Oìkonomìa Poetica di Ida Travi.
Nel solco
L’idea di accostare la parola Oìkonomìa alla parola Poetica, è nata per caso nell’estate 2012 mentre preparavo un intervento al Corso Donne, Politica, Istituzioni: la dimensione di genere tra pubblico e privato, organizzato da Università degli Studi di Verona, Scienze Giuridiche, in collaborazione con la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità. Data l’enormità della questione mi sono tenuta lontana tanto dalla teologia quanto dalla filosofia, ma anche così l’accostamento diretto tra Oìkonomìa e Poetica appariva in forma del tutto azzardata. E anche sia l’interpretazione ridotta appariva azzardata. L’accostamento, però, era preciso e fertile in me che poeticamente gettavo uno sguardo sul nesso tra poesia e diritto. Oìkonomìa Poetica: ora torno a collocare la questione nello stesso solco in cui è nata, cioè all’interno della mia poetica, come pratica di senso e di scrittura. Lo faccio qui – sollecitata – a partire dal nesso poesia-casa.
Spogliatoio
Cos’è per me poesia? È la casa che si rianima secondo il suo interno pulsare, è il primo segno d’uscita dal pallore. È una miscroscopica e domestica controstoria della letteratura: “oìkos”, “casa”, e “nòmos”, “legge”. Oìkonomìa, parola fondante ed enorme, la troviamo illuminante in Aristotele, nei Padri della Chiesa, la troviamo in teoria del diritto e nella filosofia contemporanea… ma qui Oìkonomìa, sollevata dall’immensità dei suoi sensi, è da me intesa un luogo della casa, uno spogliatoio, spazio in cui ci si libera del superfluo, spazio da attraversare per rientrare in poesia con abito più semplice. Oìkonomìa è qui intesa come un sistema della casa sempre a parte, parallelo, legittimo.
Una serie di misure
Si tratta poeticamente di una serie di misure fuori schema, in libertà separata. Band á part, direbbe Godard. Ordet, direbbe Dreyer. Un insieme di norme profonde ricavate dal nostro essere umani, sempre imperfetti per un codice. Sì, a parte. Ben oltre l’editoria, ben oltre la visibilità. Si tratta di una libertà vincolante, interiore, cioè interna allo spazio tra pubblico e privato, un’intenzione … come custodire in sé due o tre maestri e farli dialogare tra loro, piuttosto che inorgoglirsi per quell’uno, solo, al di sopra di tutti : in fondo due o tre maestri, maestre – nel vincolo – mi lasciano più libera di uno.
Casa Mondo
E’ come quando da un’altura guardi in basso e riconosci la tua casa. La riconosci dall’aria che la circonda, dalla forma che distingue il tetto. La riconosci per quel modo di stare tra tante, la riconosci da qualcosa che non sai dire ma certamente è qualcosa di tuo, inteso come una costruzione interiore, non una proprietà. Chiunque nel villaggio lo può dire: sì, è quella la tua casa… Anche chi è senza casa spera di poter un bel giorno indicare da un’altura un punto lontano, spera di riconoscere in quel punto una forma e dire: ecco, è là… dove vivo.
Poesia delle quattro mura
Si tratta di abbracciare una vastità con sguardo misurato e riconoscente. Si tratta di riconoscere tra tante la propria poesia, come se fosse la propria casa, si tratta di sapere che quella casa è riconoscibile come parola tua anche da altri. Anche nello spazio comune. La casa, cioè quattro mura. Lo spazio-mondo che si schiude alla nascita subito dopo l’uscita dal riparo, prima di finire tra le braccia di qualcuno. Dentro la casa-mondo, dentro alle quattro mura, per quanto compresso, non può che esserci un nucleo d’umanità. Lì dentro, come lettere d’un alfabeto stanno residui, reperti : un sasso, un legno, un vetro… frammenti usati per lasciare dei segni, tanto per intenderci.
L’uscita dalla scrittura altrui.
Nella radice dello sguardo riconoscente si fondono riconoscimento e riconoscenza nei confronti di chi ci ha preceduto, e di chi vive ancora. Anche in poesia, sì. Lo sguardo riconoscente non può che partire da sé, incontra il proprio, a fatica ne misura i limiti e in questo misura sorge una poetica : lo stare in sé salva dal diventare un duplicato, la pallida copia d’un poeta. Non ne faccio una teoria, ma certo vale per me: dalle scritture altrui a un certo punto è meglio allontanarsi. Lasciare tenendo, fare d’un vincolo una via d’uscita. Ne parlavo qui, un paio d’anni fa qui, in Le maestre e i maestri indiretti (2 ) : un buon maestro, dicevo, non t’insegna il suo linguaggio, ti indica il tuo. Ti mostra che poesia è il tuo trasalimento. Come arrossire di colpo per una ritrovata nudità, sì, dopo tanto pallore finalmente quel rianimarsi, quell’ arrossire di nuovo, e per così poco, una parola dopotutto…
Il nucleo
Chiunque può scrivere FOGLIA, TERRA, ALBERO. Chiunque può scrivere CASA. Ma la parola CASA si dà come fondante solo se ritrova il suo vagito, solo se rinasce ogni volta come nuova non per intenzione, ma per forza. Una poetica si può dire. Nel suo farsi, nella sua complessità, una poetica è dicibile, non c’è niente di fumoso. Una poetica ti restituisce la parola, te la restituisce come tua, come innervata da un salto dello spirito, tra la testa e la mano. Una poetica usa solo la parola col suo nucleo. Un timbro, forse. Una poetica rintraccia senza mezzi termini ciò che è fondante e lo stacca di netto da ogni sua imitazione.
Parlêtres, écrivêtres,
Provo a dire di più : dopo molto tempo trascorso in mezzo ai libri, ho deciso di rientrare in casa poesia senza nulla: neanche un libro, neanche una matita. Solo la loro traccia. Quel che serve è ciò che non dimentico, ed è già dentro. Così nella mia poesia sono entrati i parlêtres. Parlêtre, è un neologismo di Lacan che fonde l’essere al linguaggio, nella pronuncia. Staccati da Lacan, all’interno della mia poetica, quei parlêtres, quei ‘ parlesseri ’ si sono semplificati in parlanti. Sono diventati esseri in sequenza nati per incarnare l’aspetto orale della mia scrittura: Olin, Usov, Katrin, Zet, Inna, Sasa, Anton, Sunta, Ur… (*) Ora, a partire dai parlanti, mi sono messa in cerca d’una nuova parola-base da assegnare agli esseri scriventi, ed è nata così la parola : écrivêtres, liberamente esseri scriventi, cioè gli umani a questo punto della storia. Se non tutti, almeno in buona parte. Esseri scriventi attraverso i tasti, sì, ma ancora parlanti attraverso la bocca.
La costruzione
Copiare, restare legati al palo. Nessuna costruzione interiore. Ripetere, rifare, duplicare. Qualcosa per cui non si costruisce veramente, ma si monta un’orribile scena. Qualcosa in cui s’accampa il vacuo, il verosimile su sfondo di facciata: è il tragico.
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(1) Tà poesia dello spiraglio e della neve Moretti&Vitali, gennaio 2011 Selezione Premio Viareggio 2011
Il mio nome è Inna Moretti&Vitali, gennaio 2012
Katrin Saluti dalla casa di nessuno Moretti&Vitali, gennaio 2013
(2) Le maestre e i maestri indiretti intervista a cura di Paolo Polvani per Versante ripido novembre 2014. Il testo dell’intervista è pubblicato in Poetica del basso continuo Moretti&Vitali 2015