Poesia civile? di Daniele Barbieri
Quando sento nominare la poesia civile porto la mano alla pistola. Poi mi ricordo che non possiedo una pistola e non mi interessa usarla, e mi ricordo anche a chi appartiene la frase originale. E comunque, tutto sommato, so di aver letto anche molta bella poesia che potrebbe essere definita in questo modo. Fortini e Pasolini non hanno mai smesso di essere tra i miei poeti di riferimento. Pagliarani e Sanguineti nemmeno.
Eppure l’espressione poesia civile produce in me un fremito, un accenno di ribellione. In un contesto culturale in cui tutti, in qualche modo, siamo stanchi di intimismi, l’idea di poesia civile mi appare come una facile ricetta per sfuggire al nefasto predominio dell’io. Insomma, se il poeta della domenica non riesce a liberarsi dell’idea che la poesia sia espressione diretta delle proprie pene esistenziali, e un modo per sublimarle in messaggio al mondo, il poeta del sabato, appena un gradino di consapevolezza più in alto, ha trovato il sociale, il civile, come tema alternativo, capace di raccogliere il consenso almeno di chi condivida le idee su cui si fonda.
Alla fine dei conti, ho osservato che poco mi importa di quello di cui, a prima vista, un componimento poetico sembra parlare. I livelli di interpretazione a cui un testo poetico va soggetto sono tali e tanti che l’io personale e il sociale possono entrambi ritrovarsi in gioco negli stessi versi. L’unica condizione affinché questo possa accadere è che il testo sia sufficientemente profondo, sufficientemente interessante, da scatenare nel lettore la deriva delle sue interpretazioni. Insomma, dalla buona poesia si può ricavare molto, molto di più di quanto possa apparire a prima vista. Dalla cattiva poesia si ricava invece solo noia, noia civile o noia psicologica, a seconda del caso.
Così, persino i sonetti di Ugo Foscolo possono essere facilmente letti come espressione non tanto del disagio del soggetto Ugo, quanto di quello del soggetto romantico in generale, affascinato dal mondo classico mentre vive in un mondo in cui la ragione illuminista e poi positivista sta iniziando a trionfare – con tutti i suoi aspetti vantaggiosi, certo, ma anche con tutto quello che questo trionfo sta spazzando via, umanesimo compreso.
Viceversa, anche in una poesia indubbiamente civile come quella di Pasolini non è affatto difficile leggere i segnali del soggetto psicologico; e non è un caso che a suo tempo Sanguineti dovesse difendere il suo Laborintus dall’accusa di essere espressione di un esaurimento nervoso, sostenendo che esaurimento lo era, sì, ma esaurimento storico: la tematica pubblica e certamente civile dei suoi scritti non escludeva affatto una lettura privata, psicologica.
Tutto questo a patto di non pensare che dove si incontrano i temi psicologici, ci debba essere per forza l’espressione esplicita dell’io dell’autore. Quella, lo sappiamo, implicitamente c’è sempre, perché la poesia è sempre scritta da qualcuno in un preciso momento personale e storico. Ma se il testo può essere trovato interessante da altri che non siano gli amici dell’autore, è perché l’aspetto privato è sufficientemente ininteressante, mentre quelli pubblici un qualche rilievo ce l’hanno.
Si dirà che sto confondendo il pubblico con il civile. Una bella storia d’amore può essere un tema pubblico, ma non è un tema civile, per esempio. Può darsi che qualche volta sia così, non lo nego. Tuttavia, non ho ancora capito sino in fondo quali debbano essere allora i temi civili, e mi resta il forte sospetto che, per elencarli, non si possa che fare riferimento a quello che i media hanno deciso per noi, o che ha deciso per noi un’opinione pubblica anche piccola come quella del mondo della poesia.
Nel sistema dei media ci vivo certamente anch’io, e all’opinione pubblica non si può restare indifferenti. Ma il sospetto che si spacci per qualità una soluzione a basso prezzo (perché tutti ci sentiamo in colpa per il nostro fare troppo poco sul fronte del sociale) mi impedisce di aderire davvero a queste posizioni. Brecht poteva forse credere davvero alla poesia civile perché credeva che il comunismo potesse rappresentare una soluzione ai mali dell’uomo. Una volta che questa credenza ha mostrato i suoi limiti, e che sappiamo che non esiste una ricetta infallibile, perché l’uomo è assai più complicato di quanto ci volessero far credere tanto l’utilitarismo marxiano quanto quello (ben peggiore) del capitalismo, come facciamo a distinguere davvero ciò che è civile da ciò che non lo è?
Tre poesie di Daniele Barbieri da La nostra vita, e altro, Campanotto Editore, Udine 2004.
eri mio zio, il matto, fratello della nonna,
quello che da bimbo fece la meningite
e poi, non fu mai più normale,
ti guardavo, scuro di pelle, magro,
pieno di rughe, perso nelle tue
incomprensibili, fascinose
elucubrazioni
profondo e inumano
vicino e remoto,
quando, al funerale del nonno,
ripetevi senza fine, piangendo poi,
“il prossimo tocca a me il prossimo
tocca a me il prossimo…”
e non eri lontano dal vero,
zio Bruno, sepolto ormai dal tempo
nel mezzo della notte, quando sentivamo
arrivare e spegnersi la moto, persino se la strada
era una lastra di ghiaccio e le montagne intorno
risplendevano di neve,
sapevamo che era lui, il matto, che veniva
a cercare illusioni nelle vite altrui
se ci fossimo alzati, nel buio
avremmo visto gli scuri aprirsi alla finestra
piano, per non svegliar nessuno,
e una forma incappucciata spiare dentro,
silenziosa, a lungo,
con la luce di un calore vagheggiato
accesa negli occhi
restavamo a letto, ovviamente, invece,
consapevoli di quello sguardo
affamato di una vita
che negli altri soltanto
gli era reale
la madre del matto faceva la puttana
quando lui la uccideva, nei suoi sogni più cupi
il sangue che scorreva era il suo
vischioso e denso
e se lei gridava
non gli pareva fosse per dolore, né per paura,
che lei, tutti quelli che la volevano
la potevano avere, e lui no
né lei né nessun’altra
né nessun’altra né lei
con me il matto era gentile, innocente
come lo era con tutti
gli incidenti della notte non sembravano lasciare
nessuna traccia nei suoi occhi mansueti
nemmeno un lamento veniva a galla
attraverso la scorza dura del giorno
e del suo attaccamento alla vita
Credo che due siano i concetti da prendere, qui, in considerazione, quello di “poesia” e quello di “civile”. A mio modo di vedere, ma anche Daniele lo sottolinea, la poesia è poesia e basta. Casomai è sul concetto di “poesia” che bisognerebbe ragionare, ma (lo sappiamo tutti) è un ragionamento che ci porta a imbrattare chilometri di carta e non troveremo mai qualcosa di ragionevole, oggi come oggi.
Il secondo aggettivo “civile”, è, a mio avviso carico di ambiguità. Io credo che, se si parla di poesia, si debba riconoscere a questo aggettivo semplicemente una funzione convenzionale classificatoria, per dire che una determinata poesia si rivolge al contesto della “cives” e non all’individuo o al mondo intero. Io ho scritto raccolte di poesia civile o politica, “Krisis” ad esempio, ma non può essere classificata “civile” la poesia di altre raccolte, che si rivolgono a un lettore indifferenziato, anche se molti aspetti riguardano anche la “cives” o la “pòlis”, ossia la comunità socio culturale italiana o europea. “Sapienziali” ad esempio non è poesia civile, anche se tale la definisco, ma soltanto per ragioni classificatorie, come sopra dicevo. In realtà, credo che ogni poesia abbia qualcosa di “civile”, qualcosa di lirico, di elegiaco, di tragico, di satirico, di ironico, di religioso, ecc., se invero è “poesia”. É estremamente difficile, credo, che una raccolta si mantenga rigidamente dentro una classificazione rigida: vi sarà certo la prevalenza di un aspetto su altri, che può essere appunto quello “civile”, ma se è solo quello… diventa una poesia funzionale a qualcosa, a un teorema, a un obiettivo e, pertanto, non più libera di essere.
“Poesia civile”, pertanto, non è un solo lemma indivisibile, ma il primo è un nome che si riferisce a un certo ambito culturale e il secondo un aggettivo qualificativo che però non può avere la pretesa di esaurire in sé le caratteristiche della poesia, quando è davvero poesia.
Peraltro, occorre stare molto attenti nell’uso di questo aggettivo, “civile”, che in qualche modo chiama in causa anche un senso di responsabilità, un qualcosa che ha a che fare con l’etica più che con l’arte. Mi scriveva un poeta, che apparirà nel secopndo volume di “Poeti e poetiche”, ora in preparazione: “Non esiste poesia civile, esiste solo poesia. Cito un fatto: nel ’97, nel pieno di un dibattito bolognese sulla poesia e le sue forme, in Messico uccisero degli indios mentre assistevano alla messa. Non una voce si levò dalla poesia e la notizia scomparve velocemente dalle pagine dei giornali.” e prosegue “…mi dimetto dalla cultura occidentale dichiarando di non volerne condividere la sterile e arrogante autocelebrazione; mi dimetto dalla cultura occidentale smascherando la miseria etica dell’arte e la vigliaccheria degli artisti che tacitamente si prestano ad esserne funzionali; mi dimetto dalla cultura occidentale in nome dell’amore per tutti gli esseri e, per rispetto della dignità e dell’autonomia del pensiero, mi dichiaro culturalmente un fuorilegge…». Questo è il modello della vera poesia civile, quella che vive di poesia, che vive la vita e l’appartenenza alla società e alla “cives” poeticamente, con tutte le ripercussioni interiori che ne derivano. Oggi invece, abbonda la poesia cerebrale scritta perché altri la leggano, non perché si “sente” che è da scrivere. Il narciso prima di tutto, poi tutto il resto. Manca ispirazione, autenticità, fede e coerenza in quello che si crede di essere e in quello che si scrive…
Direi che mi trovi sostanzialmente d’accordo. Qualcosa di più l’ho scritto poco fa in un commento all’articolo di Nunzia Binetti parallelo a questo. Rimando perciò a quel commento.
Daniele, condivido le tue perplessità che in qualche modo ho espresso nel mio intervento ” L’altra campana” e sono in totale sintonia con le osservazioni di Gianmario Lucini del quale conosco l’onestà intellettuale e le notevoli capacità critiche, sempre finalizzate verso la continua ricerca di una poesia che sia autentica, a prescindere da classificazioni di genere . Molto belle anche le poesie che di te ho letto. Complimenti sinceri , Daniele .
Sono perfettamente d’accordo con te, daniele, su tutto. e non è una domanda peregrina quella che ti poni su quali possano/debbano essere i “temi” della poesia “civile”. tu stesso noti giustamente quanto di “civile” vi sia nei sonetti foscoliani, e quanto di privato, di intimo nelle poesie pasoliniane. E tuttavia, se è assai difficile stabilire freddamente, a tavolino, gli “argomenti”, credo che un vantaggio in questo, cioè nella possibilità di “sentire” il dato “civile”, questo “genere” di poesia l’abbia. penso infatti che se una poesia lirico-intimistica o amorosa debole e melensa possa spesso apparire comunque “accettabile”, una poesia melensa, retorica, falsa su un episodio di razzismo o sulla dsperazione di un disoccupato risulti, ad un lettore sensibile, del tutto inaccettabile, da gettare immediatamente nella spazzatura. Complimenti davvero per le tue poesie che qui ho letto, “civili” o meno che si possano dire! i