Pieri mat Ti lu sintis di lontan, poesie di Francesco Indrigo (Friuli), con una nota dell’autore.
Francesco Idrigo Ha pubblicato in riviste, antologie, albi e quaderni sparsi. Nel 2001 la silloge “Matetàs” (Ediciclo editore), prefazione di Gian Mario Villalta, nel 2005 “Foraman” (Campanotto editore), prefazione di Gianfranco Scialino, nel 2008 “Foucs” (New Print edizioni), prefazione di Gianfranco Scialino, nel 2009 “Revòcs di tiara”(Kappa Vu edizioni), Prefazione di Mario Turello, nel 2013 “La bancia da li’ peraulis piardudis”, (Kappa Vu edizioni), prefazione di Rienzo Pellegrini. E’ stato a lungo operatore culturale, fa parte del gruppo di poesia/laboratorio Majakovskij.
La poesia è venuta, nel senso di esperienza scritturale, a ridosso dei quarant’anni. Prima ero solo un avido lettore. L’improvvisa consapevolezza, per frequentazioni professionali e impegno sociale, di non articolare più il pensiero nella lingua madre, il friulano della Bassa, mi provocò una sorta di corto circuito. Niente più lontano da me del brandire spadoni identitari o idiozie simili ma il rischio di dissipare il patrimonio della lingua dei padri, con la sua plurisecolare storia, cultura, tradizione e l’organica appartenenza ad un mezzo di comunicazione sociale straordinario per pregnanza, musicalità e poetica espressione, nel senso pasoliniano del termine, generò in me l’avvisaglia di una diaspora. Da qui lo studio, l’indagine conoscitiva, l’analisi delle varianti dialettali e della Koinè friulana, riconosciuta ufficialmente dalla legge 482/99. Successivamente a ciò la declinazione strutturale in poesia e in prosa fu inevitabile. Altrettanto inevitabile, per molti ed io tra questi, appare la difesa “resistente”, nel tempo della coercitiva e massiva lingua del mercato globale, del dialetto come elemento ancora “vero” e autentico, non intaccato dalle logiche dei monopoli. Scrivere in dialetto perché sia trasmettibile, presuppone una specie di fedeltà, di adesione filologicamente corretta al suo statuto originale, pur nelle auspicate, comprensibili e opportune mutazioni dovute all’irruzione dell’attuale che una lingua subisce. Anche se i vocanti dialettali nell’uso quotidiano in Italia, pare non superino la soglia del 16%, in letteratura dopo il progressivo allontanamento dal vernacolare, grazie ad una folta schiera di autori di nuova generazione che hanno abbracciato la Poesia “tout court”, osserviamo parecchi giovani approdare alla scrittura nelle così dette lingue minoritarie. C’è speranza. Certo non potrei esistere senza la poesia, anche se molto spesso ho la sensazione di essere scritto dalla poesia, in una sorta di sospensione temporale e del respiro, abitando quell’incisione, quel solco nero sul biancore abbagliante del foglio in cui mi specchio.
Le poesie qui proposte sono pubblicate in: “La bancia da li’ peraulis piardudis / La panchina delle parole perdute”, Edizioni KAPPA VU. FI
Pieri mat
Ti lu sintis di lontan. La vôs di crovat
a scjassa il vint. I fiolas ch’àn marinat
la scuela a cjapin post ator a la bancia e lu spetin.
Lui al rivarâ dut sbarlufit e cui giornai sot il bras.
L’oster j fa meti a post i taulins e tirâ su li’ cichis
e li’ cjartis par tiara e po j ufris il cafè
e i giornai dal dì prin. Lui al studia, dì e not.
Al taia, al scurta, al zonta fats e dichiarazions
e storis cun pì storis, al scjavassa li’ peraulis
par cjatâ il sens dal sens e po si presenta lì.
In piè ta la bancia, vosant, ch’a lu sintedin
encia di là da la strada, sot misdì a è la so ora
di lezion. E i fantats a ridin e si dan di comedon,
e i fantats a stan sidins cu li’ mans ta li’ mans,
e i fantats a li’ voltis, encia ‘na lagrima.
Che se no ti às capit ‘na roba, Pieri mat ti la spiega.
Piero matto / / Lo senti da lontano. La voce di cornacchia / scuote il vento. I ragazzi che hanno marinato / la scuola prendono posto tutt’attorno alla panchina e lo attendono. / Lui arriverà tutto scarmigliato e con i giornali sotto il braccio. / L’oste gli fa mettere in ordine i tavoli e raccogliere i mozziconi / e le carte da terra e poi gli offre il caffè / e i giornali del giorno prima. Lui studia, giorno e notte. / Taglia, sintetizza, aggiunge fatti e dichiarazioni / e storie con più storie, attraversa le parole / per trovare il senso del senso e poi si presenta lì. / In piedi sulla panchina, ad alta voce, che lo ascoltino / anche dall’altra parte della strada, poco prima di mezzogiorno è la sua ora / di lezione. E i giovani ridono e si danno di gomito, / e i giovani tacciono con le mani nelle mani, / e i giovani a volte, anche una lacrima. / Che se una cosa non l’hai capita, Piero matto te la spiega.
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Ines d’unviâr
Il miarli al sbecotea li’ friguis
di pan ch’il scjassâ da la tovaia rossa
a j à regalat. La dolsa nȇf a si spagutìs
dal neri piturat tal siò cuarp fonf,
ma li’ satis a j fan li’ gatarigulis
e il siò saltignâ a la fa ridi in plen sorèli.
Al è malsurnit e ansios il miarli,
al à sbarufat cu li’ cechis dal ciamp
dai Nimis e al à pora ch’a j fedin
la paissa. Co ‘l svuala via il sièl
al s’infumantea. Là zu in paîs,
la bancia a sarâ inglasada e plena di fret.
Me fì di oru pì biond
al è in ciambra ch’al studia a plan,
sensa rumôr, fora al è crut,
jo ‘i soi ingrisignida … dentri,
e il me on al è in mobilitat.
Ines d’inverno / / Il merlo becca le briciole / di pane che lo scuotere della tovaglia rossa / gli ha donato. La dolce neve si spaventa / del nero tinto sul suo corpo morbido, / ma le zampe gli fanno il solletico / e il suo saltellare la fa sorridere in pieno sole. / E’ malconcio e timoroso il merlo, / si è azzuffato con le gazze del campo / dei Nimis e teme che gli tendano / un agguato. Come vola via il cielo / s’ingrigisce. Laggiù in paese, la panchina sarà ghiaccia e infreddolita. / Mio figlio d’oro più biondo / è in camera che studia piano, / senza rumore, fuori gela, / io rabbrividisco … dentro, / e mio marito è in mobilità.
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Rico dai colombs
a Nâzim Hikmet
Co lu spacheva a metat al feva un rumôr
zal, sec di tiara di Lui. Al era veciu
di podȇ fidasi, no coma i fiuluts che corint
a plena vôs a ju scorsevin via.
I colombs a si fidevin di lui.
Il cricâ da la pagnoca al era la clamada
e ta un bati di sea al vigniva cuiart
di plumis ch’a j bechevin li’ friguis
ta li’ mans, tai zenoi e ta li’ scarpis.
Finit il pan un scjap di lôr a j zorzeva
ator ciacarusant, par faj compania.
A la matina bunoris, cuant che i stradins
l’àn ciatat poiat in bandela ta la bancia,
i colombs a erin cuciats tal siò grin.
Forsi pensant ch’al si fos trasformat
ta ‘na statua, si erin piciats ta li’ spalis
e tal ciâf, j vevin sbitarat li’ manis
da la giacheta e il camuf da li’ barghesis.
Rico al veva la bocia stuarta, scuasi a ridi,
si sa che i sghits dai ussiei a partin ben.
Enrico dei colombi / / Come lo spezzava a metà faceva un rumore / giallo, secco di terra di luglio. Era vecchio / da potersi fidare, non come i bambini che li rincorrevano / a squarciagola. / I colombi si fidavano di lui. / Il crocchiare della pagnotta era il segnale / e in un battito di ciglia veniva coperto / di piume che gli beccavano le briciole / sulle mani, sulle ginocchia e sulle scarpe. / Finito il pane alcuni di loro gli gironzolavano / attorno chiacchierando, per fargli compagnia. / Di primo mattino, quando gli stradini / l’hanno trovato sulla panchina appoggiato su di un fianco, / i colombi gli si erano accovacciati in grembo. / Forse pensando che si fosse trasformato / in una statua, si erano appesi sulle spalle / e sul capo, gli avevano schizzato sulle maniche / della giacca e sulla balza dei pantaloni. / Enrico aveva la bocca storta, quasi un sorriso, / si sa che gli escrementi degli uccelli portano bene.
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Sheida, cameriera di not
No sai di dì, ma la not a si trasformin.
Da miezanot a li’ seis, par 50 euros in neri.
Su e zu pa’ i taulins, cun vistidus di nula,
a partâ di bevi a zent ch’a no à mai patit la set.
Tra il slungjâ di scundion da li’ mans
e il cisicâ sosarìis ta li’ orelis.
Ma jo ‘i ài vinc’ ains.
E dut chel ch’a si scunsuma a si paja.
A è la lès.
A la matina co ti dâ i bês, il paron a ti palpa
cui vui e al rit, al rit, al rit.
Ma jo ‘i ài vinc’ ains.
E ‘i vegni uchì, a sintami ta la bancia,
a dispoiàmi da la not e dal siò pantagnec.
‘I mi gjavi li’ scarpis e ‘i vardi li’ nulis passâ.
Blancis e fonfis, cubiàsi tra lôr e slungjâ
il pas coma ch’il vint j fa di motu.
Sparnisasi e tornâ a cjatasi di n’altra banda,
pì in nà dai vui, forsi encia a cjasa me,
cussì cuant che fumulis in alt a disgotin,
almancu ‘i no soi di bessola.
Sheida, cameriera di notte / / Di giorno non so, ma la notte si trasformano. / Da mezzanotte alle sei, per 50 euro in nero. / Su e giù per i tavoli con vestitini di nuvola, / a portare da bere a gente che non ha mai sofferto la sete. / Tra l’allungare furtivo delle mani / e il sussurro osceno nelle orecchie. / Ma io ho vent’anni. / E tutto quello che si consuma si paga. / E’ la legge. / Al mattino quando ti consegna il denaro, il padrone ti palpa / con gli occhi e ride, e ride, e ride. / Ma io ho vent’anni. / E vengo qui, a sedermi sulla panchina, / a spogliarmi della notte e della sua melma. / Mi tolgo le scarpe e guardo le nuvole passare. / Bianche e rigonfie, accoppiarsi tra loro e allungare / il passo appena il vento gli fa un cenno. / Diradarsi e ritrovarsi da un’altra parte, / oltre gli occhi, forse anche a casa mia, / così quando grigie in alto sgocciolano, / almeno non sono da sola.
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Mario il pensador di via Streta
Ma se ti vignaras su di là, par il ciavès
da la via Streta, dulà ch’a passa doma ‘na machina
e ‘na grampa di vint, di matina bunoris
cuant ch’il mont si dispastura da li’ ombrenis
e al spalanca il mont, ti podaras viodi il soreli
imbrincà par man la lûs e sparnisala sot i puartis,
sblanciâ il ruzin da li’ saracineschis,
dismovi Nane Barbon e fa dismenteâ la guera
ai gjats. E sarâ di lì a puc, ta la penultima
cjasa, parsora il spezial, che Maria a viarzarâ
i barcons, la puarta da la sô ciambra,
chê ch’a dâ in teraza. E vignarâ fora cui cjaviei
neris, ris e sgarnis, ‘na cjavielada di piardisi,
i vui neris enciamò sot l’indormia da la marea
dai suns e si distirarâ e slargiararâ i bras
al nouf lusôr, cussì che la sô vestaliuta rossa
a inflamarâ il soreli, che sbarlumit al naufragarâ
ta la curva dai flancs, tal sercli dal sen
e tal orli dai lavris. Po, Maria si voltarâ
viars di me, ch’i sarai sintat ta la bancia
a spetala e ridint mi saludarâ cu la man
e l’aria mi partarâ il prufun dai siò’ suns
e jo mi alsarai in piè a saludala cu la man,
e jo j ridarai di lontan e …
e jo podarai cundurâ a vivi.
Mario il filosofo di via Stretta / / Ma se salirai da quella parte, all’inizio / di via Stretta, dove può passare solo un’automobile / e una brancata di vento, all’alba / quando il mondo si libera delle ombre / e spalanca il mondo, potrai vedere il sole / afferrare per mano la luce e spargerla sotto i portici, / sbiancare la ruggine delle saracinesche, / svegliare Giovanni Barbone e far dimenticare la guerra / ai gatti. E sarà di lì a poco, nella penultima / casa, sopra il farmacista, che Maria aprirà / gli scuri, la porta della sua camera, / quella che dà in terrazza. E uscirà con i capelli / neri, ricci e arruffati, una capigliatura da perdersi, / gli occhi neri ancora anestetizzati dalla marea / dei sogni e si distenderà, e allungherà le braccia / al nuovo chiarore, così che la sua rossa camicia da notte / infiammerà il sole, che abbagliato naufragherà / sulla curva dei fianchi, sul cerchio del seno / e sul orlo delle labbra. Poi, Maria si girerà / verso di me, che sarò seduto sulla panchina / ad attenderla e ridendo mi saluterà con la mano / e l’aria mi porterà il profumo dei suoi sogni / e io mi alzerò in piedi a salutarla con la mano, / e io le sorriderò da lontano e … / e io potrò resistere a vivere.
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