Per una pre-, e post-, historia dello spettacolo, di Vladimir D’Amora.
Gli anni
Il proprio abita a Parigi. E lo si riconosce solo, perché intimo e sprofondato nella speranza inalterabile di uno stesso, apre solo, come se la sua possibilità non fosse il suo possesso: il proprio. E’ come vergogna, anche ad alcuni addirittura ribrezzo, riconoscersi, ancora, la strada che immette in un metodo inservito. Che pure resta impassibile. Ingovernabile è la luce delle saline. Vi si muore scannati, antichi montati capri.
Non si ritrae, comunque. E resta, impigliato, un legame inalterabile che lega alla sorgente ogni punto e il suo addizionato e puntato pure altrove. Perciò il proprio non si conosce. Pure perché sta sempre nel suo inizio, a sforzarsi. Senza pena, ossia con quella bella tensione ch’è la speranza di chi ignora, le ignorate sempre moltiplicazioni, di un unico rilievo. Una montagna segnata fin dentro la materia umida, piatta, che sbianca.
Dove ce la fa. Il proprio. Anch’esso una specie d’operazione. Forse l’unica, ancora l’unica operazione di un certo vivente.
Il tempo è impropriazione, almeno il tempo. Che si ritrae, sempre, questo sempre lo lascia. E perciò va contato negli anni dieci a dieci solo per scoprirsi intenzionati, non più che questo, è come se bastasse. Come se di fronte ad un segreto ci si ritragga fin dove la luce tiene, e proprio per rispetto. Il tempo. Deve distendersi nelle immagini, le più aliene, svuotate della sorgente loro, ch’è il tempo. Come una immagine il tempo stesso, forme impotenti e non sintomatiche e buie del buio che c’è finché c’è luce, un bisogno è l’esigenza. Ma non vale l’inverso.
Ecco, in questa tenebra di segni non una stabilità psichica né un piano disponibile con un altro cui consegnare e proprio perché è una memoria senza gancio e fughe immotivate se non per tracce solo all’inizio, in ogni sorgere di un senso gli anni si scolpiscono come fossero storia proprio. Che poi è un riscatto anche, in quanto per lo più annunciano dileguandosi lungo la precarietà. Gli anni restano nel fantasma. Nell’idea capita pure.
Come i morti, che muoiono anche, ma stanno morti, stanno così, e per se stessi. Per un po’ ci si scanna ancora. Poi quando incalza il miraggio della raccolta. Il meccanismo. Che non lascia che la relazione ch’è ripercussiva. Sul fondo morto dei morti s’illuminano, di sbieco, e sta insorgendo la storia. Gli anni che s’impacchettano, per pochi tratti. Nostri.
L’inizio è altro. Negli anni Cinquanta ci sono gli anni dei vuoti, e imbarazzo. Qualcuno è vivo. E se ne vorrebbe vergognare. Ma ci si contiene, tenuti nei limiti. Che si riconoscono a prescindere, c’è quasi una mistica del limite, il limite è lo stesso che vivere. Una certa vita. Che viene sempre dalla campagna, dove c’è il pullulare dei sensi, tutti nascono sotto il sole, nei buchi del proprio. Tanto, tanto umido è lo speciale sentimento di una linea che affratella, tanto che così i vuoti si vogliono scalzare anche, imbottiti, il vuoto resta, un pentimento che costruisce intorno, cogli steccati di legno ancora. Come se una piazza fosse sospesa, il luogo dell’incontro, ritrovandosi incolumi, come chi l’ha scampata e non può viversi nostalgico compunto, perché si è nati dove ormai la guerra irrispettosa impazza, da decenni. Queste guerre senza vuoti, con luoghi che sono carichi di un’indistinta maciullazione di possibili nei possibili. Questi luoghi sono accerchiati da un vuoto. Lo stesso che s’incaricano di custodire, quasi compito germogliato nelle cose stesse. E le travi forti, che hanno da resistere, necessarie e belle possibilità di ricostruzione, e si passa, attraversando quanto è disponibile, e che non si vuole spartire ancora con la morte. Di nuovo con la morte. Perché è un’altra potenza del possibile. La si può prendere a parte, e contarle di un sogno, di un’illusione propria dei maschi, i figli della terra, della campagna allucinata d’acqua e d’elementi, di tutta una teoria di frutti. Che viaggiano, devono sfamare, fondare un inizio sempre insorgente, sempre prossimo.
Non dev’essere facile segnare nel vuoto la sua vita di vacanza, dal vuoto stesso voluta, stentata.
Poi, perchè poi ci deve essere stata una esplosione, nelle carni più inadatte a fare dispensa, nelle carni della strada, non più la piazza, ora si procede. Tanto che l’antico, la tradizione dà i mezzi per non pensarla questa esplosione. Il moderno sarà il richiamarsi ad una qualcosa di non bastevole. Eppure insistono i riferimenti, la voglia di aggancio. Come se i capelli crescano tanto solo per mostrare sin dove la natura la si possa volere. I fiori, nei giardini. Negli anni Sessanta non c’è tempo, il tempo per nessun ornamento. Si produrranno vive ferite, improvvise, giganti bianchi e lucidi di metallo freddo saranno convocati a riempire. Gli occhi pagheranno prezzi inauditi, le piante, le distanze, la fame. Inizia la carne., la natura ad essere il dileguare patinato, quanto può perdersi e rimpiangersi e sperarsi rappresentandosi inviandosi ripetendosi a stento, all’inizio. Almeno all’inizio. Pasoliniano è questo marcarsi di una ineluttabile perdita, lo sfiorire accompagnato, la rabbia accesa gratuitamente con una sfilza di ragioni inalienabili, e ingenue. E di un sogno che valga un altro, svegli, rabdomanti, già catapultati in superficie, nelle cose di noi e degl’altri: eccolo, il segreto, montato in sale d’amici complici a sgretolare: il divenire lo si potesse imporre a forma!
Inizia, negli anni Sessanta, la manipolazione strutturale dei corpi, degli sguardi, della morte: i vuoti sono ridotti alle vacanze. Insorge la strutturazione dei reali. La vita non è più una esigenza. Non c’è più bisogno di ricordare.
E basta un passo. Ormai le superfici sono visibili, esibite nei loro stessi strati superiori. Le piastrelle. Non il muro, non più lo steccato. Le piastrelle, una e una e l’altra. A vista. Spesse. Come se sia stato un dio, a vomitarli questi colori. Le linee, che coprono, scendono come atomi e deviazione inclusa. I calzoni che dissimulano. Animaloidi: ci si veste per sostare. O si scappa.
Saranno, gli anni Settanta. Anni indescrivibili. Ancora imminenti. Piazze e vie, la rivolta. Ci si ferma nella foschia, correre è un unico gesto, solo. Ci possono essere solo novità. Anche ciò che non si riesce a immaginare, che sta dietro, si forma di questa sua inapparenza si sfama. Prende a innescarsi il futuro che cavalca pubblicitariamente, muore l’uomo. E le guerre finalmente, sono guerre assolute.
Per quanto si tenda ad una formattazione del tempo, di ogni tempo, non c’è compagine che non sia screziata. L’essenziale. Possibile, affondato.
L’immagine dell’esperienza vissuta, vissute immagini, esperienza vissuta. L’esperienza data, ridotta alla rappresentazione, colla coda degli archi sentimentali. Le immagini, non ancora speciose, ancora simboliche. Per eventi, per esperienze, nella vita, in un certo vissuto. La pubblicità tiene i distinti, lascia che ci si faccia assoldare, indistintamente.
La pubblicità che fa giocare nell’essenziale, e immagini con immagini, ecco la chiusura di ogni appropriazione, di ogni vacanza, quasi abbattersi di pareti e finestre, e di sostegni. La pubblicità non è sola, non è obbietto, bensì una certa operazione, immaginale. Né rinuncia alla mera reciproca riflessività, al gioco dei rimandi in vista del loro radicarsi in una esclusione che dica verità, risultativamente, e neppure si tiene alla riflessività come gioco sospeso, un’oscillazione fenomenale, allucinata. Piuttosto l’operazione pubblicitaria lascia giocare l’assicurazione dell’oscillare come fosse esigenza di fermezza, di sicurezza sempre tolta: lascia giocare l’oscillazione quasi una raccolta, il raccogliersi di rimandi che nel loro oscillante infittirsi si perdano null’altro, che la loro indecidibilità. Lascia giocare, la pubblicità. si lascia al suo gioco. E lo lascia.
Eppure non è solo chiasma la pubblicità. Non è solo operazione di cui si possa rendere conto. Non è come la letteratura, è una certa comprensione del letterario anche, una sua dichiarazione la pubblicità. Se la letteratura può essere interrogata. Quando se ne debba riconoscere e tutelare la specificità, anzi, la particolarità, la consistenza professionale, risulta comparabile la letteratura: confrontata con dimensioni di progettualità e operatività tali da non potersi contestare nella loro tecnica individualità… E si può ancora domandarne, la letteratura assimilata a altri mezzi che reggano richieste, alle loro sorti determinabili secondo certe storicità. Perché la letteratura viene a non potersi non qualificare irriducibilmente. Ecco, la pubblicità non regge tale livello d’interrogazione, s’è un rendere conto. Se se ne deve dare ragione, comunque.
Gli anni. La pubblicità. Come una pagina, la pagina heideggeriana. O finanche la paolina. Quanto più la primavoltità dell’unico è messa a rischio, tanto più l’ancoraunavolta s’esalta, infittisce ripete. E qui non c’è incrocio maldestro, non vige alcuna teomorfica assurdità. Sebbene dio e immagine siano interi nel loro modo d’essere. Senz’essere.
Vincola, non considerata, la pubblicità. La pubblicità più la si cela, minimizzandola oltre il suo minimo, più vincola. Come quelle intensità che attivano ogni campo, lasciandolo essere, lasciandosi essere la pubblicità è un altro campo. Che s’alimenta nell’indifferenza, la produce, indifferenzia ogni produzione. Abolisce il mercato, l’invisibilità pubblicitaria, la sua mera vigenza. Ogni reale, che la pubblicità richiede, si assimila a quanto lo richiede. Alla pubblicità. Inapparente la pubblicità, se ne parla, se ne deve parlare, perché funziona, perché funzioni. Ogni reale, più o meno testualizzato, è nella sua disattivazione pubblicitaria. Avvolto, alimentato. Sforbiciato.
Quel bosco c’è da sempre, c’era anche prima: ma diviene immagine pubblicitaria, è pubblicità ormai, il bosco non c’è più. Ma il tempo ch’è scorso, non passa.