Parola madre – come destino: intervista a Vivian Lamarque, a cura di Eloisa Guarracino

Parola madre – come destino: intervista a Vivian Lamarque, a cura di Eloisa Guarracino.

    

    

“Poetina media”[1], come si è autodefinita in un testo, Vivian Lamarque non lo è affatto. Ed è provato, semmai occorresse farlo, dalla scrittura: dall’uso sapiente, sapido, diremmo quasi, di una parola non decorativa, ma come destino, in una sintassi intessuta prevalentemente dal basso, come una voce naturale, scoverchiando però un’archeologia di rimandi colti che la intarsiano, componendo così una traccia di meraviglia e provocazione, di irriverenza e struggimento, che non si smarrisce mai.
Madre d’inverno è l’ultima raccolta di Vivian, uscita per Mondadori nell’aprile 2016. Come un inciampo, uno sgambetto della parola, quella “madre”, fin dal titolo, sembra invero un clamoroso refuso che spontaneamente correggeremmo mare. Ma non ci inganna, la poetessa. È, la sua, una poesia di verità anche quando ci appare bambina: più vera, anzi, più feroce, secondo la tagliente “intelligenza del cuore” di cui parlava, non a caso, Vittorio Sereni, a proposito di Teresino (1981).
Come già registrava Rossana Dedola, nella prefazione alla raccolta del 2002, la cifra stilistica della Lamarque si stabilisce su un “registro infantile”, sulla cantilena, l’anafora, l’anastrofe, l’iterazione di aggettivi e avverbi tipici della fiaba, così pure sulla limpida semplicità dell’ode anacreontica, come rilevato da Rinaldo Caddeo. C’è poi tutto un fiorire di neologismi, che sono ora conseguenza del registro “infantile” ora dell’analisi, si pensi all’“uomomamma”[2] e a tutte le personificazioni quasi ossessive, i frequenti transfert verso gli oggetti, che animano un mondo dove è scongiurato il restare soli. C’è tutto un melodramma, molto serio e organizzato, che investe e rifonda il foglio stesso di una sua valenza assoluta, concreta e vivificante (“se questa pagina bianca sono io la mia mente / i caratteri neri sono i pensieri pensati per te”[3]).
Frequente è il ricorso all’imperativo, al discorso diretto mischiato e ricucito assieme al flusso dei propri pensieri; caratteristici sono l’invenzione e il rebus, l’uso verbale improprio e arbitrario, nelle forme transitive e intransitive (“sono commossa di te”[4]), come pure una libertà spassionata e divertita, che non bada alla metrica, ma è ad essa soggetta, caratterizzata da un suono naturale e spontaneo, primigenio, proveniente dal cuore, che rimane impresso anche nell’orecchio del lettore.
In Madre d’inverno i toni si fanno necessariamente più scuri. È il momento del congedo, che ne porta con sé molti altri: i ricordi si stagliano su un piano che distingue maggiormente il passato dal presente, attraverso una voce riflessiva, più indulgente, forse, verso il passato e non per questo meno amara nelle somme attuali. Non mancano le inversioni di registro, i paesaggi minimi e immaginari (“me lo rivedo sul tuo comodino / dietro il termometro con l’oxivent / il lanoxin il tachidol, paesino allineato/ scorrevole, accanto alle parole / crociate al libro al giornale all’acqua”[5]), gli imperativi (“E ora, così si fa: / si nevica!”[6]), la poesia concreta che anima e vivifica tutto (“I tagli delle tue t / erano lunghi il doppio / del normale e obliqui, / sciabolate”[7]); ancora è viva l’invenzione metrica (come la lunga disposizione in prosa di Contramal) e l’ironia.
Il focus irriducibile, però, non è più “la madre l’altra” come intitola una sezione, creando forse volutamente il rimando alle due precedenti sillogi “Il Signore degli Spaventati” e “Il Signore d’oro”, dove si dipingeva una Wunderkammer di personaggi con una logica deliziosa, quanto battente. (“Il Signore nel cuore”, “Il Signore composto”, “Il Signore stella”…).
La madre qui è pervasiva, un’atmosfera d’inverno, assorbita e restituita in un affetto sempre selvatico, ma provato ad addomesticare, espresso da una poesia che ricerca soprattutto la conciliazione, in un congedo anche dal personale tormento di sempre.
Dà conto bene di questa nuova ricerca, del senso di riepilogo unito alla confessione d’amore, una poesia, dal titolo perentorio quanto emblematico: Scambio di mamme: “All’infermiera della flebo / raccontavi l’equivoco del giudice / fresco di sessant’anni fa […] Io alta bella vistosa, l’altra / una santarellina, ci aveva scambiate / quel somaro, capisce? Credeva che / fosse lei che adottava e io / IO che abbandonavo”.
Conseguente a questa elaborazione e “maturazione” sentimentale, si registra in Madre d’inverno un necessario cambio anche nella metrica, che è ora più studiata e tradizionale, con suggestioni che ci spingono a pensare addirittura al sonetto e al canto (si veda “chiara sia la sua notte e senza vento”[8], evidente allusione al canto leopardiano “La sera del dì di festa”).
La novità formale è ben evidenziata nella sezione Dedicate, dove si arriva così a scoprire una diversa declinazione del concetto di madre, che inaugura una svolta interessante nel percorso dell’autrice. È qui che, in tutte le poesie dedicate, si avverte un soffio, un afflato materno che pervade tutto: in Miryam, in Micol, nei fratelli, negli avi valdesi, negli amici, in Ignazio (mitico gatto, già meritevole di un’autonoma raccolta), nella nebbia (che non a caso nasconde), nella neve (che copre e annulla), nei poeti, Gozzano e Wislawa Szymborska (“che si legge Visuava”) chiamata in causa, preferita, due volte: in due poesie attigue come collocazione, simili al punto di sembrare quasi calchi, ma non uguali (Preferisco Szymborska I e Preferisco Szyborska II). Guarda caso due, come doppia è la madre, queste poesie stanno in fondo a chiudere la sezione delle “dediche”, prima della poesia all’uomo comune[9] e dell’ultima, dedicata a se stessa, dal titolo Basta orfanità, in cui il riferimento è al padre.
Un soffio materno che si ritrova pure nella poesia dedicata al Dott. B.M., che ritorna, insieme a un insegnamento, conquistato dall’autrice dopo una lunga stagione di vita e di analisi e dichiarato come una lezione finalmente appresa, al “caro dottore errante”, in viaggio (in distacco?) pure lui: “fare anima cos’è? / le chiedevo allora, ora / lo so cos’è, è tante cose, anche camminare / tra oriente e occidente, un po’ facendo uso / di gioia e un po’ di dolore”[10].
È in questa raccolta, credo, che Vivian, insieme al distacco che aleggia, anch’esso ovunque, persino nei fiori appassiti, che accompagnano i morti, ma salutati da nessuno nel loro sfiorire (Persone con i fiori in mano, dedicata a Guido Gozzano), è qui che riconosce ovunque la madre, accettata e integrata in tutta la sua umanità: nella figura della figlia Miryam, nella nipote Micol, nei fratelli, negli amici, nelle grandi madri poetiche, come la Szymborska (due volte celebrata, in una vertigine ipnotica di versi).
Ovunque è la madre, compreso in se stessa, compresa nel padre, materno, dolcissimo, di Basta orfanità.
È qui che si rivela una lezione appresa dopo molto errare, quel “fare anima”, che integra e rimesta gioia con dolore: la poesia come vita, come madre di tutte le cose. EG

   

Alcune domande a Vivian Lamarque:    

     

In “Madre d’inverno” è centrale, come sempre, il tema della madre, lo sottolinei anzi, fin dal titolo, ma è declinato ora in modo diverso, si avverte una crescita, una maturazione che rende anche lo stile più studiato e proteso alla riflessione. È così?

Grazie, sì, le recensioni uscite l’hanno sottolineato. Anche le motivazioni dei molti insperati premi ottenuti (anche il più antico di tutti, il Bagutta). Ve ne sono grata. Non che lo stile sia “più studiato” (chi scrive seriamente studia sempre le parole, se no che scrittore è?), ma sulla maggiore riflessione concordo: col procedere dell’età (Madre d’Inverno è uscito il giorno del mio settantesimo compleanno), se non si è invecchiati invano, “riflettere” è uno dei verbi che maggiormente accompagna i nostri giorni. E tutto poi confluisce nel fiume della scrittura.

     

Il tema dell’analisi sembra concluso, ma se ne avverte ancora traccia in alcuni passaggi, con esplicite citazioni e rimandi, come in Caro dottore, dedicata al Dott. B. M. Che cosa resta di davvero depositato di quell’esperienza, quanto ancora è determinante quel lavoro di coscienza che dà forma alla tua scrittura?

Iniziai tardi l’analisi junghiana, avevo già 38 anni. E tardi (o mai?) la terminerò! Non ho mai smesso di andare dal Dott. B.M. (tranne per qualche mese, appositamente, sperando in quanto non più paziente, di essere da lui – già sposato – chiesta in sposa! sragionavo a quei tempi, non appartenevo al mondo reale). Da qualche anno però vado solo saltuariamente, ogni due mesi circa.
Cosa resta di quell’esperienza? Tutto. Lo sguardo su quanto ci circonda è un altro. E se muta lo sguardo, il sentire, anche la scrittura naturalmente segue.
Proprio in questi giorni ho ricevuto dal Canada la traduzione inglese del primo libro che scrissi in analisi: “Il Signore d’oro” (Crocetti), diventato “The golden man”.

     

Sembra che ora, che tutte le madri sono venute a mancare, l’idea di madre si sia in qualche modo “pacificata”, liberata da un’urgenza di attribuzione (conflittuale, doppia, ma caratterizzante) per maturare in un concetto più ampio, sempre critico, ma sgravato da un’irriducibile ricerca identitaria. È solo un’impressione o è così?

Sì, e dalle madri mie l’accento si è spostato sul materno, sulla maternità della terra, del mondo, come ben aveva sottolineato già anni fa Rossana Dedola nella sua lunga e acuta prefazione al mio Oscar.
Nel prossimo libro mi sono ripromessa di non toccare più questo tema; diversi recensori (non tutti per fortuna) hanno scritto più a proposito dell’argomento che della poesia.

      

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[1] Garzantina: “Sono una poetina media / normale / da due righe e mezzo / sulla garzantina universale” in Poesie 1972 – 2002, Mondadori, Milano 2002.
[2] Poesie dando del Lei, in Ibidem.
[3] Pensieri di carta, in Ibidem.
[4] Immobile, in Ibidem.
[5] Algasiv, in Madre d’inverno, Mondadori, Milano 2016.
[6] Ritratto con neve, in Ibidem.
[7] Calligrafia, in Ibidem.
[8] Che infanzia duri più che neve, in Ibidem.
[9] Dedicata “all’uomo comune davanti alla TV il 27 gennaio” (Sicuri nelle vostre tiepide case), in Ibidem.
[10] Caro Dottore, in Ibidem.

          

Alfred Stieglitz, La lezione di nuoto,1906 - in apertura Kitty Stieglitz, Central Park, New York, 1901, Met Museum
Alfred Stieglitz, La lezione di nuoto,1906 – in apertura Kitty Stieglitz, Central Park, New York, 1901, Met Museum

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