Ortografia e interpunzione, di Vincenzo Guarracino.
“Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sta a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremmo dipingere, o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee”.
È un gesto di impazienza, un’espressione di vivo disagio nei confronti di una consuetudine di scrittura che in nome di una presunta norma ortografica buca e interrompe nervosamente i discorsi spezzandone il flusso di pensieri e sentimenti con pause artificiose tra proposizioni e parole, quello cui Leopardi ci mette di fronte in questo passo dello Zibaldone (975-977, 22 aprile 1821), che, se non nei toni, viene ripreso nella sostanza anche in un altro celebre passo, la lettera a Pietro Brighenti del 5 dicembre 1823, dove il poeta si dichiara “sofistichissimo” in fatto di interpunzione.
Lasciamo stare i cinesi, peraltro altrove riconosciuti come “civili in diversissimo modo da noi” (Zibaldone, 1570) pur con la stranezza (anzi “mancanza”) di un loro alfabeto, ma la concezione espressa nel passo zibaldoniano ci sorprende per la sua singolarità: come un rigurgito fastidioso, un’improvvisa impuntatura contro fantasmi incomprensibili, sintomo di un rifiuto della “moda” (figlia della Caducità e “sorella” della Morte, come è proclamata nelle Operette morali, cfr. Dialogo della Moda e della Morte), che si traduce nel vezzo di certi contemporanei di disprezzare la dura fatica dello “stile”, privilegiando allo “scrivere” la pretesa di “rappresentare” le idee attraverso i segni, alla maniera dell’”infanzia”.
Un’incapacità di “significare con le parole” che si traduce nel risibile tentativo di “rappresentare” baloccandosi con i segni o con i suoni, come fanno i bambini, o peggio ancora come si fa con i bambini. In questo senso si capisce il disappunto nei confronti dei romantici, espresso anche già altrove nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (1818) e qui ribadito con forza e circostanziati riferimenti: “E che difficoltà nell’esprimere il calpestio dei cavalli col trap trap trap, e che il suono de’ campanelli col tin tin tin come fanno i romantici?…Questa è l’imitazione delle balie, e de’ saltimbanchi, ed è tutt’una con quella che si fa nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni, sconosciutissimi, e con ragione a tutti gli antichi e sommi”.
Non che Leopardi disprezzi l’”imitazione”, tutt’altro. È ben “fonte di diletto” (Zib., 3, 6), l’imitazione, e la facoltà di imitare è “una delle parti principali dell’ingegno umano” (Zib., 1364-1365), soprattutto ove questa significhi “capacità di assuefazione” (ivi, 1553-1554). Ma è che essa, come “capacità di assuefazione” (ivi, 1553-1554), vale nella vita, nelle dinamiche dell’apprendimento, non nell’ambito della esplorazione dei propri moti del cuore, della propria “anima”. Una cosa è imparare e crescere, un’altra è la poesia: “Il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I’ mi son un che quando Natura parla ec., vera definizione del poeta. Così il poeta non è imitatore se non di se stesso. Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente non è più poesia…” (ivi, 4372-4373).
Contro una pratica che rischia di ridurla ad un’”algebra”, a una tavola di bizzarri e incomprensibili “geroglifici”, su cui si esalta un narcisistico bisogno di stupire gli altri sollecitandone una convenzionale ammirazione, Leopardi rivendica alla scrittura, anche sotto il solo profilo grafico e visivo, la sua qualità di espressione di un’esigenza vitale, profonda e personale, che non sopporta ostacoli e pastoie, “ingombri”, nel dar corpo attraverso le parole al sentimento: saper scrivere, ossia scrivere il proprio sapere della vita, scri/vi/vere, insomma, senza ricorrere a espedienti che anziché valorizzare, rallentano e mortificano l’io nella sua ricerca di spazio, di libertà, di respiro, costringendone l’ansia dentro maschere e mimetiche gabbie. In re non in verbo, insomma, nella cosa cioè non nella sua forma espressiva, non meno che per l’infelice Bruto (Zib., 523), risiede anche per Leopardi la via della conoscenza che si snoda attraverso la scrittura, intesa come filo di una ricerca interminabile che non tollera nodi e interruzioni.
Artifici della repressione e rimozione, dunque, messinscena di una pratica dell’interdizione, in altri termini una censura che passa attraverso il trionfo della discontinuità: cose tutte che attengono all’ambito dei galatei e della “civiltà” piuttosto che alla felicità e animalità del desiderio, del “sentimento che l’anima al presente” (Zibaldone, 4357, 29 agosto 1828), l’unica che davvero il poeta deve perseguire. Non il respiro, bensì imitazioni del respiro; non l’aria, bensì spifferi e barlumi filtrati tra le maglie di una rete attraverso cui la luce dell’infinito si impiglia e si sfrangia in lineette, puntini, spazietti, per lasciar intravedere solo il nero delle sue zone d’ombra: si configurano così i segni di interpunzione, di cui Leopardi fa nella sua scrittura un uso molto peculiare, con un gusto e un ritmo personalissimi, come espressione di un’”altra” prosodia. In prosa non meno che nel verso.