Poema per Parigi, di Luca Mozzachiodi

Poema per Parigi, di Luca Mozzachiodi.

    

    

Luca Mozzachiodi: (Genova 1992). Poeta e scrittore, ha vissuto a Sarzana e attualmente 11214304_10204966340417948_1924756660261944900_nabita a Bologna, organizza letture e laboratori letterari rivolti principalmente all’approfondimento della maggiore poesia italiana ed europea. Ha diretto nel 2013 la rassegna di poesia giovanile a Bologna SpaziDiVersi; per il Collegio Superiore, presso il quale detiene una borsa di studio, ha organizzato nel periodo 2012-2014 il ciclo di incontri Dialoghi al Collegio. Ha collaborato alla realizzazione di spettacoli poetico musicali con il conservatorio di G. Battista Martini di Bologna e con un progetto di sintesi tra poesia e musica con l’Accademia di musica Beat-Bit. Si occupa di volontariato, antimafia e mobilitazione sociale con l’associazione PrendiParte, della quale è consigliere direttivo, ha collaborato all’atlante di poesia Ossigeno Nascente, tiene un blog di arte, letteratura e storia per il circolo del Manifesto di Bologna e collabora con l’editore Qudulibri. Per i tipi dell’Editore Serra Tarantola ha pubblicato il poema Le strade di Gerico (2013), attualmente lavora alla raccolta di poesia L’arte della sconfitta e ad una miscellanea di saggi di letteratura e critica culturale, Fragilità e Fragore, sue poesie sono presenti in rete e su diverse riviste online che ospitano anche i suoi saggi teorici e critici.

Poema per Parigi
(L’impero della luce-Capitale del dolore-al cuore dell’uomo

I

Sopra, nell’azzurro, sarà
come essere nati una volta soltanto,
e insieme a tutto il mondo gemmato dall’iride
come in un tuffo scoprire
alte montagne, boschi e a ritroso fiumi e civiltà
e poi pianure, strade, paesi accanto
ai campi coltivati in luce
marrone e verdastra, in forme squadrate,
mano a mano scendendo dal non essere
nominare uno a uno i colli e le piante
e poi le diverse ore di raggi spioventi
sulle mura delle case e i venti
e le stelle del cielo fatte ormai distanti,
poggiare a terra mano, a terra piede.
La certezza del mondo è il primo canto
umano come il respiro.

L’uomo si accostò all’uomo
dobbiamo dirlo, si unirono
e unirono la luce in alfabeto delle forme
essi temettero e temono anche ora
di cantare da soli.
Vennero le città
nella pietra conosciuta, come orme
del passaggio di una mandria sulla terra
e vennero i capi di città con le generazioni,
le nobiltà, i sonni del sangue, le gesta
e la memoria, la lunga guerra
tra le nazioni e un nuovo scandire
di inni e di saghe e venne
infine la poesia.

Anche oggi che sono salito e sceso
tutto questo pervive: i campi, i colli
il fiume, la città, la guerra;
sì la guerra è rinata con me,
stesa come un tappeto tra i vecchi secoli
e ognuno sotto calpesta quel tanto di sé
che aveva imparato a conoscere.
Parigi si ricorda ancora l’uomo
e gli uomini passati nel suo ventre,
i re, i guerrieri, gli artisti, i fondatori
di scienze e di musei, la carne
da teca, quella da cannone, quella da
bordello o da stamperia,
nella luce nuova di Parigi
in un giorno qualsiasi d’inverno
c’è posto per tutto disteso
sotto il cielo e pianto
da un mazzo di pioggia.

Ora che sappiamo come e quando
ovvero ora che del come e del quando
trasciniamo i nostri giorni per boulevard
o dentro dedali di terra e cemento
più nulla ci importa
canterò un altro canto su Gauguin e l’Impero,
sul diciotto Brumaio in versi senza sangue
su Sarte, sulle stagioni degli indecisi,
avrei voluto che Hegel scrivesse di filosofia
sulle foglie morte in autunno lungo la senna
e che le foglie sapessero che morendo
erano come gli uomini,
erano proprio come gli uomini.

Parigi era grande, piena di foglie
e di poeti che sulle foglie scrivevano
i loro versi più belli e di foglie d’oro
nei troni e nei palazzi, regalo d’Algeria e d’Indocina,
e le foglie sui capitelli erano ad ogni angolo
a sostenere banche sostenute da schiavi,
ministeri e ville, poi c’erano le foglie di tabacco
e di assenzio che oggi ricordiamo
perché erano amiche degli uomini
che per loro hanno dato un nome
a tutte le cose che mancavano
e che mancano, nelle sere ai café
riscoprendosi soli, bevendo ognuno
voltato sulla sua vita
come una bestia sulla propria piaga.

E di tante foglie resta
una specie sola intatta, uguale
e per vederla si paga
l’obolo che si deve all’eterno
per poterlo guardare senza capire,
come forse nemmeno avrà capito
monsieur Monet con le sue foglie in serra
spargendo verdi e azzurri digradando
sul lento giorno come una ferita
che decompone frasche, ponti
così e vele e marittime cittadine
elementarmente percepite.
Ci è voluto molto a ritornare al troglodita
e al santo e al bambino
come dissero Cristo e la barba di Pizarro
quando rinacque e si fece pittore piangendo
per misurare davvero
la cruna dell’ago.

Non ci è dato di dire lo spazio
o in versi il nascere e il perire delle cose,
è una cava nel cuore dove noi
ci nascondiamo a spiare il mutare dei colori
e delle età, Cézanne e non una montagna
qualunque in terra di trovatori.
Felice allora l’uomo artista!
Egli che sa i colori e sa le forme
e a che rimane, croce di pochi,
l’indicibile quarta dimensione
come una schiera di fantocci di paglia
ai bordi del passato e che persino
dell’amore e dell’odio non conoscono
ormai che l’imperfetto?

Io dunque sono un poeta delle foglie
e degli uomini, ma anche così non posso
ricordarli uno per uno per nome
i morti dell’Ottantanove e del Novantatré
gli anni in cui compiva il tempo un salto mortale
e su queste strade che oggi passeggio
il tricolore sventolava armato di picche
e di vite uscite dalla miseria
Ugualmente non ricordo gradi e mostrine
di ogni soldato dell’imperatore in Italia
e ad Abukir e ad Austerlitz con il suo sole
e in Russia, e non so dirti niente dell’operaio,
del borghese, del ragazzino del Trenta
se non che la morte li volle eternamente uniti
per noi oggi a calpestare altri morti in colori pallidi
eternamente senza premio alla fatica e negli occhi
ancora rabbia e timore.
Avrai capito che io, suddito dell’impero dei figli,
ho scordato l’impero dei padri, le barricate
del quarantotto e quelle del settanta da cui si leva
una sconosciuta canzone di futuro non venuto;
la nostra età l’ha superata di un balzo.

Oggi per queste vie non un segno resta
e ognuno vaga solo in questo mezzogiorno
e apprende una misura del mondo,
gli uomini sono arcipelaghi di lontananza
e la Polinesia oggi non vale più la pena,
ciascuno si conosce a stento e con lui
come si inghiotte una stella o un amaro
pensiero nel vino il mondo finisce,
solo in un gioco confuso di occhi resiste
e di mani aggrappate alla luce.
Beato colui che si decompone,
beato chi si decompone scomponendo
e tra le foglie obbedendo fedele
all’impero della luce esiste
con certezza.

    

II

È venuto il momento di dire le vie,
di dire il nome delle vie e dei morti
sulla terra fredda di dicembre,
Rue du Temple che porta al sacrario
della nuova guerra che infuria per le case
di una barbara Europa di café insanguinati
nel nome di un dio straniero.
Poi Place de la République dove onorati
come martiri contro martiri sono i ragazzi
che oggi piange Parigi riscopertasi capitale
del dolore che sa cantare con le parole
dei suoi figli dispersi per il mondo.
Di fronte al sangue un balbettio di sillabe,
canzoni, disegni e citazioni è il ricordo
di un offeso sapere.
La guerra ha qui il nome della paura
delle uniformi nere dei neri soldati
che non hanno saputo la terra degli avi.
Per quale fratello combatti? Potrebbero dire.
Ecco vedi, la sua famiglia non lo riconosce,
bruciata è la pianta che gettò il suo seme.
Ecco vedi tu che passi e non ti fermi
medita sul tugurio che chiama casa.
Potremmo dirlo ma davvero non lo diremmo mai,
questi morti non sono come i morti di sempre
mi ripeto nel rosario dei minuti, nel via vai
che porta al cimitero.

Certo altri morti sono questi
che stanno in questa immensa casa
che una nobiltà indicibile d’ogni fasto ha spogliato;
sono venuto presto in questo giorno
in cui un anno fa anch’io morivo
per parlare io morto ad altri morti
più simili a me, c’è un lungo filo
a unire le lapidi che ci stanno d’attorno,
il loro segno sul mondo il modo
di riconoscersi nell’essere vissuti.
Così uno ad uno li passo nel grigio pomeriggio,
Musset accanto a Rossini e intorno sterminati
altri figli di uomini a ingrassare la terra,
poveri e ricchi, giovani e vecchi, francesi
italiani, tedeschi, inglesi, cinesi e neri,
non si finisce davvero mai di morire
e accanto alla cappella dalla porta divelta
di un’antica famiglia patrizia i nuovi patrizi
stanno, celebrando in marmo lucido
la vecchia miseria ormai redenta
dal funereo splendore e come vecchi vizi
parole di millenarie religioni,
invocazioni ai geni della morte.

Così procedono senza epica,
il contegno civile e la morale li vogliono
uguali nell’estremo passo, generali, artisti
e uomini di corte e vicino qualcuno che avrà
vissuto nei sobborghi di Parigi senza nome
e anche nella storia sarà perito
infine con i suoi nipoti.
Ma qualcosa nell’uomo è tradito
da questa cristiana uguaglianza,
di grandi e ignoti e tutto si riunisce
in quest’autunno del mondo che non salva i vivi,
Quanto dolore conoscono oggi queste strade
se solo pace si cerca e scioglimento del sangue
e corrosione delle ossa e la vita dei sassi e delle ortiche!
A tanto importa nella pena di questo tempo
sapere allora di essere esistiti?

Due uomini ci sono e amare troppo
la vita fa parlare a chi non vive più
senza nemmeno sperare nell’eterno,
come vi sono ombra e luce e noi abbiamo
preferito l’una o l’altra e abbiamo
dato alla nostra scelta il nome di storia-
Mi avvicino ai suoi segni allora
scolpiti in marmo e granito
tenendo la testa bassa, compitando
in lettere di bronzo con il dito
Il francese che ricorda Birkenau,
Auschwitz e le marce della morte,
con immagini d’uomo che richiamano
dell’uomo quegli spettri, già magri
come arbusti dentro il pigiama a righe.

Ancora, la resistenza e poi colori noti:
il rosso il giallo e il viola sul viola livido
dell’inverno alle porte.
Tutta una storia di Francia devo passare
per cercarti e ricercare in me
qualcosa di non mai toccato e visto.
Ecco l’ultima lapide
prima della tua, un figlio del popolo
che ad esso fu padre, come te comunista.
Accanto a te la terra si chiama
Maurice Thorez.

Morto eternamente ragazzo se ora
vedessi quanto dolore c’è per le strade di Francia
ti pentiresti di ogni profezia, forse
preferiresti un verso sciocco sulla saggezza dell’amore,
semplice come la tua lapide grigia coperta di sassi.
Non so se la tua religione dell’uomo salva i vivi,
ma ti ho visto chiaramente, una pianta rompe
tra la ghiaia e dal tuo petto Éluard
e si tende a bere umida aria
in questa immensa serra dei viventi
dove tu ancora ridi contro la pietra
che il tuo nome porta sobriamente
e scolpiti i tuoi anni, gli anni
di miseria nel secolo che cominciava.

Oggi un altro millennio comincia
e una nuova miseria dell’uomo consumato
che io non so cantare come te
quando leggevi Whitman, quando hai dato
la mano alla mano sporca del ferroviere
chiamandolo fratello ed hai amato
l’uomo allora possibile.
Se leggo i tuoi versi tra pochi non è
perché tra pochi resisti, ora bagna
la pioggia i tuoi poemi sulle piazze
e come tu allora scrivevi sui tuoi quaderni
il nome della libertà oggi il ragazzo che porta
di un’altra libertà la coscienza e il diritto
scrive il tuo Éluard.

Altra però è la libertà e non come sognarono
cantando e scrivendo, parlando e combattendo
in lunga fila i morti che ti stanno vicino
l’umanità, copre quella favola
con pudore un targa sul muro
screpolato che il muschio nasconde
come nasconde a chi passa i molti nomi
e recita quasi distratto omaggio
la Francia ai morti della Comune.
Tu che nel tuo errore sapevi il loro errore
e superavi i versi dei compagni, il loro
dire aristocratico ed ebbro con ebbrezza cercando
un nome di donna e ciò che ci fa
tutti uguali tra l’amare e il morire,
dimmelo tu che amavi per amare in lei
ogni altra e ogni altro e ogni animale
o alito di vento o pianta come ora sei
perché non la posso cantare?
Perché non posso dire i suoi occhi
ugualmente fertili e verdi da cui nascono
laghi e comete e che mi diede
l’amore per la vita e il canto
di un figlio non nato?
Non è forse ora per godere
soltanto un amore se pure esso solo ci salva?

Dieci dicembre, dieci dicembre e nulla
che faccia dire non verrà un undici
ma l’uomo che quel giorno vede
non ha un forte verso, Eluard e la sua
critica della poesia è debole
e secca come il gelo che lo porta qui
a leggerti su un tumulo dove non sei
volato con la foglia o sfogliato
con la rosa che a primavera nutrono
le tue ossa consunte.
Non servono i poeti in questo mondo
che tu non aspettavi, né serve
questo me che io non avevo
visto arrivarmi addosso.

Ma ora sono, e tu non sei
e forse godi che così sia
e partecipi al mondo che canta
come la tua poesia
e sai ancora che viviamo in speranza
e ti respiro io e questi con me
e la gente che passa,
è il tuo ultimo modo e più grande
di fare coi corpi l’amore.
Ancora il mondo muove
anche in questa capitale del dolore,
il dolore è la storia che si muove
e lo vedono ogni giorno e lo vedranno
in milioni rincasando feriti,
svegliandosi sulla vita
riconoscendo gli oggetti delle loro stanze,
posando lo sguardo sulle vie e sugli orizzonti
che egualmente il mondo muove.

Cedi, è dunque il messaggio,
impara che esisti nella storia
di ogni uomo e che ad uno ad uno
l’abbiamo aspettata e siamo morti,
a Frankenhausen siamo morti e siamo morti a Vincennes,
ma non era la fine.
Siamo morti a Venezia e a Roma
e ad Arad ci hanno strozzato nel vento,
gridavamo che non era la fine.
Siamo morti a Curtatone, a Custoza
e nei campi e nelle fabbriche e nelle miniere
abbiamo continuato a morire pensando
che non poteva essere la fine.
Siamo morti allora a Parigi,
sembrava che fosse la fine,
ma di nuovo morivamo a Milano,
perché non era la fine.
Siamo morti a Pietroburgo
e siamo morti ovunque, a Verdun
a Tannenberg, a Damasco, a Caporetto,
ma avevamo capito che non poteva
essere quella la fine.
Siamo morti a Mosca e a Odessa
e a Budapest e poi a Berlino e a Chinameca,
ma ai padroni bisognava dire
che non era la fine.
Siamo accorsi in molti per morire
quando morivamo a Guadalajara
e sull’Ebro vedevamo
un po’ più in là della morte,
poi siamo morti a Varsavia e a Parigi
e a Londra, a Belgrado, e ad Atene,
sembrava la fine ma abbiamo imparato
a vivere oltre la morte,
allora siamo morti a Stalingrado.
Morivamo senza numero ad Auschwitz,
a Buchenwald, a Natzweiler,
tutto il mondo diceva
che era quella la fine,
ma sul Pindo e ad Algeri ancora morivamo.
Siamo morti nel Katanga, a Moncada
e a la Higuera, ma non ci importava più
di una piccola fine.
Siamo morti a Ia Drang e morivamo
anche restando a casa.
Siamo morti a Conakry, a Maputo
e alcuni in anni a Ghiaros e a Leros,
però no, non era la fine.
Siamo morti a Santiago e a Buenos Aires,
a Montevideo, a Bogotà, ad Asunción,
i nostri nemici avevano però preso
a dubitare che fosse la fine
e morivamo lentamente.
Siamo morti a Kabul e poi a Gaza,
a Slunj e a Sarajevo, a Bhagdad
e a Bangkok e al Cairo e a San’a,
a Kobane dove tutti ci guardavano
e a Doneck dove nessuno vede,
morivamo eppure nemmeno quella
era davvero la fine.
Anche oggi moriamo e a volte
non c’è chi ricordi i luoghi
della nostra morte come qui vedi
anche oggi moriamo, ma non è
ancora la fine.

Ecco la fine l’abbiamo aspettata
uno ad uno, ma non era la fine
e lo sapevi, su un ora simile non avevi
dubbio o sospetto, sapevi
che era per noi.
Così non sarà per me ma io esisto
e in me non è la fine, ma nella terra
e altri esisterà per quell’ora.
Ora esco, Éluard, dal giardino
e senza pregare, non è
cristiano questo mio congedo.
Ora tu sempre vivi e un altro fuoco
ti ha rapito all’eterno.
L’ora verrà e con essa su te
a piegarsi altri pellegrini,
la storia non dà mai scandalo,
neanche a cantarla in poesia
e l’unico, non cattolico, scandalo
che ci prende come il vento mentre torniamo
è che un amore così grande stia
in un pugno di polvere.

    

III

Siamo polvere e ombra, il canto
di una finita civiltà si spegne
nei dedali della città,
nelle sue bibbie di pietra
dove per secoli leggeva il contadino
la morte che matura le semente.
Blocco su blocco qui si fece
della storia un segno, progettare
un uomo o un tempio non fu
diverso mai, lo scopri se passi
davanti alle cattedrali.
Come enormi madri di un tempo
di innamorata pietà portano ancora
nel loro corpo i segni delle mani,
quanto passare di piedi, di ginocchia
e mormorare di dolori e canti
nell’Europa cristiana che metteva le ali!
Come bambini occorreva
dare senso al tempo e commozione
alla vita riconciliata,
dice il cronista, ovunque
sul mondo vecchio in forma
di chiese e di abbazie, di bianchi monasteri
ecco una nuova pietà
alto levata e una nuova promessa,
chiamare casa la terra dove suona una campana
essere tutti eternamente figli.
Non padri mai, ma soltanto custodi
sotto lo stemma di Francia, sotto i gigli
scolpiti alla Santa Cappella dove in luce
sta tra i vetri il racconto degli anni
l’infinito libro dell’uomo.
Lì ci si riconosce e uno
è il dio di Abramo e il dio di Isacco,
il dio di Saul e di Davide,
il dio di Paolo e il dio di Parigi
dove anche oggi suonano le campane.

Un’altra pietra c’è che si apre immensa
e di immense terre dice la gloria e il declino,
un uomo più antico dell’uomo
che con la polvere e il fango
e la certezza di durare sotto il sole
fece gli imperi e gli dei e gli alati
leoni presso il trono
di Sargon il grande.
Ricordati sempre di Accad e dei forti
guerrieri, ricorda il paese di Sumer
e Ninive fiorita e Gerico mi ripeto
mentre sospeso salgo la collina.
Essi che uomini sono? A che stanno
gli uomini prima di Dio e da Dio vinti?
Essi che amarono prima dell’amore?
Recisi come canne in un canneto,
volgono gli occhi al sole e poi più nulla.
La terra si richiude sulla terra
piano mormoravo allora ricordando
di me bambino che volevo aprirla
come in un parto antico e sperare
che tutto piangesse quando un uomo piangeva.
Una luce meccanica, dentro il museo
illumina dai riflettori
quei volti barbuti e le lunghe teorie
di guerrieri e di conquistatori divenuti niente;
non c’è più vita in quella pietra
e piangere non mette conto tra questi
diversi uomini di diversa città.

    

Due Parigi anche ci sono e una muore per l’altra
in questi giorni che passiamo
tra allegria e paura vagando
per un eterno presente sulla Senna.
Vedi, essi che sempre ridono la sanno
una parola vera? Vedi divenute
le nazioni del mondo di mostruosi
fratelli liberi dal passato?
In me tutte le morte cose
cantano l’ultimo canto
all’indurirsi del cuore e della cervice
e i giovani d’oggi non ridono
dice qualcuno, ma altri ridono invece
come titani liberati dalla fossa della storia
e alcuni piangono perché sanno
di avere di fronte tutta la vita
e alle spalle una più vasta vita
e perduta, dell’uomo intero
un mondo di vinti che ride
contro l’ultima pietra, dura finalmente
come il loro cuore.

Così penso salendo al monastero
che di un cuore porta il segno
un cuore che si è amato del mio gemello,
ma per queste sale non possiamo
non camminare divisi, non posso
non chiedermi almeno su quale esistenza
metta la strada della morte.
Montmarte, monte dei martiri
e poi degli artisti e delle prostitute,
si riempie di lietezza quasi domenicale,
di furia dei turisti tra i caffè
dove immagino fratelli intenti
a consumare la vita ravvolti nei cappotti
e sorridenti al colore che cola
sulle tele dove cola il giorno
scivolando lungo la collina.
Qui è facile vivere,
facile è qui l’arte anche Picasso
lo sapeva bene e Braque e molti altri
che non ci stanchiamo di chiamare amici,
e quanti passano ore tra l’erba bassa
distesi e felici? Anche questo sappilo
è il cuore dell’uomo.

Pregate al sacro cuore sotto la volta
sembrano dire tutte le figure,
papi e cavalieri, re e santi;
tutto ha infine ordine e senso e potresti
qui finire, cantare qui, confondere
questo lungo dire all’inno,
non rimarrà comunque una parola,
ma tu rimarrai e l’aver molto amato.
Ormai dalla natura siamo distanti
e ogni certezza ha riparo in questo cuore
e ogni canto finisce in questo canto,
anche questo è il cuore dell’uomo.
Sì compie l’ora e l’anno in cui fissavo
gli occhi negli occhi di lei come adesso
in quelli dell’icona e anche mio
era il cuore dell’uomo
serrando sulle sue mani l’edera delle vene
come ora sulle vene del marmo
che sopravvive alla storia e si fa
volto ugualmente di uomini e di dei.

Sono davvero le ultime parole
ma molto peggio della vita è il poema
che non sa come finire.
Ho lo sguardo disteso su Parigi intera
lungo il saliscendi, uno stridore di gabbiani
sembra casa mia e casa all’uomo sarà
tutta la terra, all’uomo nato dall’uomo.
Felice Parigi nella sua fine
quando su me schianterà il cielo
e non avrà più senso la luce
e in me si seccherà il sangue
già fiorito sul mondo
ancora non finito.
Felice il giorno in cui si spezzerà
il cerchio delle frasi e tutto sarà
silenzio ancora e ascoltare
senza una parola rompere
il grido dei ragazzi usciti dalla scuola
e in loro forte battere
il mio cuore e uguale
il cuore dell’uomo che cresce.

                            

Les Misérables, Tom Hooper, 2012
Les Misérables, Tom Hooper, 2012

3 thoughts on “Poema per Parigi, di Luca Mozzachiodi”

  1. è un pezzo talmente bello che pur avendolo letto due volte sul
    computer, devo assolutamente stamparlo ed averlo sotto gli occhi
    concreto.

    grazie, è veramente un lavoro di grande spessore

  2. Un’opera superlativa, grandiosa, un’offerta di pienezza che rigenera poesia di verso in verso.
    Grazie.
    Rosanna Spina

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Dal 1 Febbraio 2023
il numero di VERSANTE RIPIDO con tema:
"RUMORE BIANCO - L'ILLUSIONE DELL'INFORMAZIONE"
    
IN VERSIONE CARTACEA
È DISPONIBILE PER L'ACQUISTO