Our African way: Barolong Seboni, di Marisa Cecchetti.
Daniela mi ha fatto conoscere Barolong Seboni, lei che a Gaborone ha scoperto i suoi libri di poesia. E’ il più importante poeta del Botswana. Me li ha portati ed io ho detto perché non tradurli? – E ho cercato i contatti con Seboni. Ci sono voluti cinque anni per trovare una casa editrice che credesse in questo progetto
Quando Daniela è in Africa con Fausto, suo marito – loro sono psichiatri, là vanno in cerca di un ordine più naturale e semplice delle cose, safari di tre settimane con fuoristrada e tenda sul tetto per la notte, a dormire in qualche piazzola di sosta sulle piste del Kalahari, senza guida- io da casa raccolgo le notizie.
Le ho passato i contatti con Barolong.
E’ di lì che è cominciato il cerchio.
Lui le chiede sempre di ripetere il racconto della nostra storia a tutte le persone a cui la presenta. Allora lei ripete: -Vengo in Botswana ormai da sette anni. Qualche anno fa ho visto un tuo libro di poesie etc etc…. Lui sorride compiaciuto. “E’ il cerchio- dice Barolong- il nostro cerchio emotivo e culturale che abbiamo creato tra Europa e Africa. E’ l’assoluto, la perfezione”.
5 Ottobre 2007- Parigi, Aeroporto Charles de Gaulle
-Pronto! Marisa, per favore, scrivi a Barolong che arriveremo a Gaborone domani ma che lo potremo incontrare solo alla fine del viaggio. Che lui ti dia il suo numero di cellulare che mi metto in contatto io per conoscere il luogo e l’ora.
6 ottobre 2007, aeroporto di Johannesburg
-Pronto! Grazie, Marisa. Ho ricevuto il numero di cellulare. Mi ha risposto proprio lui, sai? Io ero emozionantissima e non trovavo le parole…poi ci siamo capiti. Per fortuna lui mi parlava lentamente. Ci incontreremo a cena a Gaborone alla fine del safari.
-Ogni anno – mi racconta Daniela di ritorno da questo viaggio- troviamo Gaborone più estesa e moderna. Abbiamo girato un po’ prima di trovare il ristorante. Molto bello. Due piscine, due ingressi, un grande spazio intorno. Siamo andati alla reception ed abbiamo spiegato che attendevamo lui. Dev’essere molto noto. In effetti tiene una rubrica su un giornale locale ed anche un programma radio. Ci hanno accolti con molta gentilezza e ci hanno detto di attendere nella hall. Io però non lo conoscevo, anche se ho visto la sua foto sulla copertina del libro. Avevo paura di sbagliarmi. Ti immagini come mi sentivo?
-Sì. Ma non credo che ci fossero tanti altri bianchi nella hall. Vi avrebbe riconosciuto lui.
– Vero. Ma io e Fausto eravamo stati in giro nel bush per tre settimane. Ti ho detto che si fa la doccia con il vestito addosso nelle piazzole di sosta, dove c’è un serbatoio da cui scende l’acqua come da un annaffiatoio sospeso. I panni bagnati asciugano subito sotto quella vampa, ma intanto ti danno un po’ di refrigerio. Avevamo cercato qualche capo di abbigliamento più dignitoso, lo avevamo stirato ben bene con le mani. Il ristorante si andava affollando di donne eleganti con abiti colorati e monili, capelli perfettamente in ordine. Luminose e splendide di un’eleganza comunque sobria ma tangibile. Gli uomini in chiari completi estivi. Una festa di bellezza. Io e Fausto, invece, eravamo un po’ polverosi, gli unici bianchi sperduti lì in mezzo, in attesa di chi non conoscevamo, imbarazzati nel nostro Inglese imperfetto.
Ho capito che era lui quando si sono mossi dalla reception per andargli incontro e hanno fatto un cenno verso di noi.
– Com’è?
– Ha un volto gioviale, da uomo mite. Massiccio di corporatura. Parlava lentamente perché ha capito il nostro problema con la lingua. Era emozionato.
-Argomenti di conversazione? E’ lungo il tempo di una cena!
-Abbiamo toccato aspetti della nostra e della loro cultura. Lui quest’anno all’Università tiene un corso su Robert Browning, oltre che su Shakespeare e sulla poesia inglese in genere, come fa di solito. Abbiamo parlato di Firenze, del Cimitero degli Inglesi dove è sepolta Elizabeth Barrett, la moglie di Browning. Del Rinascimento fiorentino e dell’African Renaissance. Ma abbiamo parlato anche di cucina. Ho trovato il coraggio di dirgli che ho scritto un libro di poesie dove si parla anche dell’Africa. Mi ha detto che il prossimo anno mi farà un’intervista per la sua radio. Devo rinforzare il mio Inglese.
Dalla email di Daniela, Molepolole, ottobre 2008
Bisogna che ti descriva la giornata di oggi perché ho paura di dimenticare qualche dettaglio, te la affido, in un certo senso. Barolong è venuto a prenderci in albergo, siamo andati a Molepolole. Già ad ovest di Gaborone si entra in territorio Kwena, la tribù del coccodrillo alla quale lui appartiene. A Molepolole ci ha condotti nel Kgotla, il cui capo attualmente è Sechele III. Barolong era emozionato entrando nel Kgotla, che è semplicemente una piazza circolare delimitata da una recinzione di tronchi di legno. Ci ha fatto subito notare che in Africa è importante che lo spazio sia circolare, al contrario in occidente gli architetti usano linee e angoli. Ci ha spiegato che il circolo rappresenta il concetto di “botho” che è la parola setswana per indicare l’ubuntu, ovvero la interdipendenza reciproca delle persone, la parità, il consenso. Te ne avevo già parlato, ricordi?
Nel Kgotla c’erano diverse strutture, alcune cadenti, ma lui ce le ha mostrate con orgoglio in quanto antiche. Davanti a due di esse c’erano gruppi di persone in attesa. Si stavano svolgendo dei giudizi di fronte o al capo o ai suoi deputati. Si tratta di cause di minore importanza giuridica che, anziché nei tribunali normali, vengono risolte qui. La più grande struttura era per i casi più importanti, la più piccola per quelli meno importanti. Barolong ci ha detto che ogni mattina è dedicata dal capo e dai suoi deputati a risolvere queste questioni, a risolvere conflitti per rappacificare la comunità. Appena ha potuto Capo Sechele III è venuto a salutarci. Era vestito elegante, completo grigio scuro e cravatta. Ha solo trentacinque anni, è un uomo bellissimo. Si è sposato a dicembre scorso, lavora come insegnante in una scuola secondaria e ovviamente rappresenta gli Kwena alla House of Chief.
3 Novembre 2008, email a Barolong
Caro Barolong, sto guardando la tua splendida foto insieme a Fausto vicino al ristorante del tuo amico. Ho visto anche altre foto e Daniela mi ha portato un braccialetto di gusci di uova di struzzo e una collana dal negozio di artigianato del Museo Sechele I. Ho anche una copia della tua poesia. Molepolole, con un grande coccodrillo! In questo modo mi sento più vicina al Botswana. Daniela è molto emozionata per ogni cosa che ha visto ed ogni persona che ha ascoltato. Io penso che il nostro circolo emozionale e culturale sia importante.
Forse le prime bozze del tuo libro saranno pronte entro una quindicina di giorni, come ha detto l’editore. Aspetto con curiosità e fiducia.
A fine Novembre Daniela è venuta a casa mia con un sacco di cose da raccontare. Prima di andare in Botswana quell’anno lei aveva tradotto in Inglese la sua raccolta di poesie e ne aveva fatto dono a Barolong.
-Quando abbiamo incontrato Sechele III a Molepolole, Barolong ha voluto che gli donassi il libro, con dedica che ho scritto davanti a lui. Mi aveva spiegato come salutarlo e come comportarmi. Dovevo dire “Dumena Kgosi” cioè “Ti saluto o capo”. Non dovevo aggiungere frasi superflue, considerato il fatto che il suo tempo era prezioso. Io ho detto che ero molto onorata di conoscere un discendente di capo Sechele I riferendo le cose che sapevo di lui.
So che ha conosciuto Livingston, per esempio, da cui è stato convertito al cristianesimo. Per Livingston, fra l’altro, fu il primo ed unico caso di conversione. Lui era esploratore più che missionario. Barolong mi ha detto che Sechele III – a proposito, lui viene chiamato il capo supremo della tribù, il chief paramount- è stato molto contento di sentirmi parlare del suo antenato, anche se non me lo ha dato molto a vedere. Soprattutto era contento che in un paese lontano come il nostro si sapessero queste cose.
Barolong mi ha detto di informare capo Sechele III che nel mio libro c’è una poesia che parla di Khutze, che è una riserva in territorio Kwena, in pieno Kalahari. Poi il chief paramount è tornato ai suoi impegni.
Ha mandato un suo deputato ad accompagnarci nella visita del Kgotla e Barolong allora ha voluto che dedicassi un libro anche a lui. Quando ho scritto il nome, Sebele, ho chiesto se era discendente di capo Sebele, un altro importante personaggio della storia kwena. In effetti era suo nonno. Quel Sebele che ci ha accompagnato è un capo
Anche Barolong è rimasto sorpreso che lo sapessi e Sebele era visibilmente contento. Sai che quel nonno è venuto in Italia in occasione della seconda guerra mondiale e poi ha chiamato suo figlio Italo? La nostra guida è un capo, ma senza autorità di re. Ci ha detto che molti Kwena vennero a combattere in Italia accanto agli Inglesi e ci ha mostrato una lapide dedicata ai soldati kwena che persero la vita. A questo punto ha pronunciato parole un po’ tese: “Certo che Mussolini, ad allearsi con Hitler…” Sembrava rimproverarci che tanti soldati di colore abbiano perso la vita per liberare l’Europa dalla dittature.
C’era poco da dire. Abbiamo parlato della nostra guerra civile e di quel momento difficile anche per l’Italia.. Per fortuna siamo entrati presto nel Museo dedicato a capo Sechele I. Il mio libro è stato messo nella biblioteca del museo, che è grande…un po’ meno di questi tuoi piccoli scaffali dell’ingresso. Ma ho visto che c’erano dei libroni. Ecco, ora è lì in mezzo.
Poi siamo rimasti soli con Barolong.
Dalla email di Daniela – Gaborone Sun Hotel 20 ottobre 2008
…Barolong ci ha fatto da guida in un villaggio vicino, Mmopi, che ha preso nome da un suo antenato. Ce ne ha mostrato la casa e accanto quelle del nonno, del padre, degli zii, tutte disposte in circolo intorno ad un Kkgotla, uno steccato in semicerchio che ha un focolare davanti. La gente era solita riunirsi lì quando si sedeva il capo Mmopi, gli si mettevano tutti intorno e discutevano questioni per ore. Secondo Barolong nella tradizione batswana e in genere africana, è fondamentale il consenso: ogni capo deve discutere ogni cosa con tutti gli altri, ascoltare tutte le critiche e alla fine esprimere la sua opinione. Ma solo la discussione e il confronto gli danno l’autorevolezza di un capo. C’è un detto: “kgosi ke kgosi ka botho”, cioè “un capo è un capo grazie all’insieme della comunità”. Ritorna il solito concetto di “botho” o “ubuntu”, che è fondamentale nella loro filosofia. Ora lui e i suoi familiari non vivono più lì, ma vi tornano regolarmente e periodicamente per onorare gli antenati. Non è una forma di animismo, ma di rispetto per chi è stato. Lo scorso dicembre vi si sono riuniti tutti i suoi parenti, tra cui alcuni che vivono nel Sudafrica, ne hanno sentito il bisogno. Hanno sacrificato una capra e un bue, hanno mangiato la loro carne. Lui diceva che solo così si onorano gli antenati. Cercava di spiegare queste cose e il loro senso e continuava a tornare sul concetto di circolo, ci ha fatto notare molte volte la stessa disposizione circolare del villaggio. Per loro il tempo è circolare e la custodia della memoria deve coesistere insieme allo sviluppo, in una forma di compromesso ed equilibrio. Sai che al museo ci sono addirittura le “custodi della memoria”? Sono le “Matsoa Ngwao”, donne che hanno il compito di tenere vivo il museo e gli edifici storici. Questi in realtà sono strutture di fango e sterco di vacca, con il tetto d’erba, che loro ristrutturano e ridipingono ogni anno. E’ stato interessante scambiarci informazioni, per esempio lui non conosceva il concetto di mandala, il cerchio secondo Jung , che del resto Jung stesso aveva scoperto in Africa, in Oriente e in altre antiche culture. Mentre gli spiegavo che cosa intende Jung come archetipo della totalità, lui ha detto che in Africa il cerchio è la stessa cosa e che la totalità è legata allo spirito di tutti i membri di una comunità, antenati compresi, che vanno ricordati
Poi siamo andati con lui a Lekadiba Gorge, le rocce sulle colline intorno a Molepolole, e ci ha parlato della sacralità che lui avverte in questi luoghi.
A casa mia Daniela è tornata sul concetto della sacralità e della circolarità
-Lui dice che è importante ricordare di tanto in tanto tutti, così come è importante salutare ogni persona che incontri, perché in questo modo la fai esistere.
– Ma come è possibile? Io cammino per strada e mi metto a salutare tutti? Come si fa sui sentieri di montagna?
– Proprio così, secondo loro. Se non saluti una persona quella sente che per te non esiste, si sente negata, come se parte della sua anima fosse misconosciuta. Anche questo rientra nel concetto di “botho”.
Sono rimasta molto sorpresa la prima volta in Botswana quando persone che non avevo mai visto mi salutavano sorridendo e mi chiedevano “Come stai”. Credevo che mi avessero scambiato per qualcun altro. Poi ci feci l’abitudine, e anch’io sorridevo e salutavo tutti a quel modo, per non apparire maleducata. Certo non avevo idea che così io confermassi la loro anima, e che se non l’avessi fatto l’avrei negata. E ho detto a Barolong che al ritorno in Italia mi è capitato di fare la stessa cosa anche da noi, automaticamente, nei giorni immediatamente successivi, e solo guardando l’espressione stupita degli altri mi accorgevo che ero in Italia e che in Italia non si fa, e che ovviamente stavo apparendo invadente e intrusiva.
E Barolong ha riso, forte come fa lui.
Lui mi parlava di questi concetti con molta semplicità, ma convinto che sia necessario conservarli. Lui sa che un tempo anche in Italia i vincoli relazionali e parentali erano molto forti e rispettati, che lo spirito della famiglia esisteva, che ora in parte sono stati persi. L’Africa non intende perdere i valori legati alle radici culturali. C’è un vasto movimento culturale che vuole mantenere i valori tradizionali africani ed applicarli alla buona politica su larga scala. Si chiama “the African way”. Loro vogliono che la leadership sia condivisa, hanno il terrore della dittatura, della autocrazia e della occidentalizzazione selvaggia”.
5 novembre 2008 – email di Barolong Seboni da Gaborone
Visitare Molepolole è stato molto emozionante anche per me perché Capo Sechele III stesso è venuto a incontrarci e a mostrarci il Kgotla. Li ho portati anche al Kgotla della nostra famiglia ed ho sentito che ero in contatto con i miei antenati. Ho scritto una poesia intitolata Kgotla. Leggila di nuovo e mi capirai. Sono eccitato anche dal tuo progetto di traduzione. La speranza diventa realtà.
Daniela e suo marito sono belle persone. Hai dei buoni amici. Buona fortuna.
Il circolo si è chiuso.
Sfoglio insieme a Daniela Windsons of the Kgalagadi e cerchiamo Lekadiba Gorge: “essendo pietra/non puoi sanguinare/eppure dalle tue aperte/vene/sgorga questo sangue/che sembra sostenere/te”. Poi finiamo nel Kgotla: “Voi eravate là quando Mmopi/Bruciò le ceneri al cuore/Del cerchio comune/Voi vedeste Seboni scavare le ceneri/E portarle in questo posto nuovo/Sotto la collina della tribù di Kwena,/così che potessero accendersi nuovi fuochi/ed altri risvegliarsi/dai tizzoni che riprendono a bruciare/sotto le ceneri” MC
*
Barolong Seboni è nato nel Botswana nel 1957 ed è vissuto a Londra con la famiglia dal 1966 al 1970. Laureatosi all’Università di Gaborone (Botswana) ha insegnato per alcuni anni al Mater Spei College, poi si è trasferito negli USA dove è rimasto dal 1984 al 1987 e lì ha conseguito la specializzazione presso l’Università di Madison-Wisconsin. Ora insegna Letteratura Inglese presso l’Università di Gaborone. E’ membro fondatore della Associazione degli scrittori del Botswana, ama la musica, lavora per una radio ed ha una colonna sul Botswana Guardian. Ha tradotto in Inglese i proverbi del Botswana Tra le sue pubblicazioni: Windsongs of the Kgalagadi, Lovesongs, Images of the Sun, Thinking Allowed, Looking at tomorrow, Songs. In Italia è comparsa una raccolta di poesie tratte da Windsongs of the Kgalagadi e Lovesongs: Nell’aria inquieta del Kalahari, LietoColle 2010, traduzione e cura di Marisa Cecchetti.
Proponiamo una poesia da questa raccolta:
Spring In Harare
There are no seasons
In Africa, they say
Only steaming hot summers
Of thunderous clouds burdened
With rain of the conventional type
And wintry nights whistling
Over the yellow sands of the Kgalagadi.
They say there are no seasons
In Africa, only a hurricane
That whirls through the bush
Like a gigantic spinning top
Leaving broken walls and roofless
Huts in its wake,
Or the hungry harmattan
Eating away the life-giving land
Of the herdsmen, leaving it bare and desolate.
You say there are no seasons in Africa,
Do you forget the raging winds of autumn
That shed the laurels of Rhodesia?
Do you not remember the dusty wind
That slapped two-faced Zimbabwe-Rhodesia,
Spitting and stinging, singing the song
Of future harvests?
Was it not the autumn wind
Seasoned by the will of the people?
Tell me again that
There are no seasons in Africa,
And I will show you the yellowing
Leaves of the English rose among
Mophane forests, green with vigour and strength,
I will show you the withering petals
Of the protea under the sizzling sun of the Namib.
Say there are no seasons in Africa,
I will show you the fading colours of imperial flags;
Red, white, royal blue and the paling orange
Losing its lustre in the heat of the moment:
Weather-beaten crevices of the colonial monuments.
There are no seasons in Africa?
We say spring is here today
Come take a stroll with us
Down Harare or Bulawayo way.
Let the benevolent breeze soothe
Your nostrils with the aroma
Of abundant flora in bud,
Open out your arms to embrace
The newfound freedom breezing
Through the cities and war-weary villages,
And catch the purple confetti floating and falling
On tree-lined pavements, roofs and cars;
A festival of flowers in Harare today,
Spring has come to Zimbabwe to stay:
Jacaranda is in full bloom.
*
Primavera ad Harare
Non ci sono stagioni
in Africa, dicono
solo calde estati che fumano
di nubi tonanti gonfie
di pioggia del tipo convenzionale
e notti invernali che fischiano
sulle sabbie gialle del Kgalagadi.
Dicono che non ci sono stagioni
in Africa, solo un uragano
che sibila attraverso la boscaglia
come una vetta gigantesca che ruota
lasciando muri infranti e capanne
sradicate al suo risveglio,
o il famelico harmattan
che divora la terra vitale
dei mandriani, lasciandola nuda e desolata.
Tu dici che non ci sono stagioni in Africa,
dimentichi i venti furiosi d’autunno
che spargono gli allori di Rodesia?
Non ricordi il vento polveroso
che schiaffeggiava lo Zimbabwe-Rhodesia bifronte,
con soffi e flagelli, cantando il canto
di raccolti futuri?
Non era questo il vento d’autunno
maturato dalla volontà della gente?
Dimmi ancora che
non ci sono stagioni in Africa,
e io ti mostrerò le foglie che ingialliscono
della rosa inglese in mezzo
alle foreste di mophane, verdi di vigore e forza,
ti mostrerò i petali che appassiscono
della protea sotto il sole bollente di Namibia.
Dimmi che non ci sono stagioni in Africa,
ti mostrerò i colori languenti delle bandiere imperiali;
rosso, bianco, blu reale e pallido arancio
che perdono ora il lustro nel calore:
screpolature dei monumenti coloniali
segnate dal tempo.
Non ci sono stagioni in Africa?
Diciamo che oggi è qui la primavera
venuta a far due passi con noi
giù da Harare o da Bulawayo.
La sua brezza benevola vi consoli
le narici con l’aroma
di abbondante flora in boccio,
spalanchi le vostre braccia ad accogliere
il soffio recente di libertà
attraverso le città e i villaggi sfiancati dalla guerra,
e afferri i coriandoli di porpora che fluttuano e cadono
su marciapiedi alberati, tetti ed automobili;
un festival di fiori oggi in Harare,
primavera è venuta in Zimbabwe per restare:
la jacaranda è in piena fioritura.
