Adriano Spatola: retrospettiva a cura di Maurizio Spatola.
1: Quando Adriano Spatola impersonò Père Ubu, intervista a Maurizio Spatola a cura di Anna Belleri.
Questa intervista è stata rilasciata da Maurizio Spatola, che ce la mette a disposizione per pubblicazione in questo numero di Versante Ripido, alla studentessa Anna Belleri per la sua tesi di laurea sui Diversi accorgimenti per l’abolizione della realtà di Adriano Spatola, presentata nel Novembre 2009 presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna sotto la supervisione della prof. Niva Lorenzini. (NdR)
Il 7 agosto 2009, mi sono recata a Sestri Levante, cittadina del litorale ligure, per incontrare Maurizio, fratello di Adriano.
Maurizio è cresciuto con il fratello e ha vissuto con lui i momenti più importanti della ricerca artistica. Ha seguito il fratello, anche a distanza quando viveva a Torino mentre Adriano era prima a Bologna, poi a Roma e infine a Mulino di Bazzano e si è lasciato coinvolgere da quello che lui dice essere stato “un gruppo di matti”; ha partecipato con Adriano e il fratello minore Tiziano a Fiumalbo; insieme hanno concepito l’idea delle edizioni Geiger e poi, insieme con Giulia Niccolai, della rivista “TamTam”. Si è occupato prevalentemente della casa editrice, che aveva la sua sede a Torino, della distribuzione dei libri e degli aspetti più burocratici dell’attività editoriale, detestati da Adriano. Parallelamente ha svolto la professione di giornalista lavorando per “La Stampa”, occupandosi nel corso della carriera dei più vari settori: dalla cronaca nera, politica e giudiziaria, agli spettacoli e ai festival di letteratura ed eventi culturali di ogni genere.
Negli anni del Mulino, “anni splendidi e divertenti”, Maurizio si destreggiava in un estenuante pendolarismo tra la valle dell’Enza e Torino.
Oggi, Maurizio vive a Sestri; non vedente dal 2001 continua a scrivere grazie all’aiuto di collaboratori e sta digitalizzando il suo prezioso archivio contenente non solo materiale connesso all’attività del fratello, ma anche relativo all’intera produzione (libri, riviste, cataloghi, manifesti) della Neoavanguardia artistica e letteraria degli Anni 60-80, in gran parte edita in poche copie, con scarsa diffusione.
La testimonianza di Maurizio è stata utile non solo per reperire alcuni materiali, ma per conoscere meglio Adriano come personaggio. Il fratello del poeta ha già scritto, per alcune riviste, testimonianze molto dettagliate sulla vita di Adriano e sulla sua ricerca poetica: per questo motivo ho scelto di chiedergli un’intervista limitandomi a porre poche domande, in modo che si sviluppasse naturalmente come una chiacchierata, da cui riemergessero aneddoti e ricordi di momenti particolari, convinta che anche questo sia un modo di fare storia.
In assenza di altri documenti, i testimoni sono la fonte più preziosa e l’affettuosa e divertita testimonianza di Maurizio lo è sicuramente stata.
In un suo intervento per il volume di Pier Luigi Ferro dedicato ad Adriano, lei racconta di come suo fratello già dall’infanzia si divertisse a inventare storie e a fare giochi linguistici. Quando effettivamente Adriano iniziò la sua vera e propria attività letteraria?
È vero, gli interessi di Adriano per l’arte, e la poesia hanno origini nell’infanzia. Nel periodo in cui ci trovavamo dai nonni in Carnia, a Tolmezzo, Adriano si impegnò ad esempio, nella preparazione di manifestini, per invitare i ragazzini del posto alle proiezioni dei film muti di Ridolini in bobine da 8 mm, che nostro padre ci aveva comprato. I film venivano proiettati su un lenzuolo appeso al muro. Adriano disegnava con la matita, a volte con acquerelli, questi manifestini, dimostrando di avere già una vena artistica.
Per quanto riguarda la poesia, rivedendo di recente un quaderno delle scuole medie che aveva usato lì in montagna, nel Friuli, in cui aveva trascritto “in bella” alcune poesie, sono rimasto attonito nel trovarvi la bellissima A Sirmione di Catullo…una cosa straordinaria. Tra i tredici e quattordici anni, inizia comunque l’interesse per quella poesia che non ci insegnavano a scuola, che andava oltre Pascoli, Carducci o D’Annunzio, Manzoni, Leopardi e Dante naturalmente. Tanto è vero che a quattordici anni Adriano già leggeva i “poeti maledetti” francesi. Ricordo che, quando avevo dieci anni, fu sospeso perché aveva pubblicato su un foglio ciclostilato, che costituiva il giornaletto del ginnasio di Imola, delle poesie di Rimbaud, Verlaine e Baudelaire.
Queste letture sono state poi i prodromi delle prime poesie scritte fra i sedici e i diciotto anni mentre leggeva i poeti ermetici, ma anche, ad esempio, Eliot, Dylan Thomas, Pound e Whitman. I versi di quegli anni, purtroppo, sono andati perduti. La raccolta Le pietre e gli dei, che pubblicò nel 1961, con il tipografo bolognese Tamari, anni dopo veniva da lui riletta con molta perplessità, forse a causa di quella patina di post-ermetismo che la permeava. Non rinnegò mai quelle poesie, ma non le ripubblicò più in seguito. La prima pubblicazione ufficiale di Adriano fu un articolo di filosofia uscito nel 1961 sulla rivista svizzera “Il Cenobio”.
Adriano studiò a Bologna, cosa si ricorda di quei primi anni?
Difficile scegliere fra una montagna di ricordi. Anzitutto, mentre io iniziavo a frequentare le medie inferiori, Adriano si iscrisse al Liceo Galvani, dove avrebbe incontrato alcuni dei futuri collaboratori della sua prima rivista, “Bab Ilu”, frequentazione che si concretizzava in interminabili discussioni di argomento letterario alla famosa osteria di via dei Poeti, non lontana dal liceo. All’epoca abitavamo ai confini del centro storico e dalla finestra della sua camera, che dava sui tetti medievali, Adriano eseguiva acquerelli e tempere (ne conservo una che ritrae un gatto che si lava su quello sfondo) dove si intuisce una percezione dello spazio di tipo cubista. Scriveva già poesie e nel ’60 ne dedicò una all’amata nonna Maria di Tolmezzo, che purtroppo è andata persa. Di questi versi giovanili non resta più traccia. Finito il liceo si iscrisse all’università e, come in seguito capitò anche me (però con Economia e commercio) inizialmente alla facoltà di Giurisprudenza, per poi passare a Lettere e Filosofia. Questo perché entrambi volevamo soddisfare le aspettative di nostro padre, anche se non era quella la strada che sentivamo adatta a noi. In questo periodo peggiorò il rapporto di Adriano con nostro padre, che mal tollerava i “grilli per la testa” del suo figlio maggiore. Questo non gli impedì però di ospitare nella nostra nuova abitazione (in via Andrea Costa, fuori Porta Sant’Isaia) la redazione di “Bab Ilu” e la presenza degli amici di Adriano, uno dei quali, “Carletto” Negri, era particolarmente simpatico a nostra madre Dina, per i complimenti che le rivolgeva in merito al suo modo di cucinare. Nel ’63 però le cose precipitarono e dopo un violento litigio con nostro padre Adriano andò a vivere da solo in una stanza nel centro storico, in vicolo Bolognetti.
A quel periodo appartiene un episodio che segnò la vita della famiglia e di Adriano stesso. Fu un gesto di cui poi non abbiamo più parlato, ma che lui compì anzitutto contro se stesso. In fondo quello sarebbe dovuto essere un periodo felice per Adriano, che stava per pubblicare il suo romanzo L’Oblò con Feltrinelli. Invece l’inizio di quell’anno lo vide precipitare nello sconforto, credo per un complesso di motivazioni e non per un singolo episodio.
La scena è questa, come l’ho ricostruita nella mia immaginazione: è la notte dell’epifania, sono le due del mattino del 6 gennaio 1964. Piazza Maggiore viene attraversata da un giovanotto con un giaccone tipo militare che gli aveva dato il padre, caratterizzato da tasche molto profonde. Ha i capelli scarmigliati, l’aria un po’ stravolta e si avvia con passo lento ma deciso verso Palazzo D’Accursio, sede del Municipio: a sinistra c’è piazza Galileo, dove si trova la sede della questura. Lì giunto, il giovanotto, esita per qualche istante poi estrae da uno dei tasconi una bottiglia con la quale armeggia per un po’ prima di lanciarla verso una finestra laterale della questura, protetta da grate. La bottiglia va in frantumi, il liquido si sparge per terra e immediatamente dall’edificio escono agenti armati, che vedendo il giovane e i resti di una bottiglia molotov si gettano contro di lui e lo immobilizzano, mentre lui dice “Sono un anarchico individualista, è stato un gesto simbolico”. Il giovane viene perquisito, infine arrestato. L’8 gennaio i giornali cittadini pubblicano una breve notizia sul “gesto folle di uno studente di filosofia, Bruno Spatola”. Bruno era all’anagrafe il primo nome di Adriano. Nostro padre, dimenticate le divergenze, mise in moto le sue conoscenze per farlo uscire di prigione: Adriano restò a San Giovanni in Monte solo tre giorni. In seguito intervenne un avvocato di Reggio Emilia, guarda caso Corrado Costa, che riuscì a farlo assolvere perché, secondo la sentenza, il fatto non costituiva reato. Adriano comunque, più che compiere un gesto di protesta contro la società, voleva fare del male a se stesso, un gesto di autodistruzione: ne compì altri in seguito, fino alle estreme conseguenze. Alla fine però questo “pericolo pubblico” rimase a Bologna, mentre fu il padre, militare (era maresciallo della guardia di finanza) ad essere punito con il trasferimento a Torino, insieme con la famiglia compreso il sottoscritto.
Fin dagli anni del Ginnasio Adriano esprime il desiderio di creare una propria rivista, che potesse essere un luogo di discussione e di creazione di qualcosa di nuovo. Effettivamente, nel corso della vita, non solo collaborò a molte riviste, ma fu l’artefice di diverse imprese editoriali. Tra queste Geiger. La scelta di pubblicare le proprie opere attraverso una casa editrice-artigianale, diretta a un pubblico limitato, non crede abbia prodotto un isolamento e sia causa della scarsa conoscenza attuale e in passato dell’opera di suo fratello?
No, non credo assolutamente. Adriano non è mai stato isolato né rifiutato dagli altri; è stato lui a rifiutare di entrare nelle grandi case editrici come facevano tutti, anche i più rivoluzionari, che poi finivano alla Mondatori, Rizzoli ed Einaudi. Adriano si rifiutava di accettare questi compromessi, non si voleva vendere. Voleva che le proprie poesie circolassero in un ambiente preciso, anche se forzatamente ristretto, quasi underground. Anche il formato tascabile dei suoi Majakovskiiiiiiij e Diversi accorgimenti inseriti nella collana di poesia delle Edizioni Geiger al pari degli altri poeti, fu una scelta precisa. Naturalmente avevamo fondato insieme questa casa editrice nel ’67 non per pubblicare solo le opere di Adriano, ma per creare uno spazio alternativo per i giovani poeti e artisti sperimentali. La decisione di realizzare i libri artigianalmente non fu solo una scelta economica, ma un preciso indirizzo legato alla volontà di sottrarsi ai condizionamenti del mercato. Quanto alla scarsa conoscenza, passata e attuale, delle opere di Adriano, devo dire che questo è un fenomeno limitato all’Italia, in quanto mio fratello fin dagli anni ’70 era molto noto all’estero, in particolare negli Usa e in Australia: nel 1979, durante un viaggio in questo sterminato paese su invito dell’Università di Sydney per il tramite del professore Raffaele Perrotta, Adriano scoprì che diversi studenti avevano già scelto lui come argomento per le loro tesi di laurea.
Nel 1967, nel mese di agosto a Fiumalbo sull’appennino modenese, si tenne uno storico incontro di artisti e poeti, “Parole sui muri”, di cui suo fratello fu uno dei principali animatori, lei c’era? Cosa si ricorda di quei giorni?
Sì, c’ero. Certamente Fiumalbo fu favoloso. L’idea era nata da un incontro fra il sindaco Mario Molinari e Corrado Costa; poi vennero coinvolti anche Claudio Parmiggiani e Adriano. Il festival era nato come mostra di manifesti delle nuove forme di poesia e d’arte legate all’esperienza di Fluxus, e doveva avere all’inizio delle dimensioni limitate, ma si trasformò poi in un happening collettivo e internazionale di cui Adriano fu l’anima: presente dappertutto per suggerire idee, risolvere problemi logistici, bere un bicchiere in compagnia di questo o di quello.
Organizzatori a parte, artisti e poeti dormivano su brandine sotto una grande tenda militare americana. Non erano presenti tutti gli autori ma molti manifesti erano stati mandati per corrispondenza. Eravamo comunque in un centinaio circa con molti stranieri e si cominciò a utilizzare, anziché manifesti di carta già stampati, il selciato delle strade e i muri delle case per dipingervi direttamente opere improvvisate, non sempre con il gradimento dei legittimi proprietari. Venne dipinto anche un albero ai cui rami furono appese delle lettere dell’alfabeto scritte a vernice su pezzi di legno. Una mongolfiera “poetica” di carta si librò nel cielo. Finte segnalazioni stradali poetiche vennero appese sotto i segnali stradali veri: ad esempio sotto la freccia blu indicante Abetone si poteva leggere un altro cartello indicante “Io, tu e le rose”, autrice Ketty La Rocca. Tutto era molto divertente, dagli altoparlanti del Municipio veniva diffusa la poesia sonora di Henri Chopin e dei lettristi Isidore Isou, Bernard Heidsieck e François Dufrêne. Parte degli abitanti non solo non capiva, ma si arrabbiava, anche perché si verificarono due episodi incresciosi. Prima uno dei poeti, il giovane Sarenco che si atteggiava a marxista-leninista, in modo provocatorio scrisse nottetempo, con la vernice bianca e a caratteri cubitali, una bestemmia sul sagrato della chiesa, causando l’indignazione degli abitanti, del parroco e dello stesso sindaco comunista. Più grave fu quello che accadde la sera successiva. Sotto il tendone che ospitava in innocente promiscuità anche alcune artiste e poetesse, oltre alla moglie e alla figlia tredicenne di Henri Chopin, irruppero a tarda notte due montanari piuttosto alticci, che avevano inseguito fin lì Patrizia Vicinelli, pensando a chissà quali orge. A difesa della ragazza intervenimmo in diversi, ma fu soprattutto Gian Pio Torricelli a risolvere la situazione: affrontò uno degli energumeni rischiando lo strangolamento, ma spezzandogli un braccio. Naturalmente la vox populi diede torto agli artisti e il mattino dopo arrivarono da Modena decine di poliziotti e carabinieri. Fummo tutti identificati e definiti sulla stampa locale “pseudo-artisti, anarcoidi, capelloni”. Come disse Adriano, fu “tutta pubblicità”. “Parole sui muri” venne ripetuta a Fiumalbo l’anno successivo, ma fu molto diverso: vennero rispettate tutte le regole, gli artisti erano alloggiati negli alberghi, i manifesti affissi negli spazi consentiti, e non era previsto alcun happening. Infatti nessuno ricorda questa seconda edizione.
Non abbiamo ancora parlato dell’intensa attività di Adriano come il poeta capace di fare di se stesso poesia. Egli fu attore di teatro, poeta sonoro e performer. Ha qualche ricordo rispetto a questo aspetto dell’attività di Adriano?
La risposta a questa domanda potrebbe costituire da sola un libro intero. Si tratta infatti di seguire il percorso compiuto da mio fratello verso la meta di quella “poesia totale” che divenne il suo obiettivo primario a partire dalla seconda metà degli Anni ’60, ma che aveva già teorizzato nel suo saggio Verso la poesia totale, pubblicato dall’editore Rumma di Salerno nel 1969.
Qualcosa di simile a quelle che in seguito furono chiamate performances Adriano cominciò a sperimentare in alcuni dei primi festival di poesia: Karnhoval a Rieti o Segni nello spazio a Trieste, per esempio, nello stesso 1967 in cui si svolse Parole sui muri. Nel marzo 1968, durante un viaggio in sette città jugoslave nel quale lo accompagnai insieme con Tiziano per una serie di conferenze sulla nuova poesia italiana, in qualche caso Adriano si esibì in dimostrazioni artigianali (per via della carenza di mezzi tecnici) di come si crea una poesia visiva o sonora, magari sul proprio corpo: il tutto davanti a platee plaudenti e rumoreggianti di studenti, come accadde fra l’altro a Sarajevo, in una serata di cui conservo un magnifico ricordo.
Adriano cominciò a dare a queste manifestazioni estemporanee una sceneggiatura precisa, di tipo teatrale, con tempi e ritmi di esecuzione rigorosi, dopo il suo trasferimento con Giulia Niccolai a Mulino di Bazzano. Faccio un esempio specifico. La famosa serie performativa Aviation/Aviateur, Seduction/Seducteur Vibration/Vibrateur, Composition/Compositeur ecc. venne da lui codificata nel libretto Algoritmo pubblicato dalle nostre edizioni Geiger nel 1973: è una sorta di partitura, che nessuno spettatore di quelle performances avrebbe mai pensato di collegare all’esibizione appena vista.
A partire dalla seconda metà degli Anni Settanta le performances di Adriano si susseguirono, anche perché generalmente a pagamento, nel corso di manifestazioni e incontri di ogni tipo, in spazi pubblici o privati, in Italia e in vari Paesi del mondo, Canada, Stati Uniti e Australia compresi. Al repertorio “classico” accennato prima, aggiunse un omaggio al famoso Ionisation di Edgar Varèse, eseguito battendo il microfono sul proprio corpo, in particolare sul prominente stomaco: un’idea non del tutto nuova ma spettacolarmente efficace. Elaborò inoltre le altrettanto note Ocarine, in cui con la voce imitava il suono lamentoso di questo strumento a fiato di antichissima origine. Ricordo che nell’estate ‘78 a Roma, durante un festival di poesia organizzato nell’ambito della cosiddetta stagione “dell’effimero” dall’assessore alla Cultura Nicolini, salii con lui sul palco in piazza di Siena per fargli da spalla, con un’ocarina di terracotta in mano, in una di queste sue esibizioni: e insieme con lui mi beccai le pesanti bucce d’anguria gettateci dal pubblico e che noi rispedimmo futuristicamente indietro, nella massa.
Nel 1980 era stato invitato da Paul Vangelisti, insieme con Julien Blaine, per una trasmissione radiofonica e una serie di perfomances a Los Angeles e presso l’Università di Berkley a San Francisco. L’invito fu esteso anche a me e a Tiziano e partimmo insieme su un volo della TWA da Milano, in grande allegria: mio fratello usciva da un periodo di profonda depressione e quel viaggio sembrava l’occasione giusta per dimenticare lo smarrimento.
Ci fermammo a Los Angeles un mese ospiti della ex moglie di Paul, io, Tiziano e Julien Blaine, mentre Adriano fu ospite di Paul.
Ricordo di quei giorni una performance in una galleria d’arte nella China Town di Los Angeles in cui costruimmo un libro di legno alto un metro e mezzo e largo un metro che avevamo legato con delle strisce di cuoio. Il libro era costituito da due colossali pagine, le tavole di legno erano spesse tre centimetri, all’interno avevamo piantato dei chiodi cui appendemmo fogli con poesie, disegni, ritratti opere e frasi. Adriano lo chiamò Vergine di Norimberga.
A Berkeley eravamo ospiti di John McBride in una villetta stile beat generation, con frequenti incursioni nel quartiere North Beach di San Francisco e conseguenti passaggi sul Golden Gate. Visitammo anche, of course, la mitica City Light Books di Ferlinghetti. All’Università di Berkley, Adriano e Julien si esibirono nell’Aula Magna del dipartimento di archittettura, in parte improvvisando. Mio fratello ideò per l’occasione l’“Al Capone Poem”, che esigeva per l’esecuzione la complicità dei due fratelli, già impegnati in proprie performances.
A New York Adriano fu ospite di Luigi Ballerini, all’epoca docente presso la Columbia University, mentre Tiziano e io trovammo sistemazioni alternative, lui a Brooklyn, io nel Westchester, quasi in Pensylvania. L’unico vero impegno di Adriano era a Boston, presso la facoltà di Italianistica dell’Università di Harvard, per una conferenza e un reading organizzatigli dal giovane Luigi Fontanella, di fresca docenza. Ma nella Grande Mela era in corso un grande Sound Poetry festival e non fu difficile inserirvisi. In una chiesa sconsacrata di Washington Square improvvisammo lì per lì una performance con un poeta del Village e la sua compagna, ballerina di professione, che si prestò a danzare con delle paperette starnazzanti legate sotto i piedi mentre Tiziano e io agitavamo dei “bastoni sonori”, con un effetto esilarante e suggestivo.
Poi ci recammo a Boston. Qui, di fronte a un pubblico di letterati, Adriano tenne la sua lectio e venne poi invitato a leggere alcune sue poesie in modo da lasciare presso l’archivio dell’Università la sua voce registrata: l’ultimo poeta italiano che aveva avuto questo onore era stato Giuseppe Ungaretti.
Festeggiamo l’avvenimento in un fornitissimo Oyster Bar lì nei pressi, accompagnando i deliziosi molluschi con dell’ottimo vino bianco, a suon di another rounds. La sera avemmo l’occasione per noi irripetibile di ascoltare, in un teatro gremito di studenti, una conferenza di Jorge Luis Borges, ormai quasi completamente cieco.
Negli anni successivi le performances prevedenti l’intreccio fra oralità e corporeità, a volte con stravaganti sottofondi musicali, si moltiplicarono, portando Adriano in giro per l’Europa e per il mondo: i festival più importanti cui prese parte sono quelli di Milanopoesia, Cogolin, Polyphonix, DiVersi InVersi, organizzati rispettivamente da Gianni Sassi, Julien Blaine, Jean-Jacques Lebel a Parigi, Daniela Rossi a Parma. Ma Adriano partecipò a altre manifestazioni in Spagna, Olanda, Inghilterra, Corsica, Jugoslavia, ecc. Oltre che, naturalmente, su e giù per l’Italia. Vedendolo sulla scena a volte mi esaltavo o commuovevo, in altre occasioni mi arrabbiavo e spiego perché. Durante le sue perfomances Adriano assumeva un atteggiamento nei confronti del pubblico che a me appariva eccessivamente provocatorio: camminava avanti e indietro sul palco come se non sapesse bene cosa fare, fermandosi ogni tanto a bere dall’immancabile lattina di birra posta sul tavolino, per poi dare inizio allo show dopo numerose false partenze. Io digrignavo i denti per la rabbia perché mi sembrava troppo evidente la sua ubriachezza, e quasi mi stupiva, alla fine, sentire lo scroscio degli applausi, allora pensavo di essermi accorto solo io, che lo conoscevo bene, delle sue condizioni. Solo in seguito ho capito che era invece tutto calcolato, tempi e ritmi dei movimenti e delle sonorità vocali e che Adriano, lungi dall’essere un attore dilettante, aveva acquisito un’invidiabile professionalità fra i poeti sonori di tutto il mondo. Ai miei rimproveri per questa manifesta ebbrezza rispondeva mellifluo: “devo pur adeguarmi al mio personaggio.”
Per concludere, torno sulle qualità di attore di Adriano, cui si accenna nella domanda. Anche questo rientrava ovviamente nella concezione del “poeta totale”, da qualcuno definita visionaria, a ciò attribuendo un significato positivo, che mio fratello si era costruito nel tempo. Almeno in un’occasione si cimentò davvero come attore, interpretando il ruolo di Père Ubu, o Roi Ubu, in una rielaborazione del testo di Alfred Jarry allestita in un teatro di Correggio, nel reggiano. Per quella recita Adriano si era fatto stampare sulla sua solita maglietta bianca, solcata dalle bretelle, il simbolo della patafisica: la famosa spirale sulla ventripotenza di Ubu. Chi meglio di lui poteva calarsi in quel ruolo?