Personagge in cerca di nuovi alfabeti, di Loredana Magazzeni.
Al Convegno della SIL (Società Italiana delle letterate) sul tema delle Personagge, cioè sulla riscrittura al femminile di miti e fiabe nella poesia. Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster e Anna Maria Robustelli hanno presentato un lavoro comune dal titolo “Poesia: il riuso delle Personagge del mito e della fiaba”. Loredana Magazzeni ci proponiamo qui, in estratto, la parte di lavoro da lei realizzata:
Le Muse Inquietanti è il titolo di una famosa poesia di Sylvia Plath, tradotta da Amelia Rosselli, e di un noto quadro di De Chirico raffigurante manichini femminili senza volto tra rovine di antichità classica. In Plath le muse senza volto sono le fate madrine che si chinano sulla culla della bambina ondeggiando le loro teste calve: “Mi chiedo/se tu le hai viste, se tu hai proferito/ parole per liberarmi da quelle tre dame/ che annuiscono, che annuiscono di notte attorno al/ mio letto senza bocca,/ senz’occhi, con calve teste/ rappezzate…”. Questo riferimento ci sembrava inderogabile a indicare la mancanza di volti di una tradizione artistica, non solo letteraria, femminile e la necessità di ripensarla e ricostruirla criticamente come è avvenuto in questi anni, col fiorire di innumerevoli studi di genere, dentro e fuori dalle Università.
Dare volto alle voci, renderle Persone, ingaggiando un corpo a corpo con la Tradizione che ne ha secretato le presenze, considerandole espressioni secondarie, geminazioni trasversali dell’albero secolare chiamato canone occidentale.
Eppure, la cosiddetta secondarietà dell’arte femminile, il suo essere in origine un’arte di figlie, di amiche, di madri, di sorelle, di amanti dell’artista riconosciuto ufficialmente ha costituito un must, una pietra angolare, l’elemento originale e perturbante di quell’arte che poteva permettersi di citare o di deviare rispetto alla norma proprio in virtù della sua secondarietà.
Se Emily Dickinson può permettersi in poesia di costruire una sua immensa filosofia del mondo è grazie alla secondarietà del suo isolamento. Già in Italia, in epoca risorgimentale, quando le artiste cominciano ad acquisire visibilità pubblica, esibendosi nei teatri come attrici o poetesse estemporanee, introducono nei loro testi un elemento parodico o autoironico che dà la misura della loro consapevolezza. Così Vittoria Berti Madurelli, poetessa di Vicenza scrive nel suo Autoritratto (“Amo de’ Sofi e delle Muse il coro;/Di fortuna il rigor sprezzo orgogliosa;/E cortesia, non mai dovizia onoro.” e Annie Vivanti può scrivere con allegria che il suo libretto “Lirica” accortamente prefato da Carducci, dopo alcuni anni sarebbe stato venduto “un tanto al chilo” sui banchetti dell’usato.
Le prime a smitizzare la letteratura sono proprio le donne che, del fervore postunitario raccolgono anche una deriva crepuscolare e soprattutto un elemento etico e sociale, divenendo scrittrici ed educatrici, in un’Italia completamente analfabeta, di cui denunciano le condizioni di sottosviluppo e degradazione, in cui versano soprattutto donne e bambini. Antesignana di una poesia civile per i temi che tocca e per i soggetti che rappresenta, la scrittura delle donne (poesia, memorialistica, epistolari, racconto breve) alla soglia e poi alla metà del ‘900 inventa personaggi e personagge straordinari anche per il rifiuto di modelli sessuali codificati e la consapevolezza (vuoi piena, vuoi sotterranea o in fase aurorale) dei nuovi diritti delle donne, proponendo in alcuni casi nuovi modelli anche di grande ambiguità sessuale, in uno stile nuovo che potesse dirli.
A questo punto della nostra storia letteraria è maturata nelle scrittrici la coscienza di poter manipolare e riscrivere l’antico attingendo al vaso di Pandora della Tradizione. E dal momento che l’antico è un vestito continuamente riadattato al presente e a corpi che continuamente rimodellano i loro confini, la riscrittura dei personaggi e delle personagge del mito antico, della fiaba, del nuovo e del vecchio Testamento divengono per loro materia poetica, così come diviene un vero e proprio genere nelle scrittrici di area anglofona.
Di cosa parliamo quando parliamo di mito
Nel lavoro di squadra compiuto sulle poesie di Corporea, si era già profilato per noi un orizzonte dove le scrittrici anglofone, in particolare Marge Piercy, Lucille Clifton, Denise Duhamel, Vicki Feaver, Carol Ann Duffy e molte altre, mostravano una chiara volontà di citare e ri-scrivere i personaggi chiave dell’immaginario simbolico popolare (da Eva a Biancaneve, da Narciso a Penelope, da Euridice a Cappuccetto Rosso) attingendo a piene mani dall’enorme contenitore di storie che è il mito. Questa tendenza già messa in evidenza dalle critiche di stampo femminista (Ostriker, Rukeyser, Rich) ci ha spinto a investigare con maggiore profondità nella convinzione che l’uso delle grandi figure del mito fosse funzionale a contenuti nuovi e a nuove visioni del mondo.
L’operazione di rottura e trasgressione che la scrittura femminile/femminista stava compiendo, era questa: rientrare nel solco della Tradizione per ritrovare le antiche radici e reinnestarle di linfa nuova, nuovi punti di vista, ibridandole e così riportandole a nuova vita.
Un’operazione simile hanno compiuto negli ultimi anni anche molte autrici italiane e certamente una visione parzialmente comparatistica potrebbe aiutare chi legge a dipanare un filo conduttore coerente. Prendere per mano il mito e rileggere le Personagge oggi, come in uno specchio, è quello che tenteremo di fare, portando alcuni esempi esplicativi della reinvenzione della Personaggia.
Bella e la Bestia: la potenza riparatrice della parola
“Il mondo futuro è creato con questa lettera”, scrive Rossana Ombres in nota alla poesia “Bella e il golem” (Bestiario d’amore), a proposito dello yod, la lettera ebraica che, secondo l’interpretazione talmudica, ha il potere di creare futuro. A Bella dunque il compito, per Ombres, di “leggere la formula col giusto suono”, in modo da disattivare, rendere innocua, la potenza distruttiva del golem, pronto a cancellare il mondo.
Il golem non parla. La parola, nella modulazione di Bella, è armonia che “fa crescere una foresta”, suscita intorno a lei “mille cherubini lessicali” che le girano intorno “come un’aureola per santi”; la melodia della parola, il suo giusto suono (Bella deve leggere il nome nel modo “giusto”) fa rimpicciolire e rotolare via il mostro distruttore. E’ solo allora che ella può tornare “alla sua mantellina d’ortiche”.
Questa densa poesia della Ombres racchiude una visione salvifica della parola delle donne, esplicitata in nota alla poesia stessa: “fin da bambina ho sempre pensato che i mostri potessero essere vinti da creature femminili”, nei confronti di un mondo dominato da un principio maschile autodistruttivo.
Colui che costruisce futuro “perché ha uno yod nel nome”, nella fretta creatrice di vedere mondi “suscitati dal grande crogiuolo” pecca di disattenzione e non si accorge di avere, invece, suscitato mostri. Ma il disastro si annuncia “con una fitta alla spalla destra” e con il “tocco furente di Ariel” che lo avverte della sua leggerezza. Troppo tardi. Il golem sta già invadendo il mondo, percorrendone le “strade stralunate”. Era l’ora del crepuscolo, avverte la poetessa, che più d’ogni altra ora “somiglia alla menzogna e alla confusione”. E’ l’angelo Raziel, l’angelo annunziante, ad avvertire Bella.
Bella è “chiusa nella torre dell’orologio” e tesse “una mantellina d’ortiche”. In molte fiabe il personaggio femminile appare in un interno protetto (torre, casa, castello), fermo nell’attesa di un evento non ancora precisato. In più sta tessendo (verbo femminile per eccellenza, che comunica il senso di un’attività relazionale e riparatrice) “una mantellina d’ortiche” (nella fiaba I cigni selvatici di Andersen, la protagonista “tesse ortiche per farne tuniche che salveranno i suoi fratelli, perché anche Bella lavora per salvare” scrive in nota la Ombres).
L’angelo la porterà in una grotta, “una caverna/ la prima del mondo/ una tana ancora incrostata/ di gamberi e di peccato originale” che ha apertamente il senso di un luogo primordiale (una caverna platonica) dove ri-leggere, ricostruendo, il mondo al di fuori. Ed è quello che Bella farà, distruggendo il nome del golem, la sua potenza distruttrice e riuscendo poi a tornare, molto umilmente, alla sua attività originale (Bella torna alle sue mantelline d’ortica). Non si sostituisce al creatore, non diventa un demiurgo. Semplicemente ripara l’inevitabile con la potenza delle parole dal suono giusto.
In “Beauty and the Beast”, l’inglese Vicki Feaver si tiene più aderente al modello della fiaba originale, basata sul rapporto d’amore fra la donna e l’uomo. Tutta giocata sui temi della fame e della sazietà, del mangiare e dell’essere mangiati (“L’avrebbe mangiata alla fine”, “piluccava la carne”, “con la lingua succhiava un mollusco”), la poesia gioca sull’operazione di autocontrollo che deve fare la Bestia nel vedere Bella che si rifocilla continuamente, mentre lui procrastina il desiderio di saltarle addosso e di mangiarla, proprio perché vuole che rimanga in vita. E mentre a lei “i bottoncini di madreperla/volavano via dai vestiti”, la pancia di lui penzolava “come una borsa vuota”. La Bestia rimanda bella da suo padre, per salvarla dalla sua fame. Ella ritorna invece e lo sorprende con l’urgenza del suo desiderio: “Sentì il rumore dei passi, il sapore//di qualcosa di umido e salato/ sulle labbra, mani che/abbassavano la cerniera della sua pelliccia” (in Corporea, cit., traduzione di Brenda Porster).
Come nella fiaba originale, la protagonista è qui a metà fra la casa del padre e quella dello sposo mostruoso. Non si sa ancora quale dei due luoghi sia il migliore. Certamente, è la potenza del desiderio di Bella, la potenza femminile a disattivare, a rompere anche qui il dispositivo mostruoso che imprigiona e impedisce un vero scambio d’amore. E come nella riscrittura di fiabe della Ombres, è l’elemento femminile riparatore a rendere possibile la salvezza e la vita, non solo di una, ma di entrambi.
L’ascia della lingua di Cappuccetto Rosso
In “Nel bosco” di Elisa Biagini, la fiaba di Cappuccetto Rosso e quella di Hansel e Gretel reggono una complessa architettura di metafore che decostruiscono gli archetipi fiabeschi originali per ritessere una trama narrativa compatta e coerente attraverso uno stile essenziale e rarefatto. Una parola “erosa” scrive Biagini, regge oggi la necessità di dire i nuovi contenuti simbolici con nuove parole. L’erosione della lingua è già in atto qui, sopra il bianco delle pagine, su cui le parole nude, essenziali della poesia segnao orme, tracciano segni per il lettore. Chi si addentra “nel bosco” narrativo e poetico di Elisa Biagini inciampa fin da subito in un suicidio, che avviene “nel 1° mese/ dopo il mio concepimento”. E come se da questa fine si potesse risalire indietro, all’ora e al tempo dell’origine, in uno stato nascente di indifferenziazione fra le specie “ho spinto per/ due ali o/ due pinne”, Biagini racconta se stessa ab origine, dal parto di una “bimba nella/ placenta, bimba/ sotto coperta,,/ nella corteccia/ morbida di pelle,/ indurita dal bosco”.
Inoltrarsi nel bosco è un ritornare “al tondo della pancia”, dove i semi delle parole sventagliano combinazioni figurali nuove: il lupo è anche madre, è ciò che, dandoci forma ce la può ritogliere, rimangiare: “in sogno/ mi pareggi le unghie/ coi tuoi denti: mi hai fatta/ e mi puoi sfare,/ un boccone/ alla volta”, è l’Altro con cui avviene uno “scambio di pelli” in cui specchiarsi e riconoscersi: “in questo/ scambio di/ pelli, ti/ riconosci nel/ bianco dei/ denti, gli occhi-/ pozzi, orecchie/ come guanti”. E il rosso è il sempre presente elemento del sangue (mestruale, ma anche placenta: “rossa che nuoti nel/ tuo sangue,/ appena fatta, bimba/ qui scodellata”, ma anche medicamento, medicina salvifica: “ogni goccia/ di suo sangue/ è medicina”, il perdersi è sempre un ritornare: “perditi, bimba… ritorna qui/ in bocca alla tua mamma”, seguendo le tracce dell’odore “diverso” del lupo-mamma: “ti nascondi il/ diverso, il tuo/ odore, quasi tagli/ la coda, quel/ cordone segreto”.
Nella silloge successiva del libro, “Gretel o del perdersi”, inseguire la madre-specchio, seguendo il suo messaggio indecifrabile e animale: “quella parte/ incontrollata di/ messaggio,/ lettera/ che io posso/ combinare” . Quella della madre è una lingua-alfabeto, a cui “come da un oblò” affacciarsi: “qualche tua lettera/ galleggia con il/ cibo, come lisca/ rimasta,/ frammento/ di tavoletta da cui/ ricostruire un alfabeto”.
Attraverso le “parole lucciole” e la “traccia di latte”, Biagini percorre il sentiero linguistico scegliendo sempre più una lingua-direzione che è quella materna della gola. “mappa masticata e/ risputata”, quella ancestrale del corpo-caverna: “il mio corpo che si cerca/ converge all’ombelico,/ si rivolta come calza/ che sfugge il rammendo,/ offre alla luce/ le stalattiti dei polmoni”.
Anche in questi testi avviene uno scambio di ruoli e di personae: è il bosco che diventa lupo inseguitore, la bambina albero: “perduta? È il bosco/ che mi segue, che beve/ la mia ombra, mi/ svuota, tronco cavo/ io foglia, tra le/ pagine di un libro” mentre la lingua si fa ascia per liberarsi e trovare la strada: succhio il vetro per meglio/ vedere, perché la lingua/ sia ascia nel fondo del/ bosco/ mi mangio la mia strada/ via di qui”.
In “Little red-cap” di Carol Ann Duffy (La moglie del mondo) Cappuccetto Rosso è una ragazzina sedicenne che, al limite della città, incontra il “lupo”, un maturo poeta. Nella tana del lupo apprende le prime lezioni d’amore mentre, “in fondo alla tana/ scopre una “parete tutta porpora e oro, splendente di libri./ Parole, parole vive sulla lingua, vive nella testa,/ calde, palpitanti, convulse, alate; musica e sangue”. Per dieci anni la ragazza resta accanto al lupo poeta finché, anche qui con un’ascia, rompe l’illusoria superficie delle cose: “Con/ un’ascia colpii/ un salice per vedere come piangeva. Con un’ascia colpii un/ salmone/ per vedere come saltava. Con un’ascia colpii il lupo/ mentre dormiva” (traduzione di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti).
L’ascia della lingua ha colpito ancora.
A questo punto della nostra storia letteraria è maturata nelle scrittrici la coscienza di poter manipolare e riscrivere l’antico attingendo al vaso di Pandora della Tradizione. E dal momento che l’antico è un vestito continuamente riadattato al presente e a corpi che continuamente rimodellano i loro confini, la riscrittura dei personaggi e delle personagge del mito antico, della fiaba, del nuovo e del vecchio Testamento divengono per loro materia poetica, così come diviene un vero e proprio genere nelle scrittrici di area anglofona.
(…)
L’operazione di rottura e trasgressione che la scrittura femminile/femminista stava compiendo, era questa: rientrare nel solco della Tradizione per ritrovare le antiche radici e reinnestarle di linfa nuova, nuovi punti di vista, ibridandole e così riportandole a nuova vita.
(…)
Questa densa poesia della Ombres racchiude una visione salvifica della parola delle donne, esplicitata in nota alla poesia stessa: “fin da bambina ho sempre pensato che i mostri potessero essere vinti da creature femminili”, nei confronti di un mondo dominato da un principio maschile autodistruttivo.
Le donne lavorano per salvare, per ricucire, per ritessere, per tenere accanto ciò che altri disperdono con ferocia o indifferenza.
Mi pare che anche qui, come nelle mie riflessioni in altro articolo qui presente, si giunga alle stesse conclusioni e ne sono lieta perché. per percorsi differenti e sguardi rivolti ad altri elementi pur si giunge a sintesi molto simili.
Grazie. ferni
Grazie a te, Fernanda, della condivisione. Invito tutte a segnalarmi altre riflessioni sull’importante contributo delle poete nella riscrittura dei miti e delle fiabe, è un campo aperto che offre molteplici sfide.