Poesie di Gabriella Kuferzin scelte da Flavio Almerighi con una nota di Giorgio Linguaglossa.
Gabriella Kuferzin è autrice completamente inedita, è nata a Trieste nel 1964. Di madrelingua slovena, si è trasferita a Cittadella (PD) all’età di sei anni e ha studiato lingue straniere all’Università di Venezia. Insegna Inglese alla Scuola Secondaria Inferiore di Cittadella. Ama l’arte in tutte le sue forme che tende a sperimentare quando e come può. Dopo anni di depressione la poesia l’ha aiutata a trovare una dimensione e a tentare di capire se stessa.
Ne scrive Giorgio Linguaglossa:
Quando lessi queste poesie di Gabriella Kuferzin (propostami da Flavio Almerighi) rimasi molto colpito dalla asciuttezza della sua versificazione e dalla capacità che dimostrava l’autrice di utilizzare il lessico come pietre appuntite, come armi di difesa e di offesa; un lessico affilato come ossidiana quello dell’autrice, breve, preciso, scolpito. Con le sue parole:
«Gioco con la lingua, con i ritmi, azzardo versi scrivendoli e riscrivendoli, scarnificandoli fino all’osso, e, rileggendomi, ne sono sempre insoddisfatta. E’ un mio difetto: dopo aver visto l’abisso, voler vivere troppo intensamente, come se ogni giorno fosse l’ultimo, voler provare tutto, magari senza concludere nulla ma, anche se per brevi attimi, gioire dell’ineffabile bellezza della mente umana. Quella degli altri e anche la mia».
Una poesia che si immerge decisa nell’autoanalisi, alla scoperta di se stessa, una ininterrotta immersione alla scoperta del buco nero dell’esistenza con un coraggio encomiabile e ammirevole. Un tipo di poesia che ha come capostipite l’americana Sylvia Plath di “Ariel” e di “Lady Lazarus” e che da noi ha avuto dei tentativi di imitazione da parte di tante generazioni di poetesse ma tutti mal riusciti perché non è affatto facile mimare un tormento linguistico senza che vi sia un sotto stante tormento esistenziale. Nella Kuferzin invece si può percepire la genuinità di ciò che scrive perché l’autrice non cerca mai di mettere in vetrina i propri tormenti interiori ma anzi tende a nasconderli sotto il velo delle metafore. Complimenti. G.L.
*
Symphony No. 2
Un abbaglio
sul metallo
gelido dell’ala
ed è
un nuovo sole
fuori dalle nebbie instabili
da multiformi ansiti di vuoto
via dalla palpitazione ritmica
di oboi misteriosi
un volo oltre le nuvole
in un largo maestoso
dilatazione cosmica del tempo
battiti decelerati
si espande l’orizzonte
sugli ondeggianti afflati
plana la sinfonia e gli archi
ne danno la misura
e il mondo sottostante
diventa solamente
una reminiscenza oscura.
***
.
Symphony No. 2, Philip Glass
sul volo London-Esbjerg, 11.04.200
The Bostonians
Fra i due pinnacoli
del Longfellow Bridge si adagia
il sole prima di morire
scie di un rosso buono
caldo lungo il fiume
alle spalle boulevard francesi
nozze di Figaro sull’erba
e
abbracciate alla laguna sotto i salici
due gondole riposano sognando
il Vecchio Mondo oltre i grattacieli.
Underground
Mind — the gap.
ripeteva la voce sicura
ad ogni stantuffante apertura
di porta automatica
Chissà se lo dice ancora a chi
va nel girone dei deflagrati
a raccattar brandelli
di sorrisi e sangue raggrumato
mentre il vento dondola
fotografie impiccate
ad un afono “ecce homo”
di ogni lampione prosternato
su fiori lividi di lacrime.
E noi qui a disperdere parole
nel ragionare di teodicea
e di quale dio esecrare
e quando si spegne il televisore
cercare malamente di dormire.
Vorrei ancora solo quel prato a Regent’s Park
anestetico di margherite ingenue in cui
bere il cielo mimetizzata a palmi in su
mentre una bacchetta ritma un Maple Leaf Rag
e la domenica si srotola.
***
Versus
Andare a capo anche se c’è ancora
spazio, allagare quanti di acetilcolina
cortocircuitando sovraccariche sinapsi
divergenti di intelletto danneggiato
Giustificare acrobazie di salti
mortali su filigrane di rasoio, versi
impiccati sopra il vuoto esistenziale
di un’assordante afasia feriale
Impastare crete di significanti
a seccar su fogli degni solamente
di raffermare scrivanie malmesse
ad arte accartocciati su se stessi
e mai – lasciati entrare nelle teste
batte alle porte, urla mendico il poeta
e trova spranghe – sputa tutto il sangue
sulle incensate librerie di niente
e scarnificandosi le unghie scava
la sua fossa ancora troppo grande
per quello sterile cumulo di ossa
avrà un rottame di narcisi finti
e in croce un verbo, una sola voce
visse.
***
Ofelia
Occhi spalancati
di due fiori abbandonati
nel ghiaccio
del lago
stupiti guardate lassù
le nuvole scorrere via
su di un sorriso
imprigionato
di una primavera che fu
di un’estate che non sarà
Il sole non vi scioglierà
dalle orbite vuote
di chi ha vissuto
e smarrito
l’amore
abbiatene cura,
accarezzatela
di angelici petali
non le restate che voi..
***
Monossido di Carbonio
.
Eleganti spire di fumo
vestivano il corpo sensuale
snello rantolante nervoso
Maledetta vena di pazzia
che aveva pulsato fra i teli
fibrillata nei polsi incagliati
alle laccate sbarre del letto
. . .E tu con quella voce che Urlava Poesia come un uomo
Indossati i vermigli rossetti
E gli occhi incendiati di brama
d’amore carnale cos’hai fatto
. .Come ti sei permessa
di dare del tu a dio senza temere
alzare la testa altera combattere
e poi decidere quando tacere
. . .Come hai potuto
accodarti all’ignobile fila di
Suicide Vergini dei Grandi
Versi tu che potevi alzarti
Dai medesimi scranni dei vati
lanciando alla folla in delirio
scarpe rosse dai tacchi a spillo
incoronandoti i ricci d’alloro
. . .Se potessi ti ucciderei io.
***
Fard
A dadi si gioca la vita
Death sul Vascello di ossa,
la sua amante colore di lebbra
strappa spettrali vittorie
alle paludose Tombe
e urlare non serve – le Ferraglie
del Tempo Sospeso
vendicano l’empietà
di una esistenza
in assenza
di vento
in assenza
di pianto elucubrazione
e gravoso movimento
Sottrarsi alle passioni
disertare l’amore
assoluto per l’azzardo
di poter soffrire
lega il tuo Albatro
attorno al tuo collo
marcio putrefatto monile
su sacrileghi strati di fard
e vestiti sfarzosi
e dietro la pelle
un infinito
Niente.
***
Cavalli di Frisia
Lasciata cader l’armatura
alle ultime luci la sera,
o lavati inviolabili incanti
alle vene di debole aurora
uno spacco e torno disorientata
in terra di nessuno dannata
e non trovo più casa
e ancora li vedo arrivare
i furenti cavalli di frisia
fra nubifragi di filo spinato
e quell’eco di urlo strozzato
nel groviglio mi incaglio le vesti
e stupisco di sangue le mani
Ma dura solo un momento oramai
perché da dodici mesi sei tu
ad uscire da quella trincea
riafferrarmi le braccia e gli stracci
riportarmi oltre quel muro a secco
che sfiancherà la mia guerra
e clemente ricami gli strappi
mi raccogli i capelli e i brandelli
e mi baci.
***
A proposito di Heidegger
A stendere righe
incaute bisettrici
dell’anima
mi si svelano percezioni
psichicamente dislocate
tortuose sinapsi
metabolicamente alterate
astrusi ingranaggi
ellitticamente accelerati
avulsioni da rette parallele
insonni incubazioni
e travagliate germinazioni
di retorico nulla
o macrografico tutto
emorragie verbali
aberrazioni intellettuali
macerazione di sé
e sinestetiche
folgorazioni
Righe
. .di
. .grafemi
. .ingombranti
A volte vorrei
dissiparle alla scogliera
e riuscire a stare ferma
distesa
a prendere il sole.
***
Piombo
Spurio il sole dissecca
stracci di petali appesi
ad agonizzanti rimpianti
di un’estate dissolta
e allaga lenzuola aggrovigliate
ad avanzi di sogni lasciati
affossare nel letto
Scrivimi una poesia – mi chiedi
e non ricordo nemmeno il mio nome
in quest’altra risacca di piombo
slegate le braccia s’impigliano
in vesti e capelli, nei gesti
del non pensare
seziono curiosa le vene
al tagliere in cucina, niente
sangue né rivelazioni
quindi aspetto seduta il ritorno
del riflesso allo specchio,
delle mie perdute parole
nel frattempo vivendo i tuoi versi
mescolando amore e caffè
e sorrisi.
E come sottocanto tutto un mondo di richiami culturali non così facili da maneggiare. E’ stata una lettura preziosa. Complimenti.