da Azzurro elementare, poesie di Pierluigi Cappello, con introduzione di Giacomo Vit.
La poesia di Pierluigi Cappello (Premio Viareggio Rèpaci nel 2010) è caratterizzata da un linguaggio trasparente, mai impregnato di quell’oscurità gratuita presente in altri poeti della nostra epoca, ma ciò non significa che sia “facile”, in quanto tale trasparenza è il frutto di una lunga gestazione, di un lungo lavoro artigianale sul verso, sul peso specifico di ogni singola parola.
E anche i fondali in cui Cappello fa muovere i suoi personaggi sono concreti, terragni, riconoscibili, seppur illuminati dalla luce speciale della poesia.
La stessa lirica Parole povere può essere presa a paradigma di questo modo di operare nel terreno dell’espressività letteraria, dove al centro della composizione vengono poste le persone umili, “invisibili”, che nessuno nota in una società come la nostra, offuscata dai filtri dell’ipocrisia, dell’egoismo e dell’indifferenza.
In questo senso, la poesia di Pierluigi Cappello, come quella di altri poeti friulani, assume una funzione etica, un riscatto della parola “autentica”, accerchiata da un linguaggio depotenziato dai mass-media e dall’uso incivile che ne fa spesso la classe politica.
In questa mini-antologia appare anche una poesia in friulano, una lingua sempre presente in questo autore, che sa trattare con estrema sensibilità, facendola uscire dal mondo vernacolare per investirla di una dignità letteraria pari a quella della lingua nazionale. G.V.
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Pierluigi Cappello è nato nel 1967, è vissuto a lungo a Chiusaforte (UD) e ora vive a Tricesimo. Ha diretto la collana di poesia La barca di Babele, edita a Meduno e fondata da un gruppo di poeti friulani nel 1999. Nel 2013 è uscita, sempre per la Bur-Rizzoli, anche la sua prima opera narrativa dal titolo Questa libertà (Premio Terzani 2014).
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Di seguito alcune poesie che Pierluigi Cappello ha gentilmente acconsentito a proporre ai lettori di Versante Ripido, tratte da Azzurro elementare, Poesie 1992-2010, Bur Rizzoli, 2013.
Gerico
È raro sentire cantare in strada
molto più raro sentire fischiare
o fischiettare
se qualcuno lo fa
l’aria sembra fargli spazio
ti sembra che un refolo muova
la flora dei tuoi pensieri
ti metta dove prima non eri;
ma come passa chi fischia
la noia stende le vertebre al sole
e tu rientri dov’eri
dietro il douglas dei serramenti
dentro il livore
degli appartamenti
al tango delle dita sul tavolo ti chiedi
da quali trombe scosse
scrollate le mura
per quali brecce potremo vedere
– fresca –
come un sogno appena sbucciato
la terra che calpesteremo, allegri.
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Parole povere
Uno, in piedi, conta gli spiccioli sul palmo
l’altro mette il portafoglio nero
nella tasca di dietro dei pantaloni da lavoro.
Una sarchia la terra magra di un orto in salita
la vestaglia a fiori tenui
la sottoveste che si vede quando si piega.
Uno impugna la motosega
e sa di segatura e stelle.
Uno rompe l’aria con il suo grido
perché un tronco gli ha schiacciato il braccio
ha fatto crack come un grosso ramo quando si è spezzato
e io c’ero, ero piccolino.
Uno cade dalla bicicletta legata
e quando si alza ha la manica della giacca strappata
e prova a rincorrerci.
Uno manda via i bambini e le cornacchie
con il fucile caricato a sale.
Uno pieno di muscoli e macchie sulla canottiera
Isolina portami un caffé, dice.
Uno bussa la mattina di Natale
con una scatola di scarpe sottobraccio
aprite, aprite. È arrivato lo zio, è arrivato
zitto zitto dalla Francia, dice, schiamazzando.
Una esce di casa coprendosi un occhio con il palmo
mentre con l’occhio scoperto piange.
Una ride e ha una grande finestra sui denti davanti
anche l’altra ride, ma non ha né finestre né denti davanti.
Una scrive su un involto da salumiere
sono stufa di stare nel mondo di qua, vado in quello di là.
Uno prepara un cartello
da mettere sulla sua catasta nel bosco
non toccarli fatica a farli, c’è scritto in vernice rossa.
Uno prepara una saponetta al tritolo
da mettere sotto la catasta e il cartello di prima
ma io non l’ho visto.
Una dà un calcio a un gatto
e perde la pantofola nel farlo.
Una perde la testa quando viene la sera
dopo una bottiglia di Vov.
Una ha la gobba grande
e trova sempre le monete per strada.
Uno è stato trovato
una notte freddissima d’inverno
le scarpe nella neve
i disegni della neve sul suo petto.
Uno dice qui la notte viene con le montagne all’improvviso
ma d’inverno è bello quando si confondono
l’alto con il basso, il bianco con il blu.
Uno con parole proprie
mette su lì per lì uno sciopero destinato alla disfatta
voi dicete sempre di livorare
ma non dicete mai di venir a tirar paga
ingegnere, ha detto. Ed è già
il ricordo di un ricordare.
Uno legge Topolino
gli piacciono i film di Tarzan e Stanlio e Ollio
e si è fatto in casa una canoa troppo grande
che non passa per la porta
Uno l’ho ricordato adesso adesso
in questo fioco di luce premuta dal buio
ma non ricordo che faccia abbia.
Uno mi dice a questo punto bisogna mettere
la parola amen
perché questa sarebbe una preghiera, come l’hai fatta tu.
E io dico che mi piace la parola amen
perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra
e di pietà dentro il silenzio
ma io non la metterei la parola amen
perché non ho nessuna pietà di voi
perché ho soltanto i miei occhi nei vostri
e l’allegria dei vinti e una tristezza grande.
***
Ombre
Sono nato al di qua di questi fogli
lungo un fiume, porto nelle narici
il cuore di resina degli abeti, negli occhi il silenzio
di quando nevica, la memoria lunga
di chi ha poco da raccontare.
Il nord e l’est, le pietre rotte dall’inverno
l’ombra delle nuvole sul fondo della valle
sono i miei punti cardinali;
non conosco la prospettiva senza dimensione del mare
e non era l’Italia del settanta Chiusaforte
ma una bolla, minuti raddensati in secoli
nei gesti di uno stare fermi nel mondo
cose che avevano confini piccoli, gli orti poveri, le cataste
di ceppi che erano state un’eco di tempo in tempo rincorsa
di falda in falda, dentro il buio. E il gatto che si stende
in questi posti, sulle lamiere di zinco, alle prime luci
di novembre, raccoglie l’aria di tutte le albe del mondo;
come i semi dei fiori, portati, come una nevicata leggera
ho sognato di raggiungere i miei morti
dove sono le cose che non vedo quando si vedono
Amerigo devoto a Gina che cantava a voce alta
alla messa di Natale, il tabacco comprato da Alfredo
e Rino che sapeva di stallatico, uomini, donne
scampati al tiro della storia
quando i nostri aliti di bambini scaldavano l’inverno
e di là dalle montagne azzurrine, di là dai muri
oltre gli sguardi delle guardie confinarie
un odore di cipolle e di industria pesante premeva,
la parte di un’Europa tenuta insieme
da chiodi ritorti e bulloni, martelli e chiavi inglesi.
Il futuro non è più quello di una volta, è stato scritto
da una mano anonima, geniale
su di un muro graffito alla periferia di Udine,
il futuro è quello che rimane, ciò che resta delle cose convocate
nello scorrere dei volti chiamati, aggiungo io.
E qui, mentre intere città si muovono
sulle piste ramate degli hardware
e il presente irrompe con la violenza di un tavolo rovesciato,
mio padre torna per sempre nella sua cerata verde
bagnata dalla pioggia e schiude ai figli il suo sorridere
come fosse eternamente schiuso.
Se siamo ancora cosa siamo stati,
io sono lo stare di quell’uomo bagnato dalla pioggia,
che portava in casa un odore di traversine e ghisa
e, qualche volta, la gola di Chiusaforte allagata dall’ombra
si raduna nei miei occhi da occidente a oriente, piano piano
a misura del passo del tramonto, bianco;
e anche se le voci del mondo si appuntiscono
e qualcosa divide l’ombra dall’ombra
meno solo mi pare di andare, premendo un piede
dopo l’altro, secondo la formula del luogo,
dal basso all’alto, seguendo una salita.
***
Piove
Piove, e se piovesse per sempre
sarebbe questa tua carezza lunga
che si ferma sul petto, le tempie;
eccoci, luccicante sorella,
nel cerchio del tempo buono, nell’ora
indovinata
stiamo noi, due sguardi versati in un corpo,
uno stare senza dimora
che ci fa intangibili, sottili come un sentiero
di matita
da me a te né dopo né dove, amore,
nello scorrere
quando mi dici guardami bene, guarda:
l’albero è capovolto, la radice è nell’aria.
***
Da lontano
Qualche volta, piano piano, quando la notte
si raccoglie sulle nostre fronti e si riempie di silenzio,
e non c’è più posto per le parole
e a poco a poco si raddensa una dolcezza intorno
come una perla intorno al singolo grano di sabbia,
una lettera alla volta pronunciamo un nome amato
per comporre la sua figura; allora la notte diventa cielo
nella nostra bocca, e il nome amato un pane caldo, spezzato.
***
Cercli (cerchio)
Plan ch’e si poi la gnot cence sunsûr
scrivint di scûr la pagjine dai siums
cun man plui lizere dal sofli di diu;
ch’al alci il sium coronis di dolçôr
e che ti dedi la fuarce dal freit,
il polvar e il glaç dal voli de lune;
achì, dentri la gnot ch’e si consume,
cun mancul fuarce di prime doi vôi
l’olme davûr doman la cjalaràn denant.
***
CERCHIO.
Venga la notte e si posi piano e senza rumore / scrivendo di buio la pagina dei sogni / con mano più leggera del soffio di dio; // che il sogno alzi corone di dolcezza /e che ti porga la forza del freddo, / la polvere e il ghiaccio dell’occhio della luna; // qui, dentro la notte che si consuma, / con meno forza di prima due occhi / l’orma che avevano dietro domani la guarderanno davanti.
Semplici parole per un grande della poesia.
L’umiltà, grande e raro dono.
Adesso, che questa anima grande non è più tra ciò che possiamo vedere, una preghiera semplice per lui:
Lieve gli sia la terra e tanta luce illumini il suo cammino, dovunque egli sia.
Grazie
Vorrei dedicare questa breve poesia al poeta Pierluigi Cappello
Docili stelle
vestite di tepore
dondolano tra i capelli
e scie di luccichii
lasciano il trenino dei sogni
che nuvoleggia
nell’etere limpido
Le parole di Luigi Cappello sono come sassi levigati dolcemente dal mare.