Pensare è oltrepassare: speranze della ragione e ragioni della speranza, editoriale di Luca Mozzachiodi

Pensare è oltrepassare: speranze della ragione e ragioni della speranza, editoriale di Luca Mozzachiodi.

     

    

Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente.
(Lettera di Marx a Ruge[1]).

Il tempo non permette di essere sofisticati; avrei potuto o voluto scrivere queste pagine in maniera più ordinata, in una più consona cornice e magari, ma stiamo fantasticando, con un mezzo che fosse più consono e già intimamente strutturato secondo le logiche conseguenze che queste parole sottendono. Tuttavia bisogna essere consapevoli che ogni pagina non è solo la mano che la scrive o il luogo in cui è scritta, ma anche l’epoca in cui viene scritta, dunque occorre porsi di buon animo e almeno con la difesa di un personale rigore all’opera di sistemare gli edifici concettuali del pensiero comunista per come i nostri nonni e avi li avevano costruiti mattone per mattone e per come noi non siamo stati capaci di difenderli o, gravissima consequentia rerum, nemmeno di desiderarli.

Perché di desiderio qui si parla e ancor più di quella specifica forma di desiderio che si fa attivo e consapevole cui diamo il nome di speranza. Pensare significa oltrepassare recita il titolo di questo numero, ma questo motto viene da lontano nel tempo e appartiene a quell’opera mondo che è la ponderosa ricerca di Ernst Bloch Il Principio Speranza[2] sul quale occorrerà dire alcune parole, non tanto o non solo perché è un obbligo politico dichiarare da dove, da quale posizione teorica e pratica si sta parlando, ma soprattutto perché questo strano libro dice alla mia generazione di nati dopo la fine del cosiddetto socialismo reale molto di più sul comunismo di quanto possano dire scritti pur fondamentali ma legati negli esiti all’esistenza di un blocco socialista internazionale.

Così pare che la pubblicazione in Italia dell’opera, avvenuta con notevole ritardo rispetto agli anni di stesura nel 1994, abbia assunto una particolare funzione storica proiettando nel contesto del disarmo ideologico delle sinistre e agli albori del trionfo del libero mercato mondiale, quando vivere in un mondo di «rapporti sociali tra uomini mediati da cose»[3] poteva parere ai più una condizione ovvia e perpetua, un’immagine del marxismo come la filosofia che fonda le ragioni della speranza di realizzare una società libera e «riacquistando completamente l’uomo».[4]

Oggi il comunismo sopravvive come tensione, ma il nodo della questione sta nel fatto che non si tratta di una tensione individuale e volontaristica, come tanti passati e presenti militanti vogliono farci credere a volte con l’arma del moralismo, bensì di una speranza della ragione fondata sul processo storico «che modifica lo stato di cose presenti» rendendo inevitabile una diversa articolazione dei rapporti sociali. Potremo chiamare questa articolazione e questo processo comunismo?[5] Lo sarà se e solo se saprà essere quella per cui le condizioni materiali che determinano la coscienza[6] saranno quelle che preludono alla piena sovranità dell’uomo su se stesso, in una libertà comunitaria e non anarcoide e velleitaria, spiritualistica o, ancor peggio, di individuo onnipotente grazie al potere di trasmutazione del denaro, che è oggi la finta libertà che siamo in grado di immaginare, promuovere e difendere con le armi e col diritto: non la libertà di non essere oppressi bensì un certo grado di possibilità, differente per ragioni sociali per ognuno di noi, di diventare a nostra volta parzialmente oppressori.

Poca meraviglia in fondo a pensare che la maggior parte delle persone desideri che sia preservata come premio al merito, sogno legittimo, mitologia televisiva convertita in diritto, la loro possibilità di uguaglianza ai padroni, i sogni di dominio dell’umanità frustrata e il senso dell’ingiustizia subita o dell’ingiustificabile diseguaglianza sono un primo inevitabile impulso alla speranza in un’alterità dall’oggi.

Pensare anche per questo significa oltrepassare: pensando ci rivolgiamo al futuro come zona del non ancora determinato, ed è il terreno privilegiato dell’azione che prepara ciò che la speranza, con una fuga in avanti, intuisce; nessuna azione si rivolge al già dato se non come materia su cui si esercita. L’unità di pensiero e azione è appunto uno dei maggiori lasciti di quell’idealismo tedesco di cui, secondo Marx, il proletariato è divenuto erede[7]: le scienze e il pensiero non marxista, con la possibile eccezione di alcune forme di teologia dialettica e rivoluzionaria che con il marxismo hanno più di un rapporto di parentela, rappresentano la coscienza che cataloga archeologicamente il passato alla ricerca delle cause del presente imponendo a quest’ultimo la tirannia del passato, mentre il marxismo ristabilisce il dominio del presente sul passato cercando in esso le tracce del futuro possibile, ma possibile solo se costruito, il vecchio Benjamin era nel giusto dicendo che il compito dello storico materialista è «passare a contrappelo la storia»[8].

Il marxismo è la prima dunque e vera filosofia del futuro in senso stretto, un grande racconto della speranza armata di ragione che coglie e sa indirizzare i segni del tempo con l’azione, ma l’azione, occorre chiarirlo, se è autentica si contrappone, metodologicamente e per esito, tanto alla credenza che interpretare correttamente il mondo sia un modo di cambiarlo, pia illusione che porta al socialismo da cattedra e oggi è buona solo per garantirsi una borsa di studio e una patente da opinionista, quanto al mito delle buone pratiche i cui sostenitori brandiscono come una spada l’undicesima tesi su Feuerbach[9] contro i cattedratici a difesa del castello della virtù, salvo poi cadere nel fosso dove crescono le erbe della buona coscienza umanitaria, chi se ne nutre dimentica presto di tornare all’Itaca che ancora dobbiamo costruire.

Un pensiero senza azione e un’azione senza pensiero nel marxismo sono semplicemente senza senso e snaturano in sé tutto un metodo, di questo metodo è fatta la ragione della nostra speranza se siamo comunisti; d’altra parte resta certezza non smentita che il capitalismo produce disuguaglianza e diventa sempre più difficile dimostrare che produca ricchezza per gli uomini e non a discapito della maggior parte di essi; le catastrofi umanitarie delle guerre, il passato coloniale che conta all’Occidente le sue colpe in forma di centinaia di migliaia di immigrati sempre più difficili da accogliere, il depauperamento di molte classi sociali e l’inquinamento ambientale ogni giorno più pericoloso sono sotto gli occhi distratti di chiunque accenda una televisione. Questo sistema di produzione, anche nella sua più nuova variante finanziaria contiene le premesse del suo superamento, certamente non necessario ci mancherebbe, la miseria e l’estinzione potrebbero comunque rappresentare un’alternativa desiderabile per qualcuno.

Lasciamo ora il campo della ricostruzione e veniamo appunto all’oggi, che cos’è oggi la speranza? Molti direbbero che la speranza è un senso che vivifica l’attesa di chi si augura che accada qualcosa, come a dire “spero che succeda questo o quello” e quindi oltrepassano sì il presente con il pensiero, ma in direzione di un futuro verso il quale si dimostrano essenzialmente passivi però e sul quale, in ultima analisi, ritengono di non avere alcuna influenza, confondono sostanzialmente la speranza con il desiderio, che è naturale, ma statico dove invece la speranza si costruisce.

Tutti abbiamo desideri e attitudini desideranti, che necessariamente sono personali e riguardano il nostro io e la nostra esperienza, che restano i nostri unici strumenti conoscitivi reali, ma solo quando cerchiamo di agire in maniera razionale e con metodo per dare un corpo futuro ai nostri desideri possiamo davvero parlare di speranza. Quanto più vivo e mobile è il rapporto con la vita se la speranza si fa sentimento attivo! Quanto meno indistinto è il futuro che allora ci appare come progetto e come opera anche delle nostre mani! Del resto restituire il futuro all’uomo è uno dei fondamentali fini del comunismo.

Viene più che un sospetto a pensare che questa naturalezza nel concepire un pensiero desiderante, egocentrico e passivo in tutti noi sia da annoverare tra i prodotti di un’epoca in cui si è presa per verità rivelata la massima dell’estremismo liberale e liberistico per cui non esistono le società ma soltanto gli individui che consumano. Sarà ovvio allora produrre sogni individuali e non collettivi o al massimo analoghi in quanto appartenenti alla stessa classe di consumatori in una società eternata a natura immutabile, ma se il capitalismo viene eretto a condizione naturale, in quel momento stesso il futuro è negato. Chi dunque vive in questa speranza passiva che non coinvolge l’intera trasformazione della società, sia pur solo come il fine verso cui si compie un primo passo, ha la speranza del meteorologo che osserva gli addensamenti di nuvole augurandosi che non piova, chi acquista la coscienza di questo sogno di una cosa ha la speranza dell’architetto che sa di progettare.

Ora qualcuno potrebbe dire o spesso in realtà dice che in questa speranza nel comunismo e in questo pensiero che oltrepassa vi sono notevoli accenti fideistici e che si tratta dopotutto di un pensiero religioso. Certo purtroppo il marxismo è stato molte volte impoverito in questo senso da tanti che si professano suoi strenui difensori, ridotto a un pensiero manicheo e adialettico, nella forma del racconto eterno della lotta tra il bene e il male ma, alla luce di quanto detto dovrebbe apparire evidente la differenza tra la speranza tutta umana nel comunismo e la speranza religiosa: questa è, come dice bene Dante rispondendo alla domanda di San Giacomo «uno attender certo/de la gloria futura, il qual produce/grazia divina e precedente merto»[10].

Tralasciando la complicata questione del merito, che anche dal punto di vista teologico è una linea di faglia tra cristiani, il divario sta nel fatto che qui la speranza è in una gloria tutta ultraterrena, che poggia sulla grazia Altrui (si manifesti esso in un evento messianico da venire o già venuto) ed ha per argomento, come ancora Dante ricorda, la fede[11] anziché la ragione del metodo. Si tratta dunque di due attitudini distinte, che tuttavia non si sono mai escluse del tutto l’una con l’altra e che anzi hanno in comune «la spene, che là giù bene innamora»[12] di quell’amore che fa vivo il futuro e di ogni secondo una piccola porta[13].

Se dunque la realizzazione delle speranze per il futuro è nelle nostre mani possiamo essere ottimisti? Certo, dì un ottimismo della volontà perché molti segni del nostro tempo lasciano pensare che non si possa realizzare il comunismo in pochi anni semplicemente vincendo una o due elezioni o abbattendo qualche governo e cancellando qualche trattato (azioni che ovviamente non per questo perdono di legittimità in una lotta anche politica) ma che si tratti di un’opera più lunga e paziente di educazione; come dicevamo prima infatti non solo il cammino verso la società comunista è lungi dall’essere compiuto ma anche concettualmente sono stati fatti negli ultimi decenni notevoli passi indietro.

Ciò che possiamo augurarci come il meglio è che chi oggi sceglie di impegnarsi concretamente nella realizzazione del comunismo sia dunque disposto a volersi liberare dalla nefasta mania di veder realizzate le conseguenze delle proprie azioni; la speranza è appunto il motore di questo che pare un azzardo ed è in realtà la capacità di saper lucidamente sciogliere la propria esistenza individuale nel movimento storico interrompendo questo mercanteggiare con la vita che sembra governare la bilancia delle nostre azioni. Col marxismo non si fa carriera, e il comunismo sarà di questo mondo ma, forse, per pochi tra quelli che oggi lo vedono come fine.

Bisogna piuttosto fare nostra una sapienza della preparazione ed appropriarci in senso socialista di antiche parole di saggezza come quelle che ricordano che «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.»[14], versione evangelica della dialettica e persino l’insospettabile Bhagavad Gita «Tu hai diritto soltanto all’azione, e mai ai frutti che derivano dalle azioni. Non considerarti il produttore dei frutti delle tue azioni, e non permettere a te stesso d’essere attaccato all’inattività»[15]. Speriamo sì nel comunismo per noi e così non può che essere, sarà sempre personale il motivo che spinge alla bandiera rossa, ma quando combattiamo dobbiamo sapere che combattiamo per una speranza dell’umanità.

Dico combattiamo, ma come possiamo combattere oggi per il comunismo? Le strutture sociali ed economiche sono assai mutate e l’assetto di forze reali è a nostro svantaggio almeno per il momento. Tuttavia ciò è proprio perché le conquiste concettuali del marxismo sono in recessione, dove per recessione bisogna con senno intendere l’incapacità di chi lavora o vende la sua forza lavoro di acquisire una coscienza di classe e la sua poca propensione a credere ai dottori in filosofia o ai partitini settari piuttosto che alle lusinghe delle destra reazionaria e piccoloborghese.

Occorre dunque, dalla nostra posizione, essere cauti ma risoluti nello strappare Marx e il comunismo tanto alle cattedre universitarie quanto alle tombole anticapitaliste dei circolini di montagna e riportarlo nelle fabbriche, nei campi, negli uffici, ma anche nei luoghi meno canonici della lotta politica per il socialismo come le scuole, gli ospedali di ogni tipo, le carceri; non però come la predicazione saputa di un qualche intellettuale tedesco, ma come l’unico terreno comune possibile per elaborare una teoria non reazionaria della società.

Esiste poi un altro strumento di lotta, tanto equivoco quanto potente, che è la ragione ultima di questo numero della rivista e dunque merita le ultime parole, ovvero l’arte. «Viviamo l’estinzione del socialismo ufficiale. Quando l’opposizione perde le sue politiche deve radicarsi nell’arte»[16] scrive Howard Barker nel pieno dell’era liberale inglese aprendo le sue Premesse per un teatro tragico e questa pronta diagnosi resta un punto centrale della posizione di ogni artista che si batta all’interno delle istituzioni letterarie per il socialismo; non posso né voglio stilare un manuale di lotta in questo senso, che pure dovrebbe essere tra le nostre prossime conquiste teoriche, tuttavia si possono ben chiaramente delineare due funzioni di opposizione dell’arte.

Chiameremo la prima una funzione illuministico-brechtiana ricordandoci del poeta che per primo arrivò a teorizzarne alcune basi: l’arte deve demistificare, mostrare le cose per come esse sono, denunciare non tanto, o non solo, con sdegno retorico ma parlando nudamente dei rapporti di proprietà che danno forma al nostro mondo, smantellando le illusioni costruite dal predominio ideologico dei nostri nemici, indagando le zone d’ombra della storia dei vinti, appunto perché i rapporti di proprietà determinano i vincitori non meno di quanto essi decidano sul loro assetto. Questa funzione resta fondamentale e ci ricorda una troppo dimenticata verità: il comunismo come filosofia nasce dall’idealismo tedesco, ma il comunismo come passione nasce dall’illuminismo e dai dibattiti della Rivoluzione e viene battezzato col sangue di molte barricate parigine dopo il 1789.

La seconda funzione, che sta in rapporto alla prima in relazione ai diversi temperamenti, alle necessità storiche e alle posizioni di lotta diverse a seconda dei contesti sociali ed economici, può essere detta funzione di alterità, nel suo campo rientrano le rivendicazioni identitarie degli oppressi, spesso proposte in forma artistica prima che politica, l’importante ricostruzione della nostra identità in senso storico e sociale oltreché psicologico, perché solo così il noi in arte diventa legittimo, ma soprattutto l’opposizione fondamentale all’appiattimento del futuro sul presente prodotto dalla logica dell’immutabilità e della mancanza di alternative. Il capitalismo da sempre tende a presentarsi come la naturale articolazione dei rapporti umani, ma l’arte può produrre immagini di alterità possibile e addirittura, come abbiamo fatto, appropriarsi in senso rivoluzionario di quanto prima era strumento o parola dell’oppressione.

Non si può dire che l’artista, lo scrittore, abbiano oggi un reale mandato sociale e invocarlo in qualche scantinato o al tavolo di qualche osteria è soltanto disgustoso e ridicolo, bisogna cominciare a dircelo chiaramente allo specchio; resta però vero che ci sono lotte che sono specifiche degli scrittori e che oggi sono dimenticate in primis da quanti scrittori vorrebbero essere, è inutile darsi arie da rivoluzionario se non si parla mai dei rapporti di proprietà nell’industria culturale che si serve con zelo e incoscienza appena si può avere un titolo o un palco. Questo oggi noi dobbiamo oltrepassare, né, come spesso si crede con animo intimamente reazionario, il pubblico che lo scrittore cerca e non raggiunge è composto di stupidi: non si crede a lungo ai trucchi della falsa coscienza di chi crede di combattere in un campo e serve altri.

Se però riusciremo a porre in seria critica i meccanismi del capitale anzitutto nell’ambito che ci è più proprio dell’arte, come allora diverse saranno le nostre parole! Racconta allora a un uomo di un altro mondo possibile e potrà crederti e si ricorderà che può davvero sperare con ragione. Pensare è oltrepassare non solo ciò in cui non crediamo e il mondo che non vogliamo, ma anche quello in cui abbiamo fino ad oggi troppo facilmente creduto.

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[1] Lettera di Marx ad Arnold Ruge ora in, Annali Franco Tedeschi, Massari, Bolsena 2001 p. 75
[2] Ernst Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano, 2005², p. 6 e in generale l’opera è da tenere presente, soprattutto ai capitoli 19 e 55
[3]Cfr. Karl Marx, Il Capitale, Mondadori, Milano, 2009, Libro I sezione VII cap. 25 p. 955
[4] Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in, Karl Marx e Friedrich Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1969², p. 70
[5] Cfr.  K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 25
[6] Ibid. p. 13
[7] Cfr. Karl Marx, Per la critica, cit. in Karl Marx e Friedrich Engels, Opere Scelte, cit. pp. 70-71 e Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Ibid, p. 1147
[8] Walter Benjamin, Tesi sulla filosofia della storia, Einaudi, Torino 1976 Tesi 7 p. 76
[9] «i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo ma si tratta di trasformarlo» in Karl Marx- Friedrich Engels, Opere scelte, cit. p. 190
[10] Commedia, Paradiso XXV vv. 67-69
[11] Paradiso XXIV v. 64
[12] Paradiso XXV v. 44
[13] Cfr. Walter Benjamin, op. cit., Tesi 18 b p. 83
[14] Vangelo di Giovanni, 12,24
[15] Bhagavad Gita, II, 47
[16] Howard Barker, Fortynine asides for a tragic theatre, in Arguments for a theatre, Manchester University Press, 1999³, p. 17, traduzione mia

                       

2 thoughts on “Pensare è oltrepassare: speranze della ragione e ragioni della speranza, editoriale di Luca Mozzachiodi”

  1. Parlare di comunismo oggi è come vigilare su una minuscola brace sfavillante sotto un cumulo di cenere. Ringrazio Luca Mazzachiodi, che non conosco personalmente, di permettere a qualcuno come me e spero a molti altri di soffiare in modo appropriato su quella scintilla, per tenerla ben accesa. I pensatori come Bloch e come Benjamin – non per nulla di origine ebraica entrambi – cercavano di sottolineare, in modi estremamente liberi anche da un punto di vista espressivo, la natura utopica del pensiero marxiano, il suo andare oltre l’analisi socio-economica del presente. Benjamin in una delle sue Tesi di filosofia della storia sostiene che bisognerebbe costruire un nuovo modello di storia legato allo ” stato di emergenza” che è di norma quello in cui noi viviamo. Benjamin ne parlava a proposito dei suoi tempi, martoriati dal fascismo e dal nazismo, di cui lui fu infine vittima, ma possiamo dire che i nostri si sono forse liberati da questa pressante costrizione? Forse ogni tempo è contrassegnato dal suo proprio stato di emergenza e forse il fatto che ci si stia avvicinando alla catastrofe finale, voluta inconsciamente dal capitalismo che non vuole mollare l’osso, nasce proprio dal chiudere gli occhi davanti al nostro stato di emergenza, dal vivere come sonnambuli in questo scenario, dal far passare la nostra esistenza come del tutto normale. Proliferano le serie televisive sugli zombi.Invece lo stato di emergenza deve essere presente nei nostri pensieri e nelle nostre azioni, ogni giorno che passa. Una possibile reazione alla sconfitta del comunismo su un fronte globale, è stata quella delineata da Guy Debord e dalla pratica del situazionismo, cioè creare dei nuclei di resistenza creativa in ambiti locali , prevedere incursioni di imprevisto sovvertimento in zone di potere in apparenza ben controllate dal potere centrale. Coniugare in un certo senso la pratica marxista con quella delle avanguardie artistiche. Opporre una resistenza creativa , difficile da omologare e da inglobare a scuola, negli ospedali, nelle strutture pubbliche, nelle diramazioni culturali dello Stato e dei comuni. Forse i blog letterari come ” Versante ripido” rappresentano un tentativo di questo tipo, non lo so. Per reggere la sfida credo sia fondamentale non specchiarci in un narcisismo autorale, ma aprirci maggiormente al confronto e ad esempio usare lo strumento offerto dallo spazio del commento per sviluppare confronti e dibattiti sempre più necessari. Termino citando due scritte lette sui muri di Genova, città che ha sempre alzato una voce di protesta quando serviva. Una dice: ” uccidi lo stato che è in te” e l’altra ” avere casa sui propri piedi”. Pensare è anche dire l’oltrepassare.

  2. Ci ho ben riflettuto e mi pare che l’unico sistema comunitario che regga sia l’immenso emporio commerciale di Amazon. Quindi avanzo due modeste proposte a Paolo Polvani e alla redazione tutta:
    1) dare un piccolo bonus di 10 euro da consumare su Amazon a chi lascia almeno due commenti su questo numero di Versante ripido, dedicato al comunitarismo;
    2) dedicare il prossimo numero alla voce ‘ commento’ ed organizzarne la struttura in questo modo: un unico grande editoriale e tutti gli scrittori abituali di VR a dialogare fra di loro lasciando appunto le loro riflessioni nei commenti.
    Una delle due proposte è seria? Scusatemi, sono un neofita , non so se esageratamente cinico oppure entusiasta…

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