Ora è altrove di Marco Onofrio, l’assenza di un simbolismo italiano a cura di G. Linguaglossa

Ora è altrove di Marco Onofrio, Lepisma, Roma, 2013: l’assenza di un simbolismo italiano, a cura di Giorgio Linguaglossa.

  

  

Facciamo un passo indietro. Per parlare della poesia di Marco Onofrio dobbiamo ritornare agli inizi del Novecento: concentriamo la nostra attenzione sul movimento simbolista che in Italia non c’è mai stato. Perché?, che cosa ha impedito al simbolismo europeo di attecchire sul corpo della tradizione poetica italiana?, che cosa significa «assenza di un simbolismo italiano»?, che cosa comporterà nel prosieguo del Novecento questa vistosa assenza?. Appunto, la poesia italiana del Novecento si apre con un «grande vuoto», una «grande assenza» e con un secondo fenomeno direttamente connesso al primo: la mancanza di un movimento di reazione al simbolismo, la mancanza di quei movimenti che, come ad esempio l’acmeismo russo e l’imagismo americano e anglosassone, permetteranno la costruzione della poesia moderna tipicamente novecentesca a partire da Pound, Eliot e Mandel’štam.

Il libro di Marco Onofrio si apre con una citazione di Giorgio Saviane: «l’attimo è chiuso come l’atomo, ma dentro e intorno ha universi di spazi. A percorrerli da un attimo all’altro ci vogliono secoli o decimi di secondo in bilico e il vuoto può succhiarti». Leggiamo l’incipit della poesia di apertura del libro:

   

Nascere vivere, far nascere morire

mutare restando, crescere passare

in un deserto limpido fiorito.

Morgana è terra che svanisce

nel cielo, alla sua stessa duna

sui bordi del Tutto: eclissi

evanescente degli abissi, è

l’incerto stare in equilibrio

fra l’amore e l’orrore

la miseria e la meraviglia:

carovana che muove nell’ignoto

corpo di due tempi che non sono

catena, autopoiesi, evoluzione

attiva dentro il turbine del mondo.

    

Lo «spazio atopico» entro cui si costruisce questa poesia è uno spazio privo di direzionalità, come nella fisica subatomica, regna sovrana l’indirezione delle particelle elementari, lo scontro di tutte le particelle in tutti i luoghi e la loro disparizione, e la loro ricomparsa in altri luoghi e in altri istanti; il «Tutto» è questa molteplicità di direzioni: l’apparire non indica più una fenomenolgia dell’essere, ma è un segnale semaforico che indica tutte le direzioni possibili e compossibili. L’indirezione regna sovrana, e l’ellissi e il traslato ne sono gli equivalenti nel piano delle retorizzazioni: non c’è metafora che non sia indicata se non attraverso un impianto di fuga. Esattamente l’opposto della metafora che indica il ponte tra due enti. Esattamente l’opposto dell’allegoria che indica un Essere immutabile soggiacente sullo sfondo delle immagini. Il ritmo fondamentale è dato dall’andante con brio; qui il correlativo è liquido, simbolico, simbiotico, non indica un referente che sta nel mondo degli oggetti ma un movimento in tutte le direzioni: è «Morgana», «è terra che svanisce», un mondo che c’è e non c’è, che appare e scompare. La poesia di Onofrio si muove nel piano di un irrealismo magico: la poiesis è gioco di specchi che si illuminano e si accecano a vicenda, la storia è fantasmagoria che si accende e si spegne; «l’arciere è ovunque… è una forza cieca, egoistica, insensata / che non significa e non vuole nulla / oltre di sé». Siamo nel mondo privo di volontà e di rappresentazione: «la verità resta indecidibile», ed Euridice «scompare dentro il nulla». Siamo all’interno una filosofia del «nullismo» (per usare una dizione di Roberto Bertoldo), dove tutti gli enti scompaiono dentro il «nulla», senza dolore, senza storia, senza «reale». L’«istante» è il motore della Storia come di questa poesia, che non si lascia catturare né dallo sguardo immobile né da un occhio in movimento, legata ad un’onda che è al contempo sonora e insonora, che trasporta e non porta in alcun luogo; la «trasformazione» non trasforma un bel nulla, la «trasformazione» è il «nulla», «l’arciere è ovunque». La poiesis è strumento di razionalizzazione del «nulla». La forza della razionalizzazione è l’impulso del traslato. Non c’è una datità perché nulla si dà, non c’è più un oggetto perché non c’è più un soggetto (almeno come lo abbiamo conosciuto). Non c’è più un paradigma (metrico, tecnico, stilistico) cui si possa fare riferimento: dietro c’è il «vuoto» e davanti l’«ignoto»: Euridice che «scompare dentro il nulla», ne è l’emblema più eloquente. A monte, non c’è più il complesso di Edipo ma il complesso di Telemaco, il soldato che aspetta su un’isola deserta che il «padre» ritorni per liberarlo dalla solitudine dello «spazio atopico».

Scrive Onofrio: «Musica, musica / ho sete di musica / in ogni fibra dell’anima / vibro d’assenza». È qui chiaro il discrimine di un verso sonoro e cantato che intende sedurre e indurre il lettore a seguire l’autore nei meandri dei suoni e delle sue fantasticherie, rispetto al verso in-sonoro e prosastico di un’altra direzione della poesia contemporanea; è la seduzione che vuole portare il lettore in un «altrove», che lo vuole dis-togliere dal suo «ora». Il verso musicale di Onofrio vuole colmare la distanza che si apre tra l’«ora» e l’«altrove», in questa accezione il suo è un verso post-simbolistico, che si fa erede della lirica di Mallarmé e Valéry e di un certo D’Annunzio ma senza lo sdoppiamento, senza alcuna duplicazione di mondi e di simboli; in Onofrio la restaurazione lirica va intesa entro la cornice categoriale di una poiesis che si faccia «epifania nel suono», perché «la vita è l’arte dell’addio (…) istante dopo istante / un grande addio»; l’addio non è esilio, è separazione consensuale tra due viandanti, perché «È bella di tormento la poesia / del riverbero, dello scomparire / in un tramonto. Come vivere / altrimenti? Quale alternativa?».

Appunto, non c’è alternativa alla seduzione dell’abbandono e all’attesa (ancora una volta ritorna il mito del complesso di Telemaco), e la Storia fa parte integrante dell’attesa; così l’utopia, così il soggetto e l’oggetto; «il grande silenzio dell’universo» è qualcosa di agghiacciante, di non nostro, solo la «parola» fa dell’universo un universo per noi comprensibile, ma è  una parola «senza referente». E qui l’ateismo del poeta romano sconfina con il suo personale «nullismo» filosofico.

   

L’universo è una parola:

l’unica non vera,

l’unica non nostra.

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 ***

EURIDICE

   

Nascere vivere, far nascere morire

mutare restando, crescere passare

in un deserto limpido fiorito.

Morgana è terra che svanisce

nel cielo, alla sua stessa duna

sui bordi del Tutto: eclissi

evanescente degli abissi, è

l’incerto stare in equilibrio

fra l’amore e l’orrore

la miseria e la meraviglia:

carovana che muove nell’ignoto

corpo di due tempi che non sono

catena, autopoiesi, evoluzione

attiva dentro il turbine del mondo.

   

L’arciere è ovunque, immane la faretra

palpita, il fuoco del mistero:

è una forza cieca, egoistica, insensata

che non significa e non vuole nulla

oltre di sé:

è perché è stata, e deve continuare,

e tu qui, in questo fiume che ti porta

sogni, gli occhi gonfi di stupori

d’albe, e giorni, passati a non capire

il senso e la scrittura delle cose

nel Libro senza fine onnipresente

che abbraccia, che innamora, che respinge:

linguaggio che alla fine del tuo tempo

avrai imparato appena a compitare,

e non riesci ancora ma lo senti

che in qualche modo ovunque

ne fai parte:

lo senti, sì, e oscuramente sai

che tutto questo è bene, questo

è giusto

che taccia dentro la ragione eterna.

E tace, infatti, ostinata ammuta

l’armonia di un ordine che spiega

che cosa nel silenzio lo governa.

   

La verità resta indecidibile

e le parole ci girano intorno:

non la conosci, non ti apparterranno,

mai niente che lo merita davvero.

   

Euridice, sai, scompare dentro il nulla

se la vedi… ma affiora nei tuoi occhi

quando ignori la sua voce

nei pensieri: come una bestemmia.

   

***

MITO

 

Cercavo l’asola del tempo

per scucire il misterioso vestimento

delle cose, l’impronta atavica

di sotto del molteplice apparente.

Mi dissero dell’acqua,

“vai all’acqua”:

tornare alle sue strade

primordiali.

Mi immersi giù nel regno delle Madri.

Mi aggrappai al seno sconfinato

di una grande Notte femminile

succhiando – ubriaco di vita

il principio della totalità:

eredità di terra prenatale.

Era una grotta immensa di schisti

di stalattiti cosmiche e stellari:

un antro di splendenti apparizioni.

I corpi rivelavano spontaneamente

il gioco dell’amore e della morte

iscritto dentro al cerchio

della vita, nelle stagioni umane.

Mordevo, ebbro, la bellezza del mondo

sorretto da forze terrene e – in egual misura

da spiriti celesti e soffi rari.

Vidi Urano tenebroso, muto,

custodire la sorgente prima,

lo spazio e il tempo originari,

e poi, più in là, l’impensabile inizio,

il limite più fondo ed assoluto.

Fluttuai, a ritroso, nella liquida oscurità:

era uno spazio nero che splendeva.

Ascoltai le memorie dell’Oceano:

c’era il mistero della storia

e il racconto mitico dell’uomo.

Vidi staccarsi, dalla fenditura

che il tempo nel suo inizio ha procurato

e da cui sgorga ancora, una figura

familiare, non riconoscibile

in un vapore di riflessi ipnotici:

si dissolse istantaneamente,

dopo millenni e millenni

di attesa. Ero giunto appena

per coglierne il guizzo, la strana

silenziosa apparizione: la mia vita

dunque, non era stata vana.

   

Le acque della morte, inesorabili

si chiusero per sempre su di me.

   

***

ALTROVE

   

«Se ti conosco uguale non ti vedo»

dissi in uno sguardo alla Signora

biancafalce, dolce, inesorata

che giunse all’improvviso dal profondo.

Il volto cereo, gli occhi violacei

la bocca stretta stretta e cinerina.

«Tu, qui. Perché ora?» aggiunsi.

«Perché dopo?» replicò immediata.

«Lo sanno gli specchi del mondo

il motivo del silenzio che li tiene?

Così voi… »

«Crudele, maledetta, puttana»

rosi masticando in mezzo ai denti.

«Erri… sono innocenti

le mie intenzioni. Non ho colpa

se ci devo stare: sono costretta a fare

ciò che sempre, da sempre, faccio

per l’eternità».

«Tu non soffri mai, tu fai soffrire».

«Non è vero. Piango senza lacrime

apparenti, la memoria dei corpi

che ho reciso: e c’è una voce

interna che mi detta nel silenzio

le parole».

«Non sono ancora pronto», gnaulai

con un singhiozzo di disperazione.

«Nessuno mai lo sarà» appose

a un brivido di gelo che mi strinse

in pugno il cuore. Del vuoto, ostaggio

precipite straniero inospitale

«io angelo senz’ala che non trova

la sua dimensione, voglio tempo:

ho ancora tante cose da pensare.

La vivezza persuasiva dei colori.

La penombra mercuriale dei confini.

Il cristallo liquido dei giorni.

E della vita dolce il volto puro,

la forma lucisferica essenziale.

Il respiro quieto di una casa.

E il sorriso ironico del giorno

contro i vetri.

Le ore dentro gli angoli nascosti

di gorghi ristagnanti e polverosi

lo spazio imponderabile assoluto

− un tanfo d’aria fredda, cupa

bottiglia ribollente di formiche –

parole volti musiche visioni

dei leoni che rombano orizzonti

negli occhi gialli e stretti dei serpenti

e i pesci negli stomaci

e i lecci degli oceani: siamo tutti

fusi nello stampo dell’orrore

ovunque unico e diverso

come l’amore».

«Evitate se potete definizioni:

l’orecchio delle nuvole vi ascolta».

«Dammi un’altra scelta, una seconda

possibilità: non voglio abbandonare

l’universo».

«Non avere paura: è soltanto

una trasformazione. Non è possibile

quello che mi chiedi. La vita umana è una:

e la tua, ora, si conclude qua.

Dobbiamo andare».

E andammo. Rimisi il mio spirito

al creatore, all’immenso mutamento

universale. Baciai l’acqua del mare

onda dopo onda, spuma dopo spuma

tra le squame luminose in movimento.

Mi trasfusi nell’erba, nel vento

lungo le curve del cielo

pei canali scavati nel vuoto

l’aria aperta all’aria

scosciando, scivolandomi addosso

l’invisibile nebbia dell’incorporeità.

E fui erba, cielo, vento, aria e tempo.

Seppi che sbagliamo sempre a vedere,

profeti del passato che non torna

amleti del futuro che ritorna

nella totalità. Divenni un drappo nero

viola e d’oro, ondulante

in volo sulla testa della gente:

lo vidi nascere dall’eternità

dal buco gorgogliante della vita.

Quando?

Ora e altrove, separati da un velo

impercettibile, sottile:

la porta è sempre semiaperta,

eravamo noi a non volere

il varco della liberazione.

C’è un corridoio interminabile di tenebre

e uno stelo di luce radiosa

nella profondità. Vi entrammo di nuovo

nel ventre caldo e rosso della madre

e ascoltammo la segreta musica

del cosmo, nell’istante fermo

della totalità, del silenzio

da cui fummo condivisi

come un pane spezzato da più mani.

   

***

Ora sono cosa in ogni cosa

mescolato a tutto e in fondo a niente,

parte dell’eterno divenire

aria del blu. Trasparente

sono e non sono: essere m’è

vedermi, residuo, dal mondo

che sorge silenzioso dentro sé

intimamente fuori, frammisto,

come quello che non ho più visto…

Scomparso giù nel lago dei miei occhi.

Non tornerò mai più.

   

***

D’IO

   

Ora mi guarda allo specchio

dallo specchio che rimanda

la mia faccia:

ecco che lui mi guardo

altro, lontano, diverso

stessa prossimale alterità

come l’universo

che è qui – e insieme

tutto altrove.

Mi vedo-riconosco

dunque io?

Poi, mi guardo vedermi

vedo che mi guarda

che mi vedo

che mi

che lo

che…

È nella vertigine

di questo grande abisso minimale

in questo gioco

che si spalanca il mondo

e sento d’io

la lontananza

il tempo, la caduta

il dolce male…

Siamo, tutti, polvere

e materia: carne

di greve imperfezione,

inanità…

   

***

METAFISICA

   

Il lampo che lo aprì

il mondo chiude.

E il buio profondo

l’inghiotte.

È notte,

notte in pieno

giorno.

Tutto il vuoto si riempie

e non c’è spazio:

entra nel suo cuore

ogni contorno,

cede ogni dettaglio.

Il tempo si rovescia

al proprio interno

e comincia a scorrere

al contrario.

Siamo riflessi labili di un sogno:

questo, forse.

I nostri doppi nel mondo parallelo

si muovono in senso speculare.

Le ombre inquiete, animate

sulle pareti della grotta a mare.

È la controstoria?

È l’antimateria?

La dimensione persa

o la vittoria?

Noi siamo quello di noi due

che adesso veglia

mentre l’altro dorme.

   

***

RIVELAZIONE

   

E tu, naufrago dell’universo

siderale vagabondo nell’eterno

nulla, solo, ubriaco di silenzio

navigando pienezze sconfinate

di vuoto e immensità

d’improvviso, forse, un giorno

vedrai emergere per caso

dall’imbuto del profondo mancamento

questa bella madre blu:

radiosa, sfolgorante in mezzo

al nero.

Passerà sul tuo volto in un bagliore

l’ombra diafana del dio

che ci accomuna a te.

Ci riconosceremo.

Sarà come prendersi per mano

e ritrovare insieme

la strada del ritorno.

   

***

IL MISTERO

 

è ovunque intorno a noi,

è dentro a ciò che siamo,

è in ogni cosa. Anche le stelle

più lontane sono qui.

Il cielo inizia a un pelo dalla terra

perché la terra è nel cielo

un pianeta che rotola pel cosmo.

Quest’energia tremenda, silenziosa

prorompente, è la stessa che

sonnecchia dentro il seme:

la scintilla che divampa alle radici

e sospinge lo sviluppo della vita.

Guarda le zolle di un campo

o le foglie di un bosco

o i granelli di sabbia

in riva al mare:

è come contemplare

un firmamento

di particole uniche,

un labirinto

di presenze singolari

identità.

La riserva inesauribile di senso.

Lo splendore muto delle cose.

Il prodigio che non finisce.

Guarda, in un prato

come fluisce il palpito del vento

che si comunica ai fili d’erba

verdissimi, lucenti, rigogliosi:

come mareggia d’onde

d’oro il grano gonfio.

È la clemente solitudine dei luoghi:

il silenzio, che dorme sopra i mari

e intorno ai monti, mentre la vita

ferve e la nuvola va,

ombra di mutevole armonia

è l’euritmia che vibra dentro l’aria

nel corpo vivo della madre terra

il fuoco azzurro della sua cintura

la grande verità della natura:

il mistero è qua!

   

***

UN GRANDE ADDIO

   

La vita è l’arte dell’addio:

è lunga l’arte dell’addio

per imparare ad accettarlo

che la vita è tutto un addio

interminatamente

inesorabilmente

istante dopo istante

un grande addio.

   

***

PAROLA

   

L’universo è una parola:

l’unica vera,

l’unica non nostra.

Una parola che significa di sé

senza referente.

Una parola assoluta

dai sensi e dai suoni infiniti.

Una parola incisa nel silenzio

come una ferita.

Ora: il grande silenzio

dell’universo

è il silenzio che precede

questa parola

se si deve ancora dire

o dire ancora…

o quello che segue la parola

che nell’universo già si disse…

o è il silenzio la parola

che l’universo è e dice

e la parola che noi stessi

gli dobbiamo e ci dobbiamo

rispondere?

E ancora: l’unica parola

che si dice da sé, nell’essere,

oppure, come tutte le parole,

ha bisogno di qualcuno

che la dica?

Chi è che pronunciò

la parola dell’universo?

Chi deve dirla

o continuare a dirla?

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