La rubrica di Lol Von Stein: rapimenti. Borges.
Borges. Perché qualcuno un giorno mi disse: non ha mai vinto il Nobel – non lo vincerà mai.
E lo disse con uno strano moto d’orgoglio.
Borges. Perché se dovessi scegliere uno solo – fra tutti – da portare nell’isola deserta – o da lanciare nello spazio interstellare – sarebbe colui che ha scritto ciò che basta per una vita intera.
Ci sono poesie che avrei potuto immaginare di comporre – libri che avrei potuto immaginare di scrivere – se fossi stata meno pigra. Meno vile. Ma neppure una riga di quelle scritte da Borges. Ci sono immensità letterarie inavvicinabili. Perciò vorrei dire qualcosa di diverso dal tutto che è già stato detto, ma la grandezza mi rende timida. Così finisco per balbettare.
Che io Borges (vecchio, completamente cieco, la camminata lenta, la mente splendente, mentre detta i versi a Maria Kodama, allieva e compagna, nelle strade di Istanbul, o nelle campagne irlandesi) – io Borges lo credevo – lo credo – immortale.
Semplicemente, per un incauto slittamento spazio-temporale, è finito nell’universo a fianco.
Dimenticando qui le sue parole.
Rileggere Borges è riconoscere la lucidità dello stoico, la pacata accettazione di tutte le contraddizioni, il carico di una sapienza unica, quasi sovrumana.
Ritrovare la dimensione magica, con un’intensità dimenticata. Il dolore ineluttabile, e una fermezza, una forza inaudita. Percepire una vertigine, fingere che l’infinito si apra sotto i piedi.
Tornare a Borges è vivere un’ultima, essenziale, illusione.
Tornare a casa. Essere salvi.
La felicità
Chi abbraccia una donna è Adamo. La donna è Eva.
Tutto accade per la prima volta.
Ho visto una cosa bianca in cielo. Mi dicono che è la luna, ma
che posso fare con una parola e con una mitologia?
Gli alberi mi fanno un poco paura. Sono così belli.
I tranquilli animali si avvicinano perché io gli dica il loro nome.
I libri della biblioteca sono senza lettere. Se li apro appaiono.
Sfogliando l’Atlante progetto la forma di Sumatra.
Chi accende un fiammifero al buio sta inventando il fuoco.
Nello specchio c’è un altro che spia.
Chi guarda il mare vede l’Inghilterra.
Chi pronuncia un verso di Liliencron partecipa alla battaglia.
Ho sognato Cartagine e le legioni che desolarono Cartagine.
Ho sognato la spada e la bilancia.
Sia lodato l’amore in cui non ci sono né possessore né posseduta, ma in cui entrambi si donano.
Sia lodato l’incubo che ci rivela che possiamo creare l’Inferno.
Chi si bagna in un fiume si bagna nel Gange.
Chi guarda una clessidra vede la dissoluzione di un impero.
Chi maneggia un pugnale prevede la morte di Cesare.
Chi dorme è tutti gli uomini.
Ho visto nel deserto la giovane Sfinge appena scolpita.
Non c’è nulla di antico sotto il sole.
Tutto accade per la prima volta, ma in un modo eterno.
Chi legge le mie parole sta inventandole.
Jorge Luis Borges
A 70 anni, nel prologo a “L’oro delle Tigri” Borges scrive:
“All’origine dei tempi, così docile alla vaga speculazione e alle inappellabili cosmogonie, forse non c’erano cose poetiche o prosaiche. Tutto doveva essere un poco magico. Thor non era il dio del tuono; era il tuono e il dio.
Per un vero poeta, ogni momento della vita, ogni fatto, dovrebbe essere poetico, visto che nel profondo magico è.”
E 9 anni dopo, in un altro prologo (“La cifra”):
“L’esercizio della letteratura può insegnarci a evitare equivoci, non a fare scoperte. Ci rivela le nostre impossibilità, i nostri severi limiti. Alla fine degli anni ho compreso che mi è vietato sperimentare la cadenza magica, la curiosa metafora, l’interiezione, l’opera sapientemente elaborata o di lungo respiro. Mi è stata destinata quella che suole chiamarsi poesia intellettuale. L’espressione è quasi un ossimoro; l’intelletto (la veglia) pensa mediante astrazioni, la poesia (il sogno) mediante immagini, miti o favole. La poesia intellettuale deve intrecciare gradevolmente questi due processi.”