Preferirei di no, di Paolo Valesio.
Da vari anni vado scrivendo in parallelo quattro romanzi-diari ovvero romanzi diarii ovvero romanzi quotidiani, il cui titolo collettivo è Quadrilogia. I testi, per il momento manoscritti, ammontano a parecchie migliaia di pagine, di cui solo una piccolissima parte è stata finora anticipata su riviste. Uno dei testi della Quadrilogia è un romanzo-diario in pubblico, intitolato Codex Atlanticus; il quale raccoglie, come una sorta di “zibaldino”, vari appunti narrativi quotidiani: di letteratura e arte, di psicologia e di filosofia, di vita sociale. A quest’ultima categoria appartiene il breve estratto da Codex Atlanticus che qui si presenta, e che parte da tre giornate della scorsa primavera. Presentando questa parte del romanzo-diario Codex Atlanticus in forma autonoma, gli ho dato come titolo Preferirei di no, la famosa frase che caratterizza il protagonista del grande racconto di Herman Melville, Bartleby lo scrivano. Bartleby è un personaggio notoriamente enigmatico; ma, fra tanti altri elementi, può anche essere assunto a simbolo dell’“impolitico”.
Preferirei di no
Bologna, 24 aprile 2017
All’indomani del primo turno delle elezioni francesi scopro un manifesto, riprodotto come illustrazione su una pubblicazione online, dove la facciona di uno dei candidati è come imbavagliata da un cartello giallo sovrapposto che dice:
NI PESTE NI CHOLÉRA
BOYCOTTONS
L’ÉLECTION
PRÉSIDENTIELLE.
È firmato: “I disertori attivi”. La virulenza della frase (che scandalizzò alcuni amici, quando gliela citai) la rende datata, con uno stile polemico alquanto invecchiato. Ma l’intuizione centrale resta importante.
6 maggio 2017
Leggo su “Le Monde” di oggi una variante più, come dire, aggraziata del già citato “Ni peste ni choléra”. L’articolo descrive un corteo giovanile che canta in coro:
NI MARINE NI MACRON
NI PATRIE NI PATRON
(con tanto di rima e di allitterazione). E nello stesso numero del giornale si cita fra l’altro il parere di un sociologo politico, secondo il quale le elezioni oggi sono diventate semplicemente uno strumento di legittimazione dei governi, e riconoscere il voto bianco significa “dare un’altra dimensione filosofica alle elezioni […] mettendo più sfumature e più complessità nei nostri procedimenti elettorali”.
7 maggio 2017
Sul “Corriere della Sera” un articoletto riprende lo slogan che avevo citato ieri, e accenna al fenomeno che esso rappresenta. Il titolo è “La generazione né-né” (che ricorda un po’ troppo la “generazione yé-yé” di cui si parlava negli anni Sessanta). Ma il sottotitolo ha una formulazione propriamente politica: “Astensione militante” – e con questa categoria siamo giunti al cuore della vita nella città.
Per capirci meglio, torniamo allo slogan “Né peste né colera”. Non voglio ferire alcuna sensibilità, ma francamente non vedo ragione di scandalo – anche perché una delle origini di questo motto risale alla grande poesia rinascimentale e barocca. Noi tutti ricordiamo una delle scene culminanti della shakespeariana “Giulietta e Romeo” – quella in cui Romeo e Tebaldo, a spade sguainate, si affrontano in duello. Il caro amico di Romeo, Mercuzio, si intromette per evitare che si arrivi allo scontro, e viene mortalmente ferito dalla stoccata che Tebaldo destinava a Romeo (Romeo and Juliet, 3.1). Quando Romeo tenta di minimizzare il danno (forse anche per mascherare il suo rimorso, essendo stato lui la causa per quanto involontaria del ferimento dell’amico), e dice: “Coraggio, amico: questa ferita non può essere una gran cosa”, Mercuzio ribatte con una lunga battuta ironico-macabra spiegando che invece questa ferita è fatale – e in questa sua battuta emerge la frase capitale: “Che la peste colga entrambe le vostre casate!” (A plague o’ both of your houses!).
Come accade con tantissime altre frasi e versi di Shakespeare, anche questa ha avuto la fortuna/sfortuna di divenire proverbiale. Fortuna, perché è entrata a far parte del normale tessuto quotidiano della lingua inglese, e corre sulle bocche di tutti i parlanti. Sfortuna, perché la cristallizzazione e depersonalizzazione dell’uso le ha (come in tutti i casi simili) tolto qualcosa della forza originaria. D’altra parte, proprio questa estensione proverbiale ha chiarito la vastità di riferimento che in ogni caso era già presente nella frase shakespeariana. Se infatti il personaggio Mercuzio scaglia tutta la sua amarezza contro due particolari casate nobili (i Montecchi e i Capuleti com’è ben noto), che ingabbiano la vita politica della Verona a lui contemporanea, il suo autore William Shakespeare è ben consapevole di stare enunciando un’affermazione universale. Ma, universale in che senso? Qui le cose si complicano.
Prima di tutto, Mercuzio in tutto il suo comportamento sembra rappresentare la forza dell’amicizia – non solo come rapporto emotivo, ma anche (o, appunto per questo) come valore che trascende la politica. Forse Mercuzio vede in Romeo soltanto Romeo, non un Montecchi; e questo rivelerebbe una differenza, tanto significativa quanto delicatamente sfumata, fra il suo atteggiamento e quello di Giulietta, nel loro rispettivo rapporto con Romeo. Nella sua improvvisa scoperta della passione amorosa – che giustamente la allarma: “È una cosa troppo avventata, troppo sconsigliata, troppo improvvisa” – It is too rash, too unadvis’d, too sudden (Romeo and Juliet, 2.2) – Giulietta cancella d’un colpo la differenza, che fino ad allora per lei era stata fondamentale, fra Montecchi e Capuleti. (Vedi tutta questa scena, e specialmente la famosa battuta “Che cosa c’è in un nome?” What’s in a name? – che sotto le apparenze di una domanda retorica contiene in realtà una profonda questione filosofica.) Potremmo dire che quella di Giulietta è una cancellazione della politica – la quale svanisce come nebbia di fronte agli occhi dei due innamorati. Mercuzio, da parte sua, non è che ignori le divisioni politiche: egli si pone come loro esplicito avversario, le condanna. In ogni caso, si apre qui tutta una problematica sul rapporto di somiglianza e rivalità tra l’amore e l’amicizia – problematica molto sentita, dai tempi classici fino al Rinascimento.
Non è chiaro se Mercuzio – lo scettico, l’ironico Mercuzio – sia sempre stato critico verso le divisioni politiche, o se la sua delusione sia dovuta al suo improvviso trovarsi schiacciato, come vittima innocente, tra due sistemi di potere. Ma ciò che qui importa non è la critica shakespeariana, bensì l’importanza delle intuizioni poetiche come origini degli esperimenti di pensiero intorno alla politica – esperimenti che prima o poi hanno conseguenze molto concrete. Si potrebbe dire, allora, che Giulietta sia “apolitica”, mentre Mercuzio sarebbe “impolitico” (unpolitisch), in un senso analogo a quello del bel titolo del libro saggistico del 1918 di Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico – titolo che resta ispiratore ancor oggi.
Può apparire cosa risaputa (dopotutto, è il materiale di tanta letteratura e filmografia pop ben inferiori ai testi che ho citato) che l’amore e l’amicizia intrattengano da sempre dei rapporti per lo meno difficili, se non ostili, con la politica. Ma io non sto parlando di quella “divisione del lavoro” che celebra più o meno leziosamente queste emozioni belle, confinandole in un’area domestica e così rafforzando per contrasto il dominio della politica, la quale in tal modo vede confermato il suo controllo della “realtà”. Parlo invece dell’amore e dell’amicizia come modi di svolgere una critica della politica.
Non uso la parola “antipolitico”, perché questo termine ha una connotazione amara e un po’ maligna – come i politici e politicanti hanno subito compreso, avvolgendosi, di fronte a questa categoria, nel manto delle vittime di pregiudizi. E non insisto sull’ “apolitico”, che si presta troppo facilmente alle prediche moralistiche contro l’indifferenza civica. No: il termine chiave, come ho già indicato, è “impolitico”: che non designa tanto un modo di volgere le spalle alla politica, quanto piuttosto un modo di viverla dal basso (guardandola, per così dire, dal basso verso l’alto) – o dai margini. Ciò è confermato anche dall’uso corrente del termine, che designa un comportamento poco diplomatico.
Insomma: l’impolitico si muove dentro la polis ma tenendosi fuori dalla regolamentazione strettamente politica; così che di volta in volta esso rischia di apparire come troppo dimesso (e allora viene rimosso dalla visibilità) o troppo impertinente – e allora è disprezzato dai funzionari dell’ideologia preposti a guardiani del buon gusto. E invece, questi movimenti soltanto apparentemente contradditori dell’impolitico sono fra le poche risorse rimaste alla singola persona umana per farsi valere come tale nella polis, al di là del ruolo ormai ampiamente svuotato (non sono più i tempi di Rousseau) di una cittadinanza ridotta a formalismo.
La città – quella dove abito è un villaggio emiliano di 70.000 abitanti dove dal dopoguerra a oggi ha sempre governato un unico partito nelle sue tormentate trasformazioni – è il luogo dove il potere eroga i servizi più vicini ai cittadini, quelli quotidiani, quelli che riguardano la gestione della loro sopravvivenza e del loro lavoro. Ma anche a questo livello il potere non può fare a meno della sua staticità e della sua centralità. Anche nella città il potere è essere titolari di un dato ufficio ed essere permeati da un grado pervicace di inamovibilità. Il potere sta sempre seduto, comunque, su un trono, su un seggio del parlamento, su una poltroncina magari di design di un assessorato comunale. Il cittadino Batleby sta più scomodo, ovviamente, su uno di quegli alti sgabelli divenuti proverbiali da quando Dickens li ha descritti nei suoi romanzi.Insomma, è inutile, anche nelle città più democratiche il divario tra il capufficio e l’umile scrivano è sempre rimarchevole. Oggi più che mai è dunque necessario preferire la negazione ad una condivisione che è del tutto fittizia. Ma se il politico come categoria si riflette nella staticità, essere impolitici significa essere dinamici ed elaborare una ricca strategia di movimenti e percorsi per non essere intrappolati nella rete ormai capillare del potere e della sua capacità di controllo. Essere nomadi, sguscianti, entrare in rapporto con il potere per poter realizzare magari un proprio progetto personale di creatività, ma essere subito pronti a fuggire quando il meccanismo inizia a prenderti e la peste, citando Valesio, a contaminarti. Impolitico era ovviamente Nietzsche e il suo pensiero errante e prima di lui Rimbaud che lo ha influenzato nella sua impossibilità di essere imprigionato in un unico ruolo. Loro continuano a dire “preferisco di no”. Ed il maestro dell’ incursione e fuga nei luoghi lasciati accessibili dal potere, è un maestro del ‘ni’, il francese Guy Debord. Marcare il territorio con il proprio pensiero /opera per poi fuggire in altro luogo e lì colpire ancora. Grazie a Paolo Valesio: la sua opera non pubblicata e credo volutamente impubblicabile è una preziosa testimonianza dell’impolitico.