Pornogrammia di Vladimir D’Amora, ed. Galleria Mazzoli, 2015, note di lettura di Claudia Zironi.
Ed eccomi di nuovo a parlarvi di un libro di poesia inesistente. Solo che stavolta, oltre a non esistere il libro (in libreria), non esistono nemmeno la poesia come concetto fine a se stesso né il poeta. Eppure, in questa inesistenza, troverete tanto, forse anche troppo: un’agevole strada per la vetta della montagna o… per il fondo dell’abisso. All’approccio e all’intelligenza del lettore “congiurare” con l’autore “senza risparmio” (cit. dall’introduzione di D’Amora stesso).
Personalmente ho scelto di scalare la montagna tenendo d’occhio l’abisso: da un poco di tempo mi occupo degli scritti di D’Amora e della sua figura di studioso (unico termine con cui mi sento di, approssimativamente, incasellarlo), ancora lontanissima dall’avere un panorama esaustivo che mai forse avrò considerato il continuo divenire e l’enorme portata con cui mi confronto, e ritengo che neppure un attimo che gli ho dedicato sia andato sprecato.
D’Amora è alla prima pubblicazione cartacea e finora chi lo ha seguito ha potuto liberamente leggere i versi, le prose e i saggi che propone, in rete. Anche qui su Versante Ripido potete trovare articoli al riguardo. Alcuni dei suoi versi più belli e alcune, poche, prose, si trovano raccolti in questo prezioso volume prodotto da una galleria d’arte in edizione limitata e numerata (www.galleriamazzoli.it).
Sarebbe troppo lungo e complesso (per me) spiegare qui un personaggio che è un mondo e quali siano i suoi pensieri e le sue scelte. Faccio dunque solo qualche accenno e cito contenuti del libro.
Intanto chiariamo il titolo “Pornogrammia” di un libro che con il pornografico non ha nulla da spartire se non come suo spostamento e superamento. Quando la lingua inganna i sensi e il sentire domina; quando cercare un significato, seppur spesso esplicitato, è solo orpello; quando il medio della lingua schiude spiragli attraverso i quali osservare oltre la cortina plastificata della costruzione pubblicitaria iperreale in cui siamo immersi; quando il linguaggio poetico lascia apparire un vuoto mistico, e la poesia cade come casualmente nella lingua; allo scritto, alla lingua stessa “capita” di essere poetica; la poesia accade come un pezzo di vuoto, compattando e riproducendo un divino silenzio, riflettendo l’umano e la bestia e lo zero: questa è la pornogrammia di D’Amora.
Sì, vorrei toccare tutte le tue luci
scannare questo dio
tornato a darci il latte
di un fantasma
assiro.
Ma nella sera
quando le dosi
si connettono alla vita,
poterti dire ancora resta viva.
Oppure mia.
***
Mancando.
E poi faremo come i resti dei sorrisi.
Erano forme vacillanti
quando nascono,
dotate di un fragore inconsistente,
si costruivano nel giro di una bocca che impressiona.
Sarebbe stata
massa d’impotenza,
enorme essere di pietra
dispersa nei liquami della specie.
Mi piace dirti
solo che non amo.
Di questo autore si può dire che scriva come pensa e pensi come scrive: ogni sillaba tecnicamente ponderata, lo stile piegato al connubio oggetto-forma, il tutto con la naturalezza di chi ha in sé tantissimi strumenti e doti. Eccolo, l’autore, come si precipita nel testo:
sentono sempre scrosci
dall’orecchio si stacca un ronzio
come se non riuscissero mai
a stare soli
nel silenzio dell’uomo
come se un dio impazzito ed eterno
impersonale essere da fuori
come se dio dicesse
ai morti suoi
voi risalite
e bucatemelo bene
il figlio senza il padre
il cielo sopra al mare.
Notate come insorge e si spacca nella pagina l’evento poetico-linguistico:
Hanno finito per smarrirli, i fiori
colti sul presto: le parole rese ritmi irregolari e ciò
che riconducono a eventi fragorosi e lenti, le loro
determinazioni. Ciò che
si poteva fare e rompere
senza un’ora che circolasse tra me e te, sui muri,
mentre tornavamo dal solito raggiro dei sensi,
udimmo che la chiave era sformata e prima
di accompagnarci alle risposte della borghesia già nata,
pagammo il prezzo di chi
si arresta
ai limiti del piano scivoloso. E noi non volemmo.
Ma un’altra domanda; e fummo quasi perché tu ti donassi
e fui sincero, ti accoltellai la voce. In via Roma,
i segni sparsi come semi di dio, tu crescesti
abbandonandomi a delle vetrate e ai luoghi
mai confezionati, era liberatorio. E forse
il tuo nome costava e l’apristi
le virgolette spaziali: come caddi,
inciampando nella stessa e sognata
“Fammi precipitare dalle mani tue…”
io mi feci rosso cioè, sciogliendoci per poche lire
un veleno perfetto, disciolto nel possibile
andirivieni di macchine comprensive.
Stava facendo giorno.
E diventammo
noi termini
di un’altra impressione.
Notate ora come a volte perfino il “troppo” e il “brutto” siano dosati con maestria per incorniciare l’evento della lingua. Come ogni lemma possa essere trattato in aderenza di forma.
…
hai già pisciato intero il mondo
e siamo due
ancora gli sfiniti, e non mortali
diversamente dati alle parole
a certi angeli terrosi
i figli la paura
o siamo corde tese
anche la verticalità insaziabile del cazzo
cresciutoti nel seno
e dentro al manto,
siamo piccina mano
che già si agita
nel vero quando comincia
sui rami sconosciuti
la neve non l’annulla
bevi
e ora che inizia il sole
di un’altra vita impossessata
è guerra aperta
e noi
che stiamo alzando
chiari, alcuni rischi
noi siamo voglie ruvide e più belle
nella dimenticanza impressi
solo succhiarti
ogni banale presa
e provami lo spirito, tu sputa.
Chiudo questa mia breve nota lasciandovi a uno scritto che amo particolarmente e ritengo emblematico:
Dopo la dipartita degli uccelli o forme care che consumavano sé
strette alla lor fine pur durando nei giorni variopinti e
stilizzatissimi
e bradi nella totale disponibilità da sempre tolta, potremmo
ospitarLa nella stanza. Lo spazio non è una costrizione di misure,
né voracità conducente a riconoscere minuzie di schizzi e di specchi.
Dobbiamo ammetterlo, se ormai le voci s’indovinano come il vino strapazzato da corpose Compagnie. La stanza
non è più la cassa che tenga
resistendo sgualcita anche e poi si volerebbe nella
disposizione ad abbracci singolari. Lei troverà soli mangime e
margine;
e potrà ricompattare le pretese di una corda, riallacciare
i costumi alle volontà degli scheletri,
e per ogni invito proveniente da ciascuno degli innumeri angoli
della stanza,
nell’avere l’agio di scegliere l’abito più acconcio, e per i vocii
i brandelli.
Potrà,
nei giorni e colmi e dimentichi di Tempo, gustare i secchi semi di un’albicocca,
che riceviamo dall’isola ancora. Per lei
noi togliemmo la fame agli uccelli. Ora è Lei,
che potrebbe cibarsene: come di una dote
testarda, e di un cominciamento padrone.
Sappiamo che è poco.
Ma riempiendosi le tasche, ogni giorno lasciandone cadere,
Lei costruendo mucchietti senza straripante pretesa,
ogni Sua ruga non La ferirà più. Di questo
vogliamo essere anche per Lei,
la sorgente viva.
Questo Le assicuriamo. E non oltre.