Elio Pagliarani: retrospettiva a cura di Vincenzo Frungillo 2

Elio Pagliarani: retrospettiva a cura di Vincenzo Frungillo 2.

   

   

Ho conosciuto Elio Pagliarani nell’inverno del 2005. Avevo deciso di inviargli un mio testo, un lungo poemetto che aveva per soggetto delle giovani donne, mi sembrava che ci fosse un’affinità con La ragazza Carla. In quel periodo mi trovavo a Napoli ed inaspettatamente ho ricevuto sul cellulare una telefonata del poeta. La cosa mi ha sorpreso, ero felice, emozionato. Dopo quella telefonata, ce ne sono state tante altre. Mi parlava dei suoi progetti, avrebbe voluto curare un’antologia di giovani poeti e inserire anche i miei testi. Ma era stanco e malato, non era sicuro di volersi cimentare nell’impresa.
Ho avuto modo di incontrarlo di persona una sola volta, in occasione della festa per i suoi ottant’anni. Eravamo al teatro Colosseo di Roma, ho letto in sua presenza le Ottave milanesi. Lui era seduto in prima fila e accompagnava la mia lettura, come quella di tutti gli altri accorsi per festeggiarlo, con un sorriso entusiasta e un ampio movimento delle mani. Non sembrava sentire il peso dei suoi anni e della malattia, è rimasto con noi in teatro fino a notte tarda. Baudelaire diceva che la generosità è propria dell’uomo di genio ed io non posso che ricordare Elio Pagliarani per la sua enorme generosità. La sua poesia è tra le poche all’altezza dei tempi, tra le poche che riesca a reggere l’urto di un’epoca antipoetica. Mi auguro che questi miei brevi saggi riescano in qualche modo a spiegarne il motivo.
I tre scritti che presento in questo numero monografico dedicato ad Elio Pagliarani fanno parte di un lavoro esegetico più ampio su Lezioni di Fisica e fecaloro. Qui presento la mia interpretazione della prima, della seconda e della quinta lettera comprese nella prima sezione del libro del 1968. Altri interventi sulle “egloghe” sono stati pubblicati in riviste e su blog di critica letteraria. V.F.

    

La pietà oggettiva.

 

La seconda lettera è indirizzata a Luigi Pestalozza critico musicale che ha pubblicato importanti studi sulla musica del novecento. Pagliarani però non si occupa di musica in questa lettera, parla d’amore e di come questo sentimento sia poco adatto a definire se stesso senza la forza e l’intelletto. Con questo secondo componimento il poeta esprime il suo sentimento dominante. Tutto lo scritto cerca di analizzare la possibilità di rendere comune il sentimento di pietà. Una pietà laica nata dall’aver osservato le estreme possibilità dell’uomo ora definito essere, creatura. Il testo in questione inizia dicendo:

Lei personalmente non è che faccia pena, anzi
Ma fa rabbia vedere come una
si butta via così. Quanta violenza
scatenata su sé, quanta passione di bruciare in fretta
senza averne sospetto od ambirne ragione.[1]

Qui l’ironia di Pagliarani ha lo stesso effetto del riso in Baudelaire o, ancora prima, del Witz in Novalis che scriveva a questo proposito: «Nelle anime serene non esiste l’ironia. L’ironia è il segno di un equilibrio disturbato: è la conseguenza del disturbo e al tempo stesso un mezzo per porvi riparo. Le condizioni del disfacimento di tutti i rapporti umani, la disperazione o la morte spirituale, sono le cose più atrocemente comiche.»[2] Lo spazio poetico dunque diventa indagine crudele ed ironica sulle ragioni profonde delle relazioni umane. Proprio perché queste relazioni non sono più garantite dalle strutture sociali tradizionali, la poesia, lo strumento di un io lacerato, deve reinterrogarne il senso. Il primo dei sentimenti che Pagliarani indaga è quello della pietà. Il poeta scrive che la pena non è personale. C’è subito questa presa di distanza dal sentimento della pietà inteso in senso ingenuo, immediato. Il sentimento della pietà era già comparso come incipit di un’altra poesia di Pagliarani. Si tratta di un suo scritto giovanile, Due ottave del diario milanese che risale addirittura al 1948. La poesia ritrae lo scenario di una Milano che cerca di ritrovarsi dopo la fine della seconda guerra mondiale. Le certezze sono crollate e si prepara l’avvento di qualcosa di nuovo. In questo testo troviamo scritto:

Non ho avuto pietà di questa gente
Che mi offende ogni mattina.
Fanciulle senza petto e con la schiena
-come farà a godersele l’amante-
E madri senza petto e con la schiena
Che se un goccio ce n’era l’hanno preso
Uomini con le facce disegnate
E la pelle color di vesti usate.[3]

Ecco, questo incipit somiglia molto a quello di Pietà oggettiva. Cambia però il tono. L’incipit è solenne, perentorio. Il testo accenna all’ottava, la strofa della narrazione epica in Italia, anche se non ne segue lo schema di rime di versi alternati e baciati. Restano solo gli ultimi due versi baciati a dare forza alla chiusa della strofa. Si tratta di due ottave che presentano lo scenario del dopoguerra a Milano, dove il poeta si è trasferito per lavorare prima in azienda e poi nella scuola. L’ultima ottava recita:

Tipi di questa fatta dove ho visto?
Ho visto dei barattoli di latta
(a Porta Ticinese, in baracconi
Come casini pieni di soldati)
Drizzati su una mensola, il pupazzo
Meccanico invitava: Tira, tira,
tre palle un soldo e in premio una bottiglia.
Ma la mia faccia, mamma, gli assomiglia.[4]

Le due ottave rappresentano qui la personale fenomenologia di un sentimento. Alla fine della composizione troviamo i bei versi staccati e apodittici che recitano Ma la mia faccia, mamma, gli assomiglia. Si può leggere in questi l’identificazione dell’io poetico con il pupazzo costretto a subire i tiri delle palline. I suoi occhi sono quelli che vengono trafitti dalle brutture del quotidiano e la sua faccia prende le sembianze del quotidiano. Anche in questo componimento la pietà non è quella per le persone, come è detto nei primi due versi del componimento, bensì è la pietà oggettiva per tutto ciò che accade nel suo spazio visivo: pietà per gli oggetti, per il pupazzo, per lo spazio, per il suo tempo. Ciò che avviene in questo testo è una rivoluzione copernicana in cui non è più lo spazio infinito che il poeta sperimenta grazie alla scoperta dell’immaterialità delle cose assorbite nella temporalità dell’io ma viceversa sono le cose del mondo che ora minacciano l’io con la loro spazialità (un rovesciamento del famoso infinito leopardiano quindi). L’epos di Pagliarani allude proprio a questa svolta fondamentale. L’ottocento viene lasciato alle spalle grazie o a causa di questo passaggio. In Pagliarani agisce la lezione di Eliot, Brecht, Pound e Majakovskij (come non pensare ai suoi versi Ma io parlo solo con le insegne….). Lo spazio però non è ancora quello che si sottrae così come inizia ad intravedersi nella Ragazza Carla. Potremmo dire che il poeta agisce in un mondo in cui la comunità è in crisi ma ancora esiste, perché ancora esiste uno spazio, seppur distorto, che si organizzava intorno a corpi distorti (fanciulle senza petto … madri senza petto … uomini con le facce disegnate e la pelle color di veste usate.)[5] Nel 1960, è stato Italo Calvino a richiamare l’attenzione sui mutamenti che stavano avvenendo in letteratura con la poetica dell’informale delle neoavanguardie. In questa occasione Calvino dà vita alla famosa espressione il mare dell’oggettività accusando la tendenza della nuova poesia di osservare la storia a partire “dal punto di vista del magma”[6]. La polemica di Calvino riguardava evidentemente la perdita di una visione razionalistica della storia. Nelle pagine del suo famoso intervento troviamo ancora scritto: “Anche qui è il mare del tutto che dilaga e la poesia non può essere che mimesi extra soggettiva della totalità, come la critica mimesi della poesia. Se il tutto diventa metro e ragione dell’uno, se la ragione dell’universo trionfa su quella dell’uomo, è la fine del fare, della storia. Il barbaglio della ragione dell’universo è la luce quando giunge a illuminare la vicenda limitata e ostinata del fare umano; ma se si sostituisce ad essa è ritorno all’indistinto crogiuolo originario.” . Alla critica di Calvino rispose immediatamente Renato Barilli sul Verri opponendosi allo “stoicismo” di Calvino definendolo un “velleitarismo moralistico” perché espresso da un autore che si credeva scisso dalla realtà.[7] Ora l’egloga sulla pietà oggettiva di Pagliarani risente di questa disputa teorica. L’io di Pagliarani non scompare del tutto dalla pagina, si fa piuttosto diapason doloroso che registra le presenze che lo circondano, attesta lo spazio che lo circonda. L’io del poeta emiliano non è quello borghese, razionalista e cartesiano, né però scompare dalla pagina lasciando emergere il magma informe della storia, come pure è accaduto in alcuni testi delle neo avanguardie, in particolare nei primi testi sperimentali di Balestrini. In Pagliarani l’io si presenta come frattura dolorosa. L’io è lo spazio che risulta da un differenza tutta interna alla storia. La misura della differenza non è data da una certezza propria dell’io (che essa sia cognitiva, ontologica, psicologica) ma dal sobbalzo che l’io affronta ogni volta che si trova ad affrontare una presenza. Ora bisogna chiedersi: rispetto alla pietà del 1948, cosa cambia nella Pietà oggettiva di Lezioni di fisica? E’ subentrata intanto nella poesia di Pagliarani la legge che regola il macrocosmo ossia la legge dell’indeterminazione (soggetto non casuale della lettera su il corpo nero e la fisica quantistica) e con essa la frammentazione dei corpi e dello spazio. Il poeta per applicare la pietà deve interrogare le forze, deve rimettere in discussione la sua stessa capacità di patire il reale. Nei versi iniziali della Pietà oggettiva la rabbia scaturisce proprio perché il buttarsi via, dell’amante, non permette un’equivalenza di destino. Nel suo amore, non c’è ragione, non c’è uso d’intelletto e quindi di forza che permetta il riconoscimento dell’unicità di destino nella sua vicenda personale. L’amore stilnovistico non basta perché il corpo dell’amante non si vede, c’è bisogno di forza ed intelletto:

E lei da tempo non fa pena
Anzi discosta, paralizza, perché pena
Presuppone una sorte che tu senta
Compagna, che ci sia un’equivalenza
Accetta, la serie dei possibili impostata
Come gli addendi in somma, che il totale
Non muta se mi trovo io al tuo posto.[8]

Subito dopo questi versi troviamo ancora due versi fantastici per precisione e che potrebbero essere sottoscritti da un Nietzsche o da un Wittgenstein :

Ma non capisci che ogni sua bugia
Non è menzogna e che perciò m’offende?[9]

Ciò che offende è ciò che ferisce e ciò che ferisce è ciò che fallisce. Il fallimento è nel credere nella casualità delle esistenze e delle proprie strategie di sopravvivenza. Il poeta non è né ingenuo né sentimentale, il poeta ora si presenta come continuo fondatore di mondo. Il suo sforzo, la sua forza, consiste nel salvare un mondo e non il mondo. Ma questa è anche la sua menzogna. Dopo aver abbozzato frammenti di una storia d’amore, Pagliarani ci regala altri cinque versi che spiccano in quanto a pensiero negativo. Qui viene confermato quanto si è detto riguardo alla svolta che il poeta avverte rispetto alle poetiche dell’800:

Lo vedi anche tu
Siamo in un ottocento d’appendice; non si può cavarne una storia
Nemmeno da mettere in versi: ci sono esperienze
Che non servono a niente che si inscrivono
Come puro passivo.[10]

Il finale della composizione arriva con un “brutto commiato”:

[…]Certo
qui non si salva la tua età né la mia faccia
vorrei vedere che non fosse così
che si compisse nei versi la catarsi che bastasse
questa pietà oggettiva che ci agghiaccia.

La faccia del poeta e quella dell’amante non si salvano, contrariamente a quanto accadeva nelle Due ottave dal diario milanese, dove c’era riconoscimento. Qui il poeta invoca la pietà oggettiva che agghiaccia, invoca lo spazio della poesia come luogo di forza e di resistenza alla dispersione. L’atto d’amore finale del poeta è nella riflessione poetica. Non si salvano i corpi ma lo spazio e quindi l’amorosa riflessione sulle identità in gioco. La pietà oggettiva è appunto questo.

     

___________________

[1]Lezionidi fisica e Fecaloro, Tutte le poesie, Garzanti, 2006, p. 166.
[2]La citazione di Novalis è ripresa dal saggio di Montesano Giuseppe, Il ribelle in guanti rosa, Milano, Mondatori, 2007, p. 303, che tratta l’aspetto insolito di un Baudelaire rivoltoso e deluso dall’esito dei moti rivoluzionari del 1848.
[3]Pagliarani Elio, Cronache e altre poesie, 1954, in op. cit.
[4]Ibidem.
[5]Cortellessa Andrea, La parola che balla, in Pagliarani, Tutte le poesie, op. cit. p. 11, scrive a questo proposito: «La percezione dell’uomo-cosa, a differenza che in tanto espressionismo e crepuscolarismo, non risparmia il soggetto. E’ questo il più forte elemento di novità, anche perturbante, di Cronache.»
[6]Calvino Italo, Il mare dell’oggettività, in «Il menabò di letteratura», n. 2, Einaudi, Torino, 1960, ora in Una pietra sopra, Mondatori, Milano, 2002, p. 47, scriveva: «Non mi pare che ci siamo ancora resi conto della svolta che si è operata, negli ultimi sette o otto anni, nella letteratura, nell’arte, nelle attività conoscitive più varie e nel nostro stesso atteggiamento verso il mondo. Da una cultura basata sul rapporto e contrasto tra due termini, da una parte la coscienza la volontà il giudizio individuali e dall’altra il mondo oggettivo, stiamo passando o siamo passati a una cultura in cui quel primo termine è sommerso dal mare dell’oggettività, dal flusso interrotto di ciò che esiste.»
[7]Ibidem p. 52. Barilli polemizza con “l’umanesimo acronico” di Calvino che esercita la ragione come se questa fosse un organo avulso dalla storia, come se la stessa ragione non dovesse di volta in volta essere riconfermata con i materiali che la storia ci offre. Barilli scrive a questo proposito, Barilli Renato, Il mare dell’oggettività, «Il Verri», n. 2 1960, poi in La barriera del naturalismo, pp. 271-275 ora in Barilli R.-Guglielmi A., Gruppo 63. Critica e teoria, Testo&Immagine, Torino, 2003, p. 136,: “Converrà al contrario che non esiste un’unica ragione , un’unica consapevolezza, che ogni tempo se ne è dovuta costituire una tutta sua peculiare, con duri stenti e fatiche, provvedendo a rimuovere le forme lasciate in eredità dai precedenti divenute frattanto vuote, pseudorazionali.” Nello steso intervento Barilli, Ibidem p. 137, sollecitato dalle citazioni di Calvino, parlava dell’intenzionalità di Husserl ripresa da Sartre come “la scoperta delle cose nel loro esserci, nel loro darsi alla coscienza in carne ed ossa (e non già attraverso simboli, segni di un noumeno, di un misterioso e inconoscibile in sé.”
[8]Pagliarani Elio, Lezioni di Fisica e Fecaloro, op. cit. p. 164.
[9]Ibidem. 166.
[10]Ibidem.

                     

Dismaland, foto Iain Brimecome e Jon Goff, courtesy streetartnews
Dismaland, foto Iain Brimecome e Jon Goff, courtesy streetartnews

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