Una bambola di pezza intrisa d’acqua di mare, di Antonio Devicienti.
1.
Se prendo la scrittura e
(come quand’ero bambino i giocattoli
li rompevo per vedere che cosa
c’era dentro)
la spacco non trovo adesso
che vanità e impotenza e stucchevoli
buoni sentimenti.
Lampedusa è un nome ed è
morte-per-acqua.
Diventasse la scrittura la nafta bruciata
sulla superficie del mare ancora non
saprebbe dire la
morte-per-acqua.
Tacere, allora, tacere?
2.
Nella mente del mare
mille braccia col ritmo dei remi
a forzare la distanza.
Ogni bimba ha una bambola con sé
nella mente del mare
ogni bimbo un aeroplano di plastica.
E vanno, vanno, vanno
nella mente del mare.
3.
No: tacere: no.
Così umana la parola:
insufficiente
e
umana.
No: tacere: no.
I capelli delle alghe attorcigliati
alle dita del terrore.
4.
Vorrei vivere in un mondo di giusti
l’estate dormire sui tetti profumati
di Aleppo.
Sulla spiaggia del Purgatorio
(il Mediterraneo attorno)
esausti fantasmi
accovacciàti nella sabbia gelata
bussano alle pareti del nostro rimorso.
Vorrei abitare isole in festa
l’inverno ascoltare il jazz alla radio
e studiare l’arabo da una grammatica
che si ricorda ancora la paura dell’
attraversare.
Ma
sulla battigia buia del Purgatorio
(la Sicilia di fronte)
se Giuliano sussurra tu dillo, se sai dire dillo 1
ebbene io so di non sapere dirlo
e la giovane donna sudanese che ci guarda
mi fa vergognare
perché le devo parole da persona a persona
e non le trovo.
5.
Dentro questa nuova mattinata d’ottobre
vado alla spiaggia del Purgatorio
dove morti e vivi ci guardiamo in silenzio.
Noi vivi abbassiamo lo sguardo.
La mente del mare mi getta
contro la punta delle scarpe
una bambola di pezza
intrisa d’acqua salmastra.
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1 Giuliano Mesa, Tiresia.
E’ difficile trattare argomenti come questo ed evitare la retorica, anzitutto la retorica, e una certa pietà da salotto. Ancor più che non l’argomento, è difficile, e infatti capita di rado, scriverci su delle buone poesie dove non sia l’argomento il solo punto cardine – ma ci sia della poesia. Fra tutte le cose che ho letto in questo numero, questo pezzo di Devicienti mi sembra il più riuscito, anche nell’umiltà di “usare” Mesa e nelle due citazioni di Eliot – che rendono ancor più chiaro il senso non strettamente temporale dell’avvenimento in questione ma lo trasportano, così come dev’essere, in un luogo astorico di dolore interminabile. Congratulazioni.
Bellissimo testo di Antonio. Sono d’accordo con Massimiliano.
Nino