Perché amiamo gli animali, editoriale di Paolo Polvani.
Perché nella poesia, nei romanzi, si registra una così intensa circolazione di animali? tutti quei gatti, cani, cavalli, passeri solitari e persino una lumaca, alcuni anni fa, in un autore americano. In molti casi si tratta di grandi capolavori, mi viene in mente Cane e padrone di T. Mann, ma anche Io sono un gatto, di N. Soseki, e a voler tentare un inventario non basterebbero giorni interi, e chi non ricorda con affetto Bendicò? o Ronzinante? E mi piace ricordare qui la bellissima antologia poetica Alfabeto animale, del 2011, curato dalla nostra preziosa amica Eloisa Guarracino. Ma perché amiamo gli animali? Alcuni scienziati ne hanno fatto una questione di amigdala: “… i neuroni nell’amigdala umana rispondono preferenzialmente alle foto di animali, perché una maggiore attività verrebbe stimolata nelle cellule quando i pazienti guardano gatti o serpenti rispetto a edifici o persone. Ad affermarlo è Florian Normann, autore principale della pubblicazione, che sostiene: ”La preferenza verso questo tipo d’immagini non è dipesa dal senso estetico, in altre parole essa è avvenuta sia per animali belli che brutti e tantomeno era collegata al contenuto emotivo delle foto che sono state preferite sia in caso di animali docili che pericolosi”. Con gran sorpresa questa risposta comportamentale è stata individuata solo nella parte destra dell’amigdala il che sosterebbe l’ipotesi che all’inizio dell’evoluzione, l’emisfero destro si sia specializzato soprattutto in rapporto a stimoli inaspettati e biologicamente rilevanti come per esempio situazioni di pericolo o cambiamenti nell’ambiente. In termini di evoluzione del cervello, l’amigdala è, difatti, una struttura antica, ed è molto probabile che in tutta la nostra storia biologica, gli animali, sia predatori che prede, abbiano costituito una classe molto rilevante di stimoli”
Come teoria ha un suo fascino, tuttavia vi sale il freddo degli schematismi, e soprattutto lascia fuori il cospicuo bagaglio delle esperienze, i ricordi, le gioie, le sofferenze per una malattia, il dolore di un abbandono. Forse li amiamo perché ci ricordano la nostra finitezza, la nostra caducità? o perché ci amano senza giudicarci, o perché alleviano gli effetti della vera maledizione biblica, che non è tanto: tu lavorerai col sudore della fronte, e tu partoriarai con dolore, quanto invece: ti si spalancherà un abisso di solitudine, e non riuscirai a venirne fuori. Nell’amore per gli animali si nasconde anche un senso di colpa per i molteplici assassinii, maltrattamenti, torture, che una visione antropocentrica porta inevitabilmente con sé.
Ho trascorso una dozzina d’anni della mia vita insieme con un cane chiamato Cecilio Nero, detto locomotivo per via dell’esagerato sbuffare e ansimare come una locomotiva, un cane di nessun lignaggio, ma di taglia medio grande e col pelo nero di velluto, e due occhi gialli buoni che spesso lasciavano affiorare la sua vera natura di paraculo. Cresciuto da cucciolo con un pastore tedesco che si lasciava montare, o meglio: tollerava i goffi tentativi, gli approcci di quel cucciolo precoce e intraprendente-, era approdato alla convinzione che i pastori tedeschi maschi fossero tutti possibili prede sessuali, convinzione che nell’età adulta doveva riservargli spiacevolissime sorprese. Cane molto amoroso e anche avventuroso, non si è mai risparmiato di fronte a possibili fughe sentimentali: a volte spariva per giorni, e quando l’avevamo dato per disperso si presentava dietro la porta con la lingua penzoloni, inzaccherato, ferito, ma con l’aria del vincitore, quella intima soddisfazione di chi un risultato è riuscito a portarlo a casa. In età adulta sopravvennero diverse malattie, la famiglia fu allietata dalla nascita di bambini, il cane tra le varie patologie, non tratteneva i suoi bisogni, la presenza di neonati imponeva un’igiene rigorosa. Fummo costretti a trasferire Cecilio in una casa di campagna, solo, malato; per via degli impegni lavorativi potevamo raggiungerlo non più di tre volte la settimana per portargli cibo, compagnia, assistenza. Sopravvenne una paralisi degli arti, si trascinava sulle zampe anteriori, decidemmo che era ingiusto e inutile per lui sopportare tutte quelle sofferenze, un veterinario lo spedì nel paradiso dei cani in maniera veloce e indolore. Fu forse quel senso di colpa inevitabile che mi portò in seguito a occuparmi di diversi branchi di randagi. Per alcuni anni ho frequentato il parco archeologico di Canne della battaglia, il luogo dove Annibale massacrò l’esercito romano e dove però come uniche testimonianze evidenti della disfatta restano alcuni toponimi: la contrada Paolo Stimolo (Pauli tumulus, la tomba del console Paolo Emilio), e la contrada Pezza del sangue. A Canne andavo per fare le mie corsette lungo gli uliveti, ma anche perché stazionava un branco di otto randagi di varie taglie e razze. Arrivavo come un babbo natale carico di avanzi di prosciutti, formaggi, salami, dono di un amico dipendente di un supermercato, e i cani festeggiavano alla grande. Ma soprattutto festeggiavano la corsa, felici di accompagnarmi lungo i sentieri. A capo del branco una molossa nera, con i canini inferiori che spuntavano dal muso, ferocissima con i cani ma con me generosa di sguardi da innamorata. Neanche una fidanzata, neanche mia madre mi ha guardato con occhi così ardenti. Precedeva il gruppo, inseguiva gli uccelli, si voltava per ricevere un segno di approvazione. Tutto quel branco, sebbene inoffensivo, fu poi deportato in diversi canili della zona, e non fece che accrescere il mio senso di colpa. Forse è anche questo uno dei motivi per cui amiamo gli animali: li riconosciamo simili, capaci di sentimenti, di predilezioni, di interessi, di curiosità, di passioni.
Quella stessa curiosità e passione che ci spinge a farli passeggiare nei versi, a farne protagonisti di romanzi.
Grazie Paolo Polvani dei suoi sentimenti più calmi dei miei, ma non meno forti e giusti.. La maledizione biblica è la confessione
orrenda dell’antropoide che si elessee dio, maledetto da me. Da quando, ragazzino, vidi il truculento assassinio di un maiale,
il ricordo atroce mi perseguita mentalmente e moralmente. A volte nel mio studio, nascondo la faccia nelle mie mani gridando
dentro di me basta basta! Ancora grazie.
adp
Grazie mille caro Alfredo per il commento e per la bella, toccante memoria dell’assassinio di un maiale. Abitavo vicino alla stazione, e per anni ho assistito allo sguardo muto, ma quanto consapevolmente triste dei cavalli scaricati dai treni, imbarcati sui camion e destinati ai macelli. Anch’io conservo il loro sguardo come una maledizione, con bruciante senso di colpa. PP