Hanno nomi un po’ stranieri, racconto di Marisa Cecchetti

Hanno nomi un po’ stranieri

racconto di Marisa Cecchetti

                

Ho cambiato casacca. No, non ho cambiato partito, come si potrebbe metaforicamente confessare, eppure ho cambiato parrocchia. E non ho nemmeno traslocato, come si potrebbe dedurre. Stessa residenza da più di trent’anni. Allora frequento una chiesa diversa? Nienteaffatto.
Eppure l’ho cambiata.

Sono arrivata a CP che pioveva forte. Ci vediamo davanti alla chiesa, mi aveva detto. Chi? Niente attese sentimentali. Un’amica.
Parcheggio subito nella zona sbagliata, lei gentilmente me lo fa notare che sono in mezzo ad un passo pedonale. Riavvio il motore. Piove che non ci si vede. Ma venendo ho sbirciato un parcheggio vicino. Riesco a fare retromarcia e mi metto in uno spazio largo come un campo di calcio e semivuoto. Scendo.
Cigola un cancello, siamo davanti ad un portoncino chiuso e bussiamo. Arriva una giovane donna che ci introduce nei locali della parrocchia. Dovrebbe essere l’oratorio, credo. Odori lo caratterizzano, gli stessi di tutti gli oratori, di chiuso, di umido, di buio, di triste. Oggi anche un odore di grigio acquoso e ghiacciato costante.
Stringo il mantello caldo sopra il piumino, che mi aderisca al corpo, che il ghiaccio non passi attraverso. Mi calco il cappello fino sotto le orecchie.
Piacere.
Piacere. Il mio nome, il loro. Conosco persone. Donne giovani. Volontarie. So già che dimenticherò i nomi, come succede sempre, mi ci vuole tempo, non succede mai che li impari la prima volta, a meno che non siano così particolari da bucare la memoria.
Nella prima stanza ci sono tavoli ravvicinati e una torta casareccia imbiancata di vaniglia, bicchieri di carta e tovaglioli.
Intanto si sente il ronzio della caldaia. E’ partita, commenta qualcuno. Io spero che faccia presto a scaldare.
Che cosa ci sto a fare nei locali di questa parrocchia? Non è la prima volta che mi capita. L’ho già tradita, la mia, per tre estati di seguito qualche anno fa.
Lo faresti teatro in estate per i ragazzi dell’oratorio? mi aveva chiesto un sacerdote amico di famiglia. E potresti portare in scena Il piccolo principe?
Eccome! Era proprio quello che aspettavo! Ma come rifiutare, lui lo sapeva bene di colpire nel classico tallone d’Achille, perché quel libro in casa mia ci sta legato al cuore.
Perché no allora? E sono stati tre anni belli e faticosissimi, col gruppo che mi cresceva intorno come una nidiata di pulcini autoriproducentesi.

Invece a CP sono venuta per un’altra ragione. La mamme!
Arrivano con i bambini, la merenda è pronta. I piccoli si lasciano servire con occhi brillanti ma senza mostrare segno di impazienza.
Sì, sì, le mani me le sono lavate!
Sono cinque. Alcuni sono assenti oggi. Hanno nomi un po’ stranieri, musulmani per la maggior parte. Suonano dolci e armoniosi.
Anche le mamme dovrebbero essere cinque, forse sei.

Io sto con le mamme.
Osservano i bambini che fanno merenda, quelle che si conoscono parlottano un po’ tra loro, qualcuna è isolata. Qualcuna sorride. Qualcuna sta seria.
Ho preparato in una stanzina appartata cinque quaderni, cinque matite, una gomma da cancellare, ho appiccicato ad una lavagnetta di legno un grande cartoncino giallo. Ho tirato fuori un bel pennarello nero ed un elenco di parole che iniziano con la lettera A. Non ho mai insegnato a leggere e scrivere, se si eccettuano i ragazzi di lingua araba e albanese che mi sono capitati in classe senza sapere una parola di Italiano, e allora li mettevo in un banchino a parte e mettevo sul banco una mela, una pera, una penna, un’oca… partivo da casa con la borsa piena di oggetti, chiedevo che disegnassero e che ricopiassero le parole. Mi dividevo tra loro- che mi dicevano la fame con un gesto della mano allo stomaco- e la classe. Scuole medie.
Penso a come ho imparato io a scrivere, ma sono metodi superati, antichi, a come hanno imparato i miei figli. Metodo globale, lo chiamano. Il primo giorno di scuola tornarono con le pagine piene di figure e di parole. Ed io quale metodo devo seguire?

Sono agitata. Non lo sanno. Chissà come si sentono, loro. E soprattutto che cosa si aspettano da me.
Mi avvicino.
Andiamo? Lo dico con il sorriso più grande che posso, cerco di sorridere con tutta me stessa.

Si dispongono lungo i tavoli, sono silenziose e guardinghe, gli occhi tendono al basso. Due posti rimangono vuoti, ma ecco che arriva una carrozzina con un neonato e la sua mamma. Ha occhi nerissimi come i suoi capelli lievemente ondulati. Chissà perché me li immagino coperti da un foulard. Si scusa per il neonato che non sa a chi lasciare. Gli altri, più grandi, stanno facendo i compiti qualche stanza più in là.
C’è posto anche per lui, la rassicuro, abbiamo avuto tutte i bimbi piccoli. E intanto impara l’Italiano.
La vedo sorridere.
Bene.
Ma le altre sono in attesa con gli occhi su di me. La tensione è aria compatta che mi contiene e le contiene.
Partiamo dai nostri nomi, dico. Sarà bene presentarci.
E li scrivo in carattere stampatello sul cartoncino. In cima ho scritto anche il mio.
La mamma col neonato ha qualche difficoltà perché ha un nome lungo e difficile. Scegliamo di usarne solo una parte, che viene semplice.
Bene, dico, e cerchio la lettera A nel primo nome.
Questa è la A. Carattere stampatello. Poi la scriviamo in corsivo…
Sento un brusio di sorrisini. Fermo il pensiero e l’azione. Le guardo e le vedo ad occhi sgranati.
Ma noi sappiamo leggere e scrivere lo stampatello!
Mi avevano detto ben altro. Non lo dico.
Do una virata. Riprogrammarsi. Subito!
Non glielo hanno detto?
Non devo accusare nessuno, c’è molta riservatezza intorno a queste donne.
Allora che cosa posso fare per voi?
Parlare.
Imparare meglio la grammatica e la sintassi.
Parlare.
Dobbiamo trovare un lavoro.
Parlare.
Parlare.

Lei sa l’inglese, maestra?
Sì.
Me lo insegna? Senza l’Inglese non trovo lavoro.
Vediamo, ci provo. Col tempo.
E il tempo è fuggito senza che me ne accorgessi. E’ bella questa nuova casacca.
Abbiamo riso e qualcuna ha pianto, ma solo poco poco…il neonato ha strillato, ha puppato al seno pesante della mamma, poi si è calmato. Abbiamo lavorato.

Parlare.
Lei è buona, maestra.
Si vede che ha il cuore buono.
Mi sento imbarazzata.
Non lo so se ho il cuore buono.
Vorrei dire che se è così è un dono di Dio ma poi penso che sono difronte a donne musulmane.
Grazie a Dio ed Allah.
Lo dico a voce alta. Ridono.

         

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opera di Maurizio Caruso

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