La nenia del diavolo, poesie di Fabrizio Bregoli.
Fabrizio Bregoli è nato a Leno (BS) nel 1972 ha vissuto fino a 25 anni nella bassa bresciana a cui è indissolubilmente legato e dal 1997 risiede in Brianza prima a Vimercate, poi a Cornate d’Adda.
Laureato con lode in Ingegneria Elettronica nel 1997 con una tesi che ha contributo al brevetto per l’equalizzazione del DVD, da allora lavora come impiegato nelle telecomunicazioni in aziende del settore.
La sua più grande passione è la poesia e compone dall’adolescenza, anche se solo recentemente ha scelto la strada della pubblicazione. Refrattario a qualunque etichetta, preferisce descriversi come “un uomo che scrive poesie” anziché poeta, o ancora “poeta ed illetterato”, in quanto ritiene che le sue poesie nascano “sotto dettatura” inconsapevole, sotto “il giogo e miracolo” della poesia.
Crede che la poesia debba recuperare il fascino di un linguaggio antico per essere testimone attiva nel mondo contemporaneo evitando di rimanere appannaggio della ristretta cerchia degli esperti, sterile autocitazione e autocelebrazione di se stessa Temi ricorrenti della sua produzione sono il significato della memoria e della testimonianza, il mistero del cosmo e della natura, la ricerca del significato nascosto delle cose, la conciliazione fra filosofia e scienza, le storie di vite vissute insolitamente e controcorrente.
Ha pubblicato la sua prima opera di poesia Eresia del cuore – Ilmiolibro, La Feltrinelli, silloge poetica, nel 2012 seguita da Grandi poeti – Edizioni Pulcinoelefante n. 8778, plaquette, 2012 e Volti – Edizioni Vitale, silloge poetica, 2013.
Altre composizioni sono state pubblicate su antologie o siti web.
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LA NENIA DEL DIAVOLO
Hai spento la luce: è tardi ora
e ancora riaffiora il buio che non è mai
tenebra per le ombre che si ricompongono,
e il sonno arranca nelle gole d’abisso,
nei dirupi d’un letto sempre uguale
che non accoglie, d’uno slancio franto
che non solleva, crollano le tue pareti
ferite, le tue forze si piegano al vento
che flagella ora acuminato ora avvilente; ora
e ancora addolora il vuoto che mai
prende corpo peso, identico a se stesso,
incolore più del saluto d’uno sconosciuto
e le membra s’avvitano, non trovano
spazio, come t’aggrappassi ad una fune
d’aria, come camminassi su terra
soffocata, in questo vuoto che scava,
che scova ora spietato ora distratto; ora
e ancora rincuora quasi, il perpetuarsi
di questo cerchio di dolore che leggi
sul volto di tutti e di nessuno, il ripetersi
perenne d’un vuoto che non sorprende,
che hai conosciuto e vissuto, stupefatto
in spirali d’assenza: nel silenzio diventa
tuo compagno, non te ne puoi più separare
e precipiti in una fossa profonda, t’incagli
in indifferenza ora voluta ora subita; ora
e ancora ti sfiora appena questa mano
tuo malgrado presente e ti arrendi al tempo:
è tardi ormai. Prendi sonno. Ora.
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QUEL RAMO
Scruto dalla finestra
come dal più preciso dei cannocchiali
la finestra, identica, della casa di fronte,
i lampioni inclinati, l’asfalto lucido di pioggia,
lo scomposto accostarsi delle zolle
che si perdono nelle fessure della terra,
la calce fresca, la sabbia, i mattoni ammucchiati
e un ramo nel coacervo dei rami, quel ramo.
E sai che non è ramo quel ramo se non lo nomino
come non è parola la parola che pronuncio
ma è la distonia di ogni altra parola
se non la credi vera.
Per questo non so come affacciarmi sui giorni
stretti in questi nostri tempi di tumulti
nel dirupo dei tempi, tempi gravidi
di labbra di ghiaccio secco
di lingue tappezzate di chiodi
di trachee carbonizzate nella roccia.
La scacchiera è sgombra, si richiude sul legno
ma sospetto delle tende, dei vetri appannati,
delle pupille dilatate, della luce volubile.
Altri erano gli spazi su cui sporgersi
con le unghie linde, la saliva impaziente sui denti,
le pietre, gli steli da raccogliere.
Abbasso lenta la tapparella, sugli occhi,
e, con un battito di ciglia superstite, su questa carta
muovo le ultime armate inesistenti.
***
LA VELOCITA’ DELLA LUCE
Eccoli accorrere fradici nei loro camici bianchi,
trafelati per i lunghi corridoi sotterranei,
scapigliati con le mani contratte sui goniometri
fra condotte e giganteschi magneti attoniti,
gli occhi increduli stregati
sugli schermi degli elaboratori
fitti di riscontri, di curve, d’evidenze.
L’inconfutabile oracolo degli orologi solari:
varcata la barriera della luce,
l’ultimo limite alla prepotenza dell’uomo.
Inchiodate le lingue nelle mandibole,
si tracciano il segno indicibile sulle fronti.
Ora arretreranno il tempo arrendevole,
domeranno coni di fotoni arcuandoli
nell’intreccio senza orizzonte degli eventi.
«Guarderemo prima d’avere occhi,
vivremo prima di essere esistiti,
concepiti prima del concepimento»
Fra i cavi aggrovigliati dello spettrometro
sonnecchia il ragno annoiato sulla tela,
la muffa nello spigolo a destra
trattiene a stento la commozione.
***
SCIOGLIMORTE
E se poi tu mi chiedessi di dare
un volto solo al fantasma affaccendato
che rovista rovista nei miei versi
sarebbe sì l’altra metà del vuoto
o brocca che trabocca d’altro vuoto
sarebbe delirio, scaramanzia
di parole affastellate in avaria
sarebbe taglio netto d’una tela
ventaglio o stiletto o ritaglio o vela
e se poi tu volessi spiegazioni
senza spiegare questo tuo volere
sarebbe anteporre materia o ante-
fatto a un cimento affatto immateriale
e se poi ancora, e poi, e se volessi
sarebbe suffragare la sostanza
a piena forma di pieno accidente
sfamarsi al denso corposo sapore
del niente.
trovo molto pertinente l’accostamento di due fotogrammi di Eraserhaead (film di una semplicità terribile) alla poesia di Bregoli, o comunque non casuale. Questa è una poetica di sensi dilatati allo spasimo (E sai che non è ramo quel ramo se non lo nomino/ come non è parola la parola che pronuncio) tanto per citare la poesia a mio avviso più significativa.