Poesia-utopie di Sergio Rotino.
“Abbiamo pensato di dedicare il numero di febbraio a questa riflessione: può la poesia essere una fucina di utopie? l’idea è partita da un’affermazione di Daniele Barbieri secondo cui “l’uomo fonda le proprie strutture, sociali e tecniche, a partire da un desiderio che si fonda sull’immaginario”…
“Avere un riferimento e un desiderio non implica che tutti lo vogliano realizzare al medesimo modo, né per i medesimi scopi. Parlare dell’influsso dell’immaginario sulla cultura, anche tecnica, è ben diverso dal pensare che tutto debba essere ideale, o lamentarsi perché non lo è. Non confondiamo le cose!”
Daniele Barbieri
Partirei da questa (e mi fermerei a questa) considerazione-esergo, opera dello stesso Barbieri.
Tutti coloro che, dice l’autore, hanno un riferimento e un desiderio, vogliono realizzarlo. Pur se in modo differente, autonomo, al pari delle motivazioni che spingono all’impresa. L’immaginario, l’archetipo, ci consentirebbe questo. L’immaginario, l’archetipo, sono quindi la tradizione, il tramando di elementi a noi ascendenti. Ci precedono. In quanto tali, hanno provveduto a creare le fondamenta del mondo (occidentale: fermiamoci a questa fetta di terre emerse).In quanto tali, contengono tutte le utopie possibili, tutte le fantasie possibili a una mente umana occidentale. In quanto tali, contengono il carburante necessario a spingerle in avanti attraverso quanto noi desideriamo, quanto noi aneliamo.
In questo la scrittura ci permetterebbe, sempre secondo Barbieri, di “non correre il rischio di dimenticare l’archetipo, per far sì che Omero ed Esiodo e gli altri potessero essere tramandati senza i rischi della memoria orale”. Stringendo il campo, parlando di scrittura poetica, è come se accettassimo nel suo seno l’idea della coazione a ripetere, ma senza aver discernimento su né cognizione di quanto stiamo chiedendo, di quanto stiamo desiderando. Il mondo di prima ha già detto, il mondo nuovo mima, scimmiotta, ammantando di novità quanto secoli, persino ere hanno già ampiamente dimostrato. Va benissimo, è qualcosa di inattaccabile. Ma allora, dove la poesia può farsi fucina di utopie se non nel solo reiterare l’involucro (sì, d’accordo, anche l’essenza) di quanto già stato?
I desideri su cui l’uomo fonderebbe il suo status non sono forse sempre gli stessi, archetipicamente sempre gli stessi? Voglio dire: la connessione fra realtà e immaginario si fonda espressamente su meccanismi a loro volta archetipici. In quanto tali, essi non producono novità, bensì spostamento del senso del nuovo. Se non producono novità, come potrebbero permettere alla poesia di essere “fucina” di utopie? E quindi: il desiderio si fonda veramente sull’immaginario. Però su un immaginario che costantemente ripete se stesso tanto quanto fa il desiderio.
L’unica fortuna è che la memoria dell’uomo, per quanto caratterizzata da una propensione a storicizzare ogni avvenimento, si presenta come labile. Il suo essere impossibilitata a ricordare con precisione il passato, a dimenticarlo direi strutturalmente, ci permette di reiterarlo e reinventarlo. Così facendo, è possibile rinverdire le forme del desiderio, ogni forma del desiderio o almeno alcune, considerandole nuove e innovative.
A mio parere è questo che, nel piccolo campo della poesia, permette a ognuno di posizionarsi in modo costante nella prospettiva di una “fucina delle utopie”. Fortunatamente.