Perché ho tradotto Baudelaire di Francesca Del Moro.
Mi ricorderò sempre di Baudelaire come di una svolta importante, del momento in cui ho iniziato a crederci. Frequentavo un corso di traduzione e uno dei docenti era il poeta Gianni D’Elia, che amava farci lavorare su Les Fleurs du Mal, per cui aveva un’autentica fissazione. Fu lui a riconoscere per primo un qualche talento poetico nei miei acerbi tentativi di traduzione in versi e, incoraggiata dal suo apprezzamento, decisi di scegliere proprio quest’opera come argomento della mia tesi di dottorato. Nel tentativo di ricreare le poesie francesi nella mia lingua, mi venne subito spontaneo rifiutare il verso libero e cercare di ricalcare per quanto possibile lo schema metrico dell’originale, così passai molte notti in bianco (avevo già lavoro e famiglia) nello sforzo disperato di far tornare i conti, di trovare rime non banali, di salvare la musica senza sacrificare il senso. Erano notti di fatica e frustrazione, ma anche di passione, che a poco a poco mi fecero innamorare di Baudelaire, della sua poesia così multiforme, ricca, ma anche immediata, intensa, sincera, a volte spudorata, pronta a spaziare dal sublime al volgare, dall’intimo colloquio con se stesso all’affresco grandioso. E, mentre mi sforzavo di ricreare la sua voce nella mia, mi scoprii a cercare la mia voce attraverso la sua.
Grazie a questa frequentazione assidua e obbligata della poesia, cominciava ad affacciarsi alla mia mente, più spesso che in precedenza, la possibilità di esprimermi nella forma del verso. Le sillabe che contavo ossessivamente e la musica che ascoltavo per alleviare quelle notti mi invitavano a cercare una melodia da applicare ai miei pensieri. Così iniziai a scrivere con maggiore convinzione, inizialmente a fini terapeutici. All’epoca vivevo una situazione di profonda sofferenza che più o meno consciamente cercavo di rimuovere, così scrivere poesia divenne un modo per portare alla luce questa scomoda verità, senza filtri o infingimenti, nella sua crudezza. Attraverso la scrittura, la sofferenza si spostava all’esterno, diventava addomesticabile, e riuscivo a guardarla senza paura. Ma non mi bastava mettere su carta il brutto che avevo portato fuori di me: desideravo che si trasformasse in qualcosa di bello. Qualcosa che desse un significato al dolore, mutandolo in arte, nei classici “fiori che nascono dal letame”, per fare del disprezzo di me stessa un motivo di apprezzamento. Non facevo mai leggere i miei testi agli altri, non avevo idea di come sarebbero stati recepiti, finché decisi di mandarli a un editore che aveva messo un annuncio sul giornale.
La pubblicazione e la stima degli editor della casa editrice mi diedero sicurezza ma fu la reazione del pubblico al primo reading che mi convinse a intraprendere con determinazione la strada della poesia. Persone che mai avrei immaginato potessero provare ciò che provavo io si immedesimarono nelle mie parole, ne furono toccate, qualcuno addirittura pianse. In quel momento mi resi conto di quanto fosse vero l’adagio secondo cui “più qualcosa è personale, più diventa universale”, il che non significa accartocciarsi sulla propria esperienza, ma avere il coraggio di mettersi completamente a nudo, di esporre quella natura umana autentica che quotidianamente ricopriamo con strati su strati di consuetudini e decenza, quando non di ipocrisia. Infilarsi le mani in gola e tirare fuori quello che noi per primi tentiamo di ricacciare indietro per il disgusto, il dolore o la vergogna, può avere un effetto dirompente sugli altri, può aiutarli a capire se stessi, a sentirsi meno soli.
Col tempo, la funzione terapeutica della scrittura è in parte venuta meno e la poesia per me è diventata un modo per comunicare esperienze significative con l’ambizione di avere un impatto sulle persone. Affinché questo accada, è necessario che l’esperienza abbia prima di tutto un impatto su chi ne scrive. Ed è nel momento in cui si avverte questo impatto che bisogna catturarlo, come chi passeggiando nota uno scorcio memorabile che non può fare a meno di fotografare. Personalmente effettuo lo scatto memorizzando o scrivendo le parole che mi arrivano d’istinto e poi le risistemo come il fotografo rielabora l’immagine con i moderni strumenti di image editing. Le mie poesie non sono spontanee, raramente le ho “vomitate” nella loro forma definitiva, ma desidero che vengano percepite come tali. Lo sforzo di trovare le parole giuste, di disporle nel modo migliore, la fatica di costruire la musica del verso libero non si devono percepire, così come doveva rimanere nascosta la lotta con rime e sillabe che stava dietro alle mie traduzioni di Baudelaire.
L’esperienza da cui nasce la poesia può essere qualunque cosa: dolore, felicità, paura, rabbia, e per me più spesso una presa di coscienza, un concatenarsi di pensieri, un susseguirsi di libere associazioni, un incontro, una scena di cui sono spettatrice, l’esperienza di qualcun altro che mi suscita una profonda empatia. Mi capita di trarre ispirazione da un’altra poesia, una canzone, un romanzo, o anche un film, oppure da un fatto di cronaca che assume un valore paradigmatico.
Cerco di scrivere testi che suscitino immediatamente delle sensazioni o scatenino pensieri, senza che il lettore debba sforzarsi o rileggere più di una volta per trattenere un qualche significato. L’essenziale è non applicare mai filtri né censurarmi. Per questo non esito a usare parolacce e bestemmie laddove necessario, né rinuncio a esprimere sentimenti negativi o a dar voce a sbocchi di violenza, aneliti suicidi e omicidi, nonché slanci sessuali considerati generalmente indegni. La poesia non può tirarsi indietro di fronte a nulla: per me rappresenta una vivisezione che chi scrive attua su di sé in quanto prima cavia a disposizione per indagare la natura umana. Spesso, per evitare di scivolare nel patetico o nel melodrammatico, contrasto il contenuto con una forma giocosa, ironica, grottesca o splatter.
Al di là dell’apparente spontaneità dei miei versi, mi piace costruire stratificazioni di riferimenti e sensi, spesso ricorrendo a citazioni, giochi linguistici, espressioni ambivalenti, contaminazioni di registri e conflitti tra ritmo e senso, per lasciare la possibilità di scoprire, a una lettura più attenta, una serie di dettagli non immediatamente percepibili, come in un quadro di Chagall.
Il mio sogno più grande sarebbe fare una qualche differenza nella vita di chi mi legge, così come la mia vita è da sempre segnata dall’opera di musicisti, scrittori e poeti, non ultimo il grande parigino, la cui voce inevitabilmente continuo a sentire nella mia.
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Épigraphe pour un livre condamné
Lecteur paisible et bucolique,
sobre et naïf homme de bien,
jette ce livre saturnien,
orgiaque et mélancolique.
Si tu n’as fait ta rhétorique
chez Satan, le rusé doyen,
jette! tu n’y comprendras rien
ou tu me croirais hystérique.
Mais si, sans se laisser charmer,
ton œil sait plonger dans les gouffres,
lis-moi, pour apprendre à m’aimer;
âme curieuse qui souffres
et vas cherchant ton paradis
plains-moi!… Sinon, je te maudis!
*
Epigrafe per un libro condannato
Lettore dabbene e innocente
e bucolico getta via
il libro orgiastico e dolente
e pieno di malinconia.
Se Satana, astuto docente,
non ti insegnò la poesia,
gettalo! non capirai niente
credendomi in preda a isteria.
Se, senza lasciarti incantare,
l’occhio tuo al baratro offri
leggimi, e mi saprai amare,
spirito curioso che soffri
e cerchi il tuo cielo perfetto,
compiangimi… o sii maledetto!