“Ponte: dondolandosi dal”
racconto di Alba Gnazi.
Ponte.
Dondolarsi dal.
E iniziare una frase con e, dondolandosi dal. Tanto nessuno l’avrebbe corretta, tanto nessuno l’avrebbe letta, quella frase di sbafo tra un dondolio e i capelli: aggrappata al metallo delle transenne, chi avrebbe potuto entrarle nella testa?
Dondolandosi dal.
Mariarita, donna di ossessioni e fiori alla finestra, di gatti sul divano e libri dentro al letto, di un cristo mai risorto e mai appeso alle pareti, di un uomo che suonava Baudelaire nelle sue orecchie, di una metamorfosi senza ali che l’aveva prosciugata a mano a mano, come quando la musica sfuma e l’eco palpeggia l’aria.
Dondolandosi dal.
Faceva origami e ci incollava strass, Mariarita, donna con troppo sguardo; sognava una coda come quella dei gatti e detestava lo zapping in TV, miscelava rossetti e rock ‘n roll, cuciva storto e congelava le serate in un film senza porno né pop corn.
Dondolandosi dal.
Aveva una zia in un ospizio, vecchia come il canapè (non l’oggetto ma la parola), che l’ascoltava annuendo di continuo, che a un certo punto si alzava e le metteva un fiore sulla testa; la zia canapè, rintronata dalla fatica di ascoltare tutti senza far domande, fino a che le domande non avevano stretto ganasce attorno al suo cervello: da quel momento annuiva e metteva fiori, e non parlava più.
Dondolandosi dal.
Nessuno avrebbe più raccontato storie alla zia canapè, nessuno le avrebbe più sciacquato le calze col bagnoschiuma al tiglio, o messo la cipria, spazzolato la filigrana dei capelli, baciato il viso morbido di canapè; quel viso sprovvisto di pass anti-tempo su cui le rughe s’intestardivano da sempre. Mariarita pensava alla zia canapè e il pensiero le staccò una bolla di saliva che colò giù e le colorò il petto di indaco-cielo – oh, mormorò Mariarita, un’immagine poetica e: oh, quant’è bella la Poesia, è bella e fa male, e acceca perché mostra troppo, e uccide come un punteruolo dietro lo sterno, piano piano, piano piano, piano piano. –
Dondolandosi dal.
Non aveva avuto bambini, Mariarita, ma minuti per scrutarne l’assenza; vendeva profumi e creme, sorrideva alle clienti ansiose, alle clienti altere, alle clienti insoddisfatte, alle clienti indecise, e di sera si lavava via le loro maschere di dosso, intuendosi a metà sullo specchio del bagno, in un bagliore che la appiattiva, la restringeva, la scorciava di silenzio. A volte voleva la neve sulla lingua, impaziente di morderla già a fine settembre; a volte apriva braccia e gambe al sole di febbraio, implorandolo di cambiarle fisionomia e aspettative.
Dondolandosi dal.
Aveva aspettato così tanto, così tanto. Aveva aspettato tanto di sentire il canto di Baudelaire a ogni ora del giorno, aveva aspettato e aspettato e aspettato ancora, impagliata Mariarita di febbri notturne e geli estivi, di capodanni bacia-buio e pomeriggi di maschere vuote – e donne entravano e donne uscivano, e l’Uomo Baudelaire non entrava mai, non entrava più – smarrito nella folla di ruggini e cappotti, di auto in sensi inversi e lampioni accesi su pozze di marciapiede che sempre sembravano inscenare addii; affogato nella pioggia di crucci noti che rapivano giorni, giorni di pasti e giornali e sesso e risate che non la riguardavano e che sparivano, vischiosi di non-senso, via e giù, a rotolare lungo le grondaie, a spiaccicarsi su un vetro come escrementi di piccione, a ridere del suo sgomento.
Dondolandosi dal.
Non voleva diventare una valva vuota come la zia canapè, o restare a fissare la porta del negozio per veder entrare l’Uomo Baudelaire, o immaginare bambinetti da ninnare a notte, in quel saziarsi da sola senza saziarsi davvero – che non bastava la tele, non bastavano i porno, e neanche i pop corn –.
Dondolarsi dal
era sembrata un’ottima soluzione.
Da quel ponte aveva buttato centinaia di monetine ammazzapaure. Le transenne rosse le infondevano sicurezza e libertà. Nessuno sapeva dove fosse: era domenica sera e nessuno l’avrebbe cercata fino al mattino seguente; nessuno avrebbe spento la sua TV, parlato per lei alla zia canapè, sbriciolato molliche per la gatta, offerto per lei la lingua alla neve, o pronunciato il suo nome sorridendo come faceva l’Uomo Baudelaire – e pensò che la maledizione era solo sua, di lei che un tempo sognava sonetti tra i capelli al mattino presto –
Dondolandosi dal
e una mano si staccò, involontariamente, per scansare una ciocca dal viso; una mano si staccò e il cuore perse un colpo: stoc, fece il cuore, come un portone che si spalanca, e l’aria le arrossò la vista e niente fu più così sicuro: né lei oltre quel parapetto, né il volo dei gabbiani tra il ponte e la sua testa, né la sua determinazione a
Dondolarsi dal
Io ci vedo ancora, sussurrò Mariarita, lì sul ponte, con una mano penzolante e l’altra ben stretta alla transenna; Io ci vedo ancora. E voglio leggere Baudelaire alla zia canapè. E portarle neve da mangiare col cucchiaino. E fare l’amore col tipo del negozio accanto, che forse Baudelaire non lo conosce, e forse è meglio così.
Rock n’ roll, sussurrò Mariarita, facendo le corna al cielo.
Un gabbiano si posò sul vuoto che Mariarita aveva lasciato. Gracchiò una nenia, che in qualche modo era un assolo di chitarra, o un richiamo d’amore, o una poesia di Baudelaire.