Intervista a Francesco Sassetto

Paolo Polvani intervista Francesco Sassetto.

 

    

Parlando di te in un verso affermi: “Coi piedi piantati sulla terra e gli occhi/ alle nuvole che vanno…”. Oltre che una bellissima immagine, non pensi che definisca il prototipo dell’uomo responsabile, radicato nei problemi della contemporaneità e tuttavia capace ancora di sognare?

Francesco SassettoSì, credo tu abbia ragione. La poesia cui ti riferisci, “Cinquant’anni di treni e di stazioni”, una sorta di “autoritratto”, vuole proprio sottolineare questa ambivalenza. La razionalità, il fare sempre i conti con la realtà e la fatica di vivere, senza finzioni o facili illusioni consolatorie e, insieme, il bisogno di guardare in alto, di interrogarsi sul grande mistero dell’esistenza, sapendo bene la nostra piccolezza ma anche lo sforzo quotidiano di capire, di “sbrogliare questo intrico di rovi/ tra ferite e bellezza”. E tentare di intravvedere, se esiste, “la maglia rotta nella rete/ che ci stringe”, come scriveva Montale, il poeta da me più amato, più letto e riletto. E, a volte, sognare ancora, sognare qualcosa di diverso dalla vita di ogni giorno, qualcosa di più sapido, più vero.

Sempre nella stessa poesia parli di “questo desolato teatro che non mi appartiene..” Quanto pensi sia diffuso questo senso di disagio?

Mah, credo sia più diffuso di quanto possa sembrare, almeno per la mia generazione passata, nel giro di meno di due decenni, dalla macchina da scrivere al computer, dalla televisione ad Internet, una generazione che ha perduto ogni “padre” ed ogni punto di riferimento, politico, culturale, etico. E che, respingendo i miti e le pericolose idiozie oggi vincenti, vive uno smarrimento, un vuoto che appare senza rimedio, e vede un orizzonte fosco, che non fa presagire nulla di buono. Questa convinzione mi viene anche dalle molte attestazioni di stima, di condivisione che suscitano le mie poesie e quelle di molti altri amici. Se tanti si ritrovano in ciò che scriviamo, allora forse siamo veramente interpreti di un disagio, un malessere molto largo.

Nel tuo libro si alternano poesie in italiano a poesie in dialetto. Quali le motivazioni a monte della scelta ?

Io ho sempre parlato indifferentemente in italiano e in veneziano, e amo il dialetto veneziano. In poesia può essere un formidabile strumento espressivo perché è la lingua più vera, schietta, quella del “pappa” e del “dindi”, una lingua arcaica e viscerale. Ho sempre usato il dialetto per esprimere la realtà più intima, lo smarrimento, il disagio, le domande assidue sul senso – o l’assenza di senso – dell’esistenza, come nelle poesie Peoci e Background.  Lo uso tuttavia con parsimonia, quando cerco un suono o un’espressione, un vocabolo assolutamente intraducibile in italiano e di forte impatto emotivo. L’amico Francesco Tomada ha detto, parlando della raccolta Background, che scrivo “con il cuore nel dialetto e la bocca nell’italiano”. E’ vero. L’italiano è la lingua del discorso, della razionalità, il dialetto sgorga dal profondo, è la lingua dell’anima.

L‘uso del dialetto oggi sta uscendo dalla marginalità  in cui negli scorsi anni era stato relegato. Secondo te si tratta di un atteggiamento che contiene il germe dell’innovazione? E’ legata a  un  particolarismo geografico? E’ una scelta conservatrice?

Sono convinto che il dialetto costituisca una grande possibilità per chi scrive poesia. Può avere un’efficacia, un’incisività, una risonanza emotiva uniche. Preferisco decisamente tentare il dialetto che perseguire pseudo sperimentalismi linguistico-stilistici spesso velleitari e modaioli. Detesto, invece, l’uso, strumentale e ideologico che viene fatto del dialetto (non solo del veneziano): esso è sì un forte segno di identità, di appartenenza, ma mai di chiusura, di assurda difesa di una presunta “casa nostra” tanto più ridicola a Venezia, città da sempre cosmopolita, aperta a diverse culture e conoscenze. Cercare di fare del dialetto una bandiera di partito, un segno tangibile di “appartenenza veneta” è pura idiozia (e ricordo quanto tale maldestro tentativo leghista facesse arrabbiare il compianto Andrea Zanzotto). Anzi, ritengo che il dialetto possa essere, al contrario, uno strumento molto efficace, una lama affilata che bene si presta ad una poesia “civile”, sia in forza del suo radicamento nella realtà del territorio, sia perché consente un dettato poetico più crudo e roco, intriso di un malessere che si esprime con voce ancora più amara e sferzante. Questo ho cercato di fare in poesie come Foresti e Toni, ad esempio, che puntano il dito contro Venezia, una città diventata “prostituta”, dove conta solo il denaro, le categorie “forti” hanno vinto, ed un turismo fuori da ogni controllo – ma necessario ad alimentare grossi e incontrollati guadagni di pochi –  ha assunto dimensioni distruttive.

Lavorando nella scuola godi di un osservatorio privilegiato. Quali responsabilità ha la scuola nei confronti della poesia ?

bansky smash the systemFaccio l’insegnante di italiano da più di vent’anni (sedici dei quali da precario, con supplenze annuali, negli istituti superiori, e da otto di ruolo, nella Scuola Media di Preganziol, in provincia di Treviso) ed è un lavoro che mi piace, malgrado sia sempre più stressante e per i tagli ministeriali e per il rapido e radicale degrado di una società che sta cancellando, di fatto, l’idea stessa di cultura e di conoscenza. Tuttavia, malgrado le difficoltà, le fatiche, lo stipendio sempre più magro, è un mestiere che mi riserva ancora, nel rapporto con giovani che stanno crescendo, momenti di intensità e verità umana. Anche se diventano sempre più difficili e più rari. Da un lato vivo una scuola allo sfacelo, luogo sempre meno di formazione dei futuri cittadini e sempre più di accumulo demente di carte e circolari, ordinanze e procedure insensate, dall’altro un popolo di adolescenti allo sbando, riempiti di beni materiali e sempre più soli, vuoti e violenti, in un’assenza pressoché totale di “padri” e di “valori”, prodotto e specchio di una società rapidamente e malamente arricchita, rimbambiti da slogan, pregiudizi, ignoranza, dall’idiozia televisiva ed il vuoto tecnologico, dalle frasi fatte, dalla paura dell’altro, del “diverso”, spesso trasmesse dalla famiglia e dall’ambiente. Ho scritto su ciò alcune poesie, come Oggi a scuola c’è Foscolo e Ha detto ‘negro di merda’, che, credo possano raffigurare realisticamente in quale melma si dibatta oggi la scuola. Proporre un’educazione alla poesia è assai arduo, almeno per due ragioni. Il poeta è avvertito in modo molto falsato e retorico (e parte di responsabilità va proprio alla scuola stessa che ha imposto, per decenni, “canoni” obbligatori di autori da mandare giù a memoria), percepito come uno “sfigato” che si diletta di astrattezze romantiche o pessimismi cosmici, lontano anni luce dalla realtà presente. Dall’altro, i giovani faticano molto ad apprezzare, sentire, gustare la parola, l’immagine, la metafora, l’aspetto polisemico del testo poetico li confonde e li disturba, sono troppo abituati ad un pensiero elementare e letterale e ad una comunicazione veloce, rapidamente fruibile ed eliminabile, abbagliati e intontiti da un caleidoscopio di immagini in continuo movimento. Non mancano certo casi di ragazzi affascinati dalla poesia, ma sono ben pochi. Alcuni anni fa avevo organizzato un “Laboratorio di Poesia” in cui si leggevano, si studiavano, e si scrivevano poesie, in piccoli gruppi. Il risultato era stato incoraggiante. Alcuni ragazzi avevano scritto componimenti davvero notevoli (raccolti in volumetti a spese dell’amministrazione locale). Poi, con i tagli ai fondi scolastici ed ai Comuni, non c’erano più né soldi né personale, il “Laboratorio” (come altri, di musica, di fotografia, di teatro…) sparì nel nulla. Che può fare per la poesia una scuola costretta a elemosinare denaro per la carta igienica e per le fotocopie?

Quali sono i motivi per cui il pubblico della poesia è così esiguo?

In molte civiltà antiche i poeti riempivano le piazze, ed in alcuni paesi europei e non, ciò accade anche oggi. In Italia la situazione è molto diversa e la conosciamo tutti benissimo. I poeti “veri” sono quelli “consacrati” dai grossi editori che non “rischiano” quasi mai proponendo un autore che non sia già noto ad un ampio pubblico e sostenuto da adeguato battage pubblicitario. I molti altri poeti sono guardati con sospetto e ironia, come bambinoni sfaccendati che intessono rime e giochi di parole, sgorgando come fiumi in piena delusioni d’amore e malesseri personali, vocianti di primavere e di mamme e delle buone cose del tempo andato. Non credo di esagerare. Credo sia questa l’immagine odierna, in Italia, di chi si dedica alla poesia. Penso che ciò derivi dalla secolare tradizione retorico-letteraria italiana che ha sempre sottolineato l’aspetto eccezionale della figura del poeta, dal “padre della lingua italiana” al “vate”, da venerare e studiare, ma con cui, ben difficilmente e raramente, immedesimarsi, come ho già detto. Quindi, i “veri” poeti sono, anche oggi, i poeti “laureati”. E non possono che essere pochissimi. E ad essi vanno tributati tutti gli onori. Mi sono sempre chiesto quanti, tra tutti coloro che affollavano Piazza del Duomo a Milano nel 1981, ai funerali di Montale, avessero letto davvero le sue poesie. Ed un’altra ragione credo sia da ricercare nell’apparente “facilità” e “povertà” della poesia. Bastano carta e penna e un po’ di fantasia per scrivere poesie, qualche rima baciata, qualche descrizione piacevole, poesia, quindi, come sistema combinatorio, come facile gioco enigmistico, quasi sempre autoreferenziale. E, dato il secolare radicamento che tale visione dell’attività poetica ha in Italia, credo ci vorrà molto tempo per distruggere questo stereotipo ed attirare un pubblico maggiore all’ascolto ed alla lettura della poesia.

Hai idee su come sia possibile riavvicinare il pubblico alla poesia?

Non ho ricette né facili soluzioni. Credo solo che, come per ogni cambiamento radicale, si debba passare attraverso una lenta, faticosa, tenace educazione – o, meglio, rieducazione – cui dovrebbero convergere tutte le migliori forze di una società. Dall’editoria alla scuola, dalle amministrazioni locali ai mass media. Una notevole possibilità, e in continua capillare espansione, mi sembra venga proprio dalla diffusione e circolazione della poesia in rete, dai numerosi blog, forum, siti e riviste online, che contano una costante crescita del numero di visitatori e di commenti e che consentono, come tu stesso sostieni (e condivido pienamente), una fruizione più immediata e libera del testo poetico, molto più di tante noiose “presentazioni”, imbalsamate in un algido rituale e condotte in un gergo da addetti ai lavori. D’altronde, una colpa ce l’hanno anche i poeti che leggono ben poco gli altri poeti, troppo concentrati sulle proprie “creature”, poco disponibili e interessati a ciò che scrivono gli altri (spesso sentiti solo come “nemici” nei premi letterari). Se sono i poeti i primi ad interessarsi così blandamente alla poesia contemporanea, come pretendere che lo facciano gli altri?

I tuoi personaggi fanno parte di quella desolata umanità che incrociamo tutti i giorni. Cosa può fare la poesia?

bansky topo piccolaNon credo in una funzione salvifica o rivoluzionaria della poesia (la rivoluzione russa ci sarebbe stata anche senza Majakovskij ed il Cile avrebbe avuto Allende Presidente anche senza Neruda), tuttavia credo sia comunque compito del poeta anche dire, denudare (più che “denunciare”) le offese, le ferite, i segni del dolore che portano negli occhi e nel corpo i più deboli, i più esposti, i cosiddetti “diversi”. E che il poeta abbia il dovere morale di “far vedere”, di “mostrare” squarci emblematici delle tragedie che accadono quotidianamente, ma sulle quali troppi preferiscono evitare di volgere lo sguardo ed il pensiero, per pigrizia, per menefreghismo, per una sorta di anestesia dell’indignazione, una progressiva, lenta ma inarrestabile, perdita di umanità. La poesia cosiddetta “civile” – che credo di praticare –  deve scaturire da un dolente  senso di umanità, da una pietas (quella pietas tanto invocata da Fabrizio De Andrè nelle sue canzoni) che è comprensione del dolore degli altri, un abbracciare chi soffre l’ingiustizia, la violenza, la sopraffazione, che è poi la condizione fondamentale per edificare una società realmente civile. Una poesia oggi, a mio avviso, necessaria, per non essere complici, per non far parte del branco indifferente, una poesia che si oppone e prende posizione, si espone e chiede un nuovo umanesimo, una nuova società, con parole nette ed affilate, una voce salda e commiserevole.

Essa assume così la connotazione di un’epica rovesciata dove balzano in primo piano le figure e le vite degli sconfitti, delle vittime, dei “vinti” di verghiana memoria che costituiscono il mio centro d’interesse. Può valere da esempio la poesia Pietre e lenzuola: a Venezia, di fronte ai molti gravissimi problemi, alle immani ruberie perpetrate dai “potenti” di cui ho detto, si cerca un comodo e falso “capro espiatorio”, un “nemico” comune, e lo si trova nei venditori di colore di merci contraffatte che occupano la Riva degli Schiavoni, i campi e le calli, in una quotidiana “caccia” all’abusivo (fossero i soli abusivi!) che sta innescando una spirale di tensione crescente che rischia veramente di degenerare. Scene di fughe e rincorse, odio e calcolo “politico” cui assisto quotidianamente. Farne oggetto di poesia probabilmente non cambierà nulla, ma il bisogno di farlo comunque è quello che in me prevale.

Il verso lungo è particolarmente indicato  per un tipo di poesia a vocazione narrativa. E’ una tua caratteristica stilistica di sempre oppure l’hai usato in questo libro in maniera particolare?

Ho sempre amato il verso lungo, usato in questa raccolta e nelle precedenti. Sento fortemente il bisogno di raccontare, di descrivere e, quindi, un verso narrativo, ampio mi è necessario. Mi hanno sempre affascinato i poeti che, senza nulla togliere al lirismo, anzi, hanno saputo “narrare”, spiegare, esprimere un’idea, un preciso sentimento, poeti come Dante (amatissimo), Leopardi, Montale, Pavese fino a Pasolini, Pagliarani e molti altri. Pavese, in particolare, e la sua poesia-racconto è stato un mio modello. Il fascino doloroso del fluire di quei versi lunghi, di un ritmo ed una musicalità tragica nel descrivere la dissoluzione del mondo contadino dinanzi ad un orizzonte indicibile (attualissimo, credo, oggi più che mai, un oggi in cui vediamo il disfacimento di una società post-industriale che si credeva solida ed eterna ed un futuro inimmaginabile), insieme alla sua lancinante sofferenza esistenziale che s’innerva in ogni elemento della descrizione, diventando collina, alberi, mare, osterie, incontri. Forse il più grande poeta del Novecento. Ed è stato per me motivo di grande onore il fatto che Stefano Valentini, critico ed editore della mia precedente raccolta Ad un casello impreciso, abbia voluto definire tale raccolta (sicuramente esagerando!)  “il Lavorare stanca degli anni Duemila”. In Background, casomai, ho cercato di spezzare il verso lungo con frequenti “a capo”, spazi bianchi e spostamenti grafici dei versi, per rafforzare ulteriormente un passaggio, un’immagine, una descrizione. Avverto necessario il ricorso a questo tipo di verso proprio per disegnare una geografia poetica. Costruire un fondale, un paesaggio, che non siano mero elemento decorativo, ma scenario su cui balzano in primo piano le mie figure, le storie, gli incontri che acquistano (così almeno spero) una più marcata consistenza, un senso di verità umana più pieno. Quando parlo di treni, stazioni, aule scolastiche, di Preganziol o di Venezia, sono sempre parte di una vicenda, ne definiscono le coordinate spazio-temporali, e ciò mi è possibile solo con l’uso di un verso lungo.

Di cosa si occupa Francesco Sassetto nella vita privata?

Ho una vita privata assolutamente normale. Molto tempo mi viene assorbito dal lavoro che, facendo il pendolare tra Venezia e Preganziol, occupa parecchie ore della mia giornata. Per il resto, mi piace leggere (poesia, soprattutto), passeggiare per le calli “sconte” veneziane, e fotografare. La fotografia è stata la mia prima passione, a vent’anni, e passavo ore di notte a stampare in bianconero. Ora non posso più farlo, ma spesso esco con la fotocamera che sento anche come un “quaderno di appunti”, di materiali da tradurre poi in versi. Scrivo spesso, o meglio, butto giù abbozzi quando viaggio in treno, mentre leggo o ascolto musica. Poi, soprattutto la sera, se non sono troppo stanco e non ho “caterve” di compiti da correggere, mi metto a tavolino cercando di dare un ordine a fogli e foglietti, sono lento e metodico di natura per cui lavoro su un testo a lungo, tornandoci sopra molte volte, correggendo, modificando, eliminando, un lavoro appassionante ma attraversato da mille dubbi e insoddisfazioni. Cerco l’espressione migliore, il ritmo “giusto”, la parola che non viene…E fumo troppe sigarette.

 

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