Se ce ne fosse la volontà politica una rinnovata “Società delle nazioni” potrebbe realizzare un meccanismo mondiale di riequilibrio finanziario tra paesi ricchi e paesi sfruttati imponendo regole a un mercato dei capitali selvaggio che ci ha portato al collasso nel giro di pochi decenni.
La permeabilità dei confini statali potrebbe determinare anche nel campo del lavoro nuove forme di produzione e distribuzione di beni che, partendo da comunità indigene libere di produrre e vendere i loro prodotti senza sottostare ai vincoli imposti dall’intermediazione dell’accumulazione capitalistica, raggiungano i consumatori finali organizzati in gruppi o cooperative, con evidenti benefici anche allo sfruttamento intensivo dei territori. Si tratta di innescare, prima di distruggere il pianeta e la nostra stupida specie, un profondo mutamento personale e culturale imparando a staccarci dal consumismo compulsivo e imparando a considerare il lavoro umano come attività finalmente capace di nobilitare l’uomo.
Non più il lavoro vessato, mal pagato e subappaltato al ribasso, ma un lavoro che col tempo possa trasformarsi parzialmente in un libero scambio di opere e conoscenze reciproche, che arricchisca e non depauperi la propria umanità. Un lavoro che, completamente ripensato, garantisca i tempi necessari alla gratuità e all’amore, lontano dagli stress che uccidono se stessi e gli altri.