Rapimenti, la rubrica di Lol Von Stein: Vladimir Majakowskij.
Potenza delle immagini. Majakowskij mi è sempre sembrato irresistibile nella foto che lo ritrae giovane, imbronciato. Ribelle – non per posa.
Rimanda al tempo delle decisioni, degli schieramenti, delle rivoluzioni.
Un tempo impavido.
Con Majakowskij il personale diventa – per la prima volta – politico. Con passione, con enfasi, strappa la poesia ai poeti ammuffiti. Avanza, ineluttabilmente, sporcando le mani e i versi. Non è un fuggitivo. E’ un insorto. Non cerca rifugi per un ego debole. E’ esaltato, sopra le righe. Scrive del popolo, per il popolo (!). Incita alla rivolta. Rivendica il futuro.
Il vivo e il morto (e viceversa)
27 dicembre 1925. Leningrado. Hotel “Angleterre”.
Sergèj Aleksandrovic Esènin, poco più che trentenne, si impicca al tubo del calorifero. Le quartine le scrive col sangue.
“In questa vita morire non è nuovo, ma nuovo non è neppure vivere”.
Alla morte del teppista ubriacone, bohemien per eccellenza, Majakowskij comincia a scrivere la sua dedica. Impiega quasi tre mesi per completarla.
Non è un’elegia. E’ a volte un’invettiva. Lo sgomento trasformato in ironia. Il dolore in sberleffo.
Si prende gioco degli emuli, delle lacrime ipocrite. Sbeffeggia i poetucoli.
Finchè, incalzato dai versi caustici, Esenin sembra tornare vivo, rianimarsi.
Majakowskij lo incalza. Chiede perché. Lo accusa di aver fatto una pazzia. Di aver scelto una scorciatoia. Ribadisce, con la sua solita foga, che la scelta più difficile, la più coraggiosa, è sempre la vita.
4 anni dopo, finirà col prendere la stessa decisione.
Saranno state le delusioni, l’amarezza, l’amore.
O semplicemente ci sono poeti che scelgono le proprie parole, la propria vita.
E la propria morte.
***
A Sergèj Esenin
Voi ve ne siete andato,
come suol dirsi,
all’altro mondo.
Il vuoto…
Volate,
fendendo le stelle.
Senza un acconto,
senza libagioni.
Sobrietà.
No, Esènin,
questo
non è dileggio, –
in gola
ho un groppo di pena,
non un ghigno.
Vedo
che con la mano recisa, esitando,
dondolate il sacco
delle vostre
ossa.
Smettetela,
cessate!
Siete matto?
Lasciarsi
imbiancare
le guance
dal gesso mortale?
Proprio
voi che
sapevate sbizzarrirvi,
come nessun altro
a questo
mondo.
Perché,
a che scopo?
L’incertezza ha provocato scompiglio.
I critici borbottano:
«Le cause
sono queste
e quelle,
e in specie
lo scarso affratellamento
per effetto
della molta birra e del molto vino».
Si dice
che se aveste sostituito
la bohème
con la classe,
la classe avrebbe influito su di voi
e non vi sareste più accapigliato.
Già, come se la classe
spegnesse la sete
col «kvas».
La classe
anche lei
non scherza nel bere.
Si dice
che, a mettervi accanto
qualcuno di «Na postù»,
sareste diventato
assai più bravo
nel contenuto:
voi
avreste scritto
al giorno
centinaia di versi
stucchevoli
e lungagginosi,
come Dorònin.
Ma, a parer mio,
se si fosse avverata
una tale incongruenza
vi sareste soppresso
ancor prima.
Meglio infatti
morire di vodka
che di tedio!
A noi
non sveleranno
i motivi della perdita
né il cappio
né il temperino.
Forse,
ci fosse stato
inchiostro all’«Angleterre»,
non avreste avuto ragione
di tagliarvi
le vene.
Gli epigoni si rallegrarono:
«Imitiamolo!»
Poco mancò
che un drappello di loro
non facesse di sé giustizia.
Perché
aumentare
il numero dei suicidi?
Meglio
accrescere
la produzione d’inchiostro!
Ora
per sempre
la lingua
è chiusa tra i denti.
È inopportuno
e penoso
coltivare misteri.
Il popolo,
creatore del linguaggio,
ha perduto
un roboante
sbornione apprendista.
E c’è già chi porta
rottami di versi in suffragio
da precedenti
esequie,
quasi senza rifarli.
Nel tumulo
conficcano
pali di ottuse rime, –
è così
che bisogna onorare
un poeta?
Per voi non è stato sinora
fuso alcun monumento
– dov’è
il bronzo squillante
o il granito a faccette? –
e già ai cancelli della memoria
poco per volta
hanno ammucchiato
le ciarpe delle dediche
e delle ricordanze.
Il vostro nome
nei fazzolettini è moccicato,
Sobinov sbava
la vostra parola
e canticchia
sotto una betullina stenta:
«O amico mio, né un motto
né un so-o-o-spir».
Eh,
poter discorrere altrimenti
con codesto
Leonìd Lohengrìnyč!
Potersi qui levare,
tonante attaccabrighe:
«Non vi permetto
di cincischiare
i miei versi!»
Poterli
assordare
con un fischio a tre dita
contro la nonna
e Dio, la madre, l’anima!
Perché si disperda
l’inetta marmaglia,
gonfiando
come vele
un nuvolo di giacche,
perché
alla spicciolata
Kògan se la batta,
storpiando
i passanti
con le picche dei baffi.
Finora
il canagliume
s’è poco diradato.
Molto è il lavoro,
occorre fare in tempo.
Bisogna
dapprima
trasformare la vita
e, trasformata,
si potrà esaltarla.
Quest’epoca
è difficiletta per la penna.
Ma ditemi
voi,
sciancati e sciancate,
dove,
quando,
qual grande si è scelto
una strada
più battuta
e più facile?
La parola
è un condottiero
della forza umana.
March!
Che il tempo
esploda dietro a noi
come una selva di proiettili.
Ai vecchi giorni
il vento
riporti
solo un garbuglio di capelli.
Per l’allegria
il pianeta nostro
è poco attrezzato.
Bisogna
strappare
la gioia
ai giorni futuri.
In questa vita
non è difficile morire.
Vivere
è di gran lunga più difficile.