Realtà amplificata e realtà amputata: percezione e comunicazione oltre i nuovi media.
Intervista a FEDERICO MONTANARI,
di Virginia Farina
Assistiamo ormai da diversi anni a una proliferazione di informazioni e di fonti di informazione, a un eccesso di comunicazione che finisce per assomigliare terribilmente alla sua mancanza, con l’effetto di un ritorno a un analfabetismo informativo: credi che questa tendenza continuerà a lungo o che arriveremo a una sorta di saturazione che ci consentirà di ritrovare punti più definiti di riferimento?
Indubbiamente negli ultimi anni ci troviamo di fronte a questa situazione di eccesso di informazione, o di saturazione comunicativa. Situazione, peraltro, in parte predetta da studiosi della comunicazione che, fin dalle origini di questo campo di ricerche, pensiamo a studiosi come McLuhan, già nel secolo scorso, sin dagli anni ’50, ’60, avevano anticipato questo tipo di fenomeni. E c’è qui un punto rilevante. McLuhan sosteneva nella sua pionieristica teoria che i media, nascendo, incrociandosi, e soprattutto ibridandosi producono effetti (spesso devastanti) “protesici”: di protesi, vale a dire sia di estensione e “amplificazione” delle nostre capacità percettive, cognitive, di sapere, ma anche di azione; protesi “magnificative”, ma anche (ed è un’idea ripresa in modo molto interessante anche da Umberto Eco, nella sua teoria degli specchi), effetti di protesi “con effetti di amputazione”, o meglio di “atrofizzazione”. Vale a dire, quando usiamo un telefono (pensiamo ai ragazzi) da un lato aumentiamo incredibilmente le nostre capacità di velocità percettiva, di saltare, o meglio “scivolare” da un’immagine ad un’altra, o da una pagina ad un’altra di un social. Ma dall’altro ci “amputiamo” e atrofizziamo altre parti. (Pensiamo all’incapacità di lettura o approfondimento, o la distrazione). Dunque, la cosa secondo me va pensata anche in termini socio-semiotici: in modo anche diverso. Oltre alla “saturazione” avvengono episodi di “amputazione” o atrofizzazioni di parti di realtà. Certo le app per il tracking (o per il trekking…) ci aiutano tantissimo ad andare a fare le passeggiate o i giri in bici (o per un raider per il lavoro) ma appunto, ad esempio, ci fanno concentrare sullo strumento stesso e meno sul percorso. O peggio, ci impongono vincoli e ritmi di lavoro o forme di controllo.
Non credo che arriveremo a “punti di riferimento stabili” né credo ad una sorta di “saturazione definitiva” o ad una palingenesi. Credo che, come è sempre accaduto, l’avvenire dei media e in generale delle forme di comunicazione e di espressione, si sviluppi sia per salti graduali che per rotture rivoluzionarie (pensiamo alla stampa, nel ‘500 che accompagnò sia l’avvento del capitalismo che le rivoluzioni, anche legate alle religioni, pensiamo alla rivoluzione protestante, alle guerre di religione, o alle rivolte e guerre dei contadini; o oggi alla rivoluzione digitale).
Un esempio di forte cambiamento credo possa essere l’evoluzione di internet e delle piattaforme cosiddette social, che da promessa di libertà all’inizio degli anni duemila sono diventati oggi luoghi di condizionamento di massa: credi che ancora questi strumenti possano renderci liberi?
Certo, Internet e poi il Web sono nati e si sono sviluppati a partire, ed accompagnando, grandi promesse di libertà. Poi cosa è successo? Che sono stati via via “riconquistati” (ma questo è un meccanismo tipico delle varie forme di capitalismo) dall’economia e dal mercato. Due filosofi come Deleuze e Guattari avrebbero parlato di forme di “riterritorializzazione”. Che vuol dire quasi un concetto “etologico” (prima ancora che economico o etico). Vale a dire, esistono forme espressive che si “liberano” dei loro contesti originari di azione e producono “linee di fuga” e di libertà (pensiamo anche all’arte o alla poesia). Ma poi vengono “ricatturate” da sistemi o che arrivano dall’esterno o che, altre volte, sono essi stessi prodotti dall’interno di una società – pensiamo al mercato stesso! Prima un mercato è una forma di scambio, poi si generalizza e conquista tutto! Bene, ricordo i primi siti, o il web negli anni ’90: spazi di libertà e di invenzione infinita… Poi arrivano le proposte di “codifica”, o di “gatekeeper” (altro concetto, classico, delle teorie della comunicazione). I “guardiani” che fanno, lavorano per te (i “portali”, ad esempio, ricordiamo queste metafore che sono anche, sempre, oggetti tecnologici e sociali?). Poi arrivano le “pagine personali” (benissimo!) Poi i “blogger” (fantastico, tutti possiamo scrivere diari, ecc…). Poi i “follower”. Infine, gli “influencer”. Non sto, intendiamoci, condannando o demonizzando i social. Sto solo dicendo che bisognerebbe lavorare per inventare nuovi spazi di libertà autonoma: delle bolle (ma non nel senso delle bolle dei social dove ci ritroviamo con quelli con cui ripetiamo sempre le stesse cose), ma delle nuove bolle di esistenza (e assistenza) sociale. Anche sui media. O su nuove forme, mediali o post-mediali.
Proprio in ambito social la diffusione di fake news rende sempre più difficile distinguere le “bufale” dalla reale informazione, soprattutto in quegli ambiti che in modo anche molto interessante si erano fatti portavoce di una controinformazione. Se da una parte diventa così necessario trovare modi di verifica delle fonti, attraverso il lavoro attivo di siti e redazioni come Newsguard, c’è al tempo stesso un forte rischio di censura e controllo dell’informazione stessa. Come pensare a una via di mezzo?
Certo, anche il tema delle fake o, al contrario, della censura sono centrali. Oggi, ma anche qui dovremmo ricordare come, da un lato, le false notizie, le voci ecc., sono sempre esistite nei sistemi di comunicazione e “ai margini” dei media. Pensiamo al famoso studio dello storico Marc Bloch sulla guerra e le false notizie (relativi alla Prima guerra mondiale). O al diffondersi delle notizie e pettegolezzi o false notizie nel medioevo o nella modernità (con esiti spesso tragici, come la caccia alle streghe o le accuse di eresia ecc.). Dunque, non per sminuire la situazione attuale, ma ci sono fenomeni di “contagio” informativo che si presentano nelle forme culturali e spesso, “ai bordi” dei sistemi di comunicazione mediale. Quello che accade oggi è una sorta di “tecnologizzazione” o meglio di “gestione tecnologica” e “organizzazione” e “programmazione a tavolino” di questi meccanismi. E naturalmente la loro “spreadability” (diffusione) su scale planetarie, inimmaginabili prima. E infine la loro velocità di diffusione, oggi istantanea. Dunque, il problema è la loro analisi e gestione critica. Pensiamo al caso Bucha, del massacro compiuto dai soldati russi nelle prime fasi della guerra in Ucraina. E dove un’intera equipe internazionale di investigatori e di giornalisti (con tutte le analisi delle immagini, del loro geo-posizionamento, ecc.) ha dovuto lavorare per smontare l’effetto nebbia. In questo caso non si trattava tanto di “fake news” ma di tentativo di far apparire come fake un massacro. O il caso della censura, forse ancora più complesso… oggi si potrebbe dire che, certo, la censura non va mai bene. Ma cosa succede quando si tratta di bloccare notizie “tossiche” o che attaccano persone, o istituzioni? (Ricordiamo tanti casi recenti). Si è aperto un campo enorme (fra debunking, spesso deficitario, manipolazione e contro-manipolazione). Non c’è chiaramente una soluzione fissa. E il rischio è che qualche autorità “superiore” (o peggio, economica, vedi il caso di Zuckerberg con Facebook o di Musk) si assuma il diritto o il privilegio di bloccare o liberare a proprio piacimento le informazioni. Il tema è allora costruire, forse, delle nuove pratiche, e, al contempo, delle nuove istituzioni (forse nuove forme di tribunale? Anche se il termine può non essere quello giusto e fare storcere il naso a qualcuno, per l’idea non tanto di giustizia ma di sanzione) che sappiano vagliare o valutare. In ogni caso si tratta di spingere per le buone pratiche del controllo incrociato, dello smontaggio, e soprattutto di una pratica culturale che andrebbe appresa sin dalla scuola, di nuove capacità di cultura critica e di nuova analisi della comunicazione.
C’è un rapporto profondissimo, come i semiologi, i sociologi e gli antropologi ci mostrano da decenni, tra informazione e credenze: crediamo a ciò che ci viene detto da coloro che “ci somigliano” e di cui condividiamo un sapere di base che costituisce una sorta di patto di fiducia, che va oltre l’oggettività dell’informazione: la comunicazione è, dunque, sempre anche relazione?
Sì, anche questo è un punto fondamentale, per me; il rapporto fra adesione a certe forme del credere, e verità; il patto comunicativo e di fiducia è fondamentale. Ma spesso è opaco! Vale a dire, se tu stai sui social, il patto può sembrare quello dello “scambio paritario” o l’illusione di essere tutti “comunicatori” e “prosumer” (come si usa dire da qualche tempo). Ma poi, sotto sotto, i meccanismi della promessa/minaccia (promessa o minaccia economica sociale, anche solo dell’esclusione o di non “poter far parte di”) o anche dell’auto-inganno (illudersi che qualcosa è buono o vantaggioso) possono prevalere. O, ancora, per arrivare all’oggi, pensiamo all’avvento di una società della comunicazione governata attraverso algoritmi e delle piattaforme, che rendono automatici, generalizzati e codificati quegli stessi meccanismi. Oggi questo tipo di “somiglianza” viene spesso auto-costruita a tavolino dagli algoritmi stessi. Siamo di fronte non più solo ad una società “mediata” comunicativamente, ma che viene “mimata” e “anticipata” dagli algoritmi, e dai sistemi di dati e dalle piattaforme stesse. E che al contempo attivano continue pratiche di stimolazione, di continuo “incentivo” o di “addiction” alla comunicazione; a fare o a voler fare quello che crediamo sia giusto o “naturale”, ma che oramai ci viene proposto come forme di “anticipazione” dei nostri stessi desideri e gusti.
Dalla responsabilità della scelta al diritto all’opinione: che cittadinanza consapevole possiamo agire attraverso la nostra informazione (attiva e passiva)?
Anche di questo punto credo che in parte abbiamo anticipato qualcosa sopra. Dicevo: nuove forme di lettura critica dei dati, delle informazioni, delle notizie. Non più solo la sempre valida “lettura analitico-critica dei giornali” e dei media, come era stata proposta dallo stesso Eco (la sua idea di “lettura critica” o “aberrante” e trasversale, attraverso la famosa guerriglia semiologica); ma anche diffusione delle capacità di smontaggio e rimontaggio dei flussi informativi, delle loro fonti (ricordandoci che oggi essi sono sempre più molteplici, sovrapponibili, smontabili e rimontabili, e sempre più multi-stratificati). La responsabilità non è qualcosa “in sé”. Già nel ‘600, e poi nel ‘700, i filosofi, ben prima di Kant, con Spinoza, Locke e poi Hume, si chiedevano se e come le forme di credenza dell’opinione si costituissero nelle teste delle persone o nelle forme dell’esperienza comune e sociale. Bene, le risposte più interessanti erano, secondo me, quelle che affermavano che se i governi, per quanto autoritari, si basano sulle opinioni pubbliche e sociali, queste ultime si costituiscono a partire da forme di comunicazione del credere, delle passioni e dei sentimenti. Ma allora in cosa consiste il potere di produrre le forme del credere? Nell’abituarsi, e abituare, a credere e a sentire. Dunque, nelle forme dell’abitudine, diceva Hume. Dunque, come lavorare sulle abitudini? E sulle credenze e desideri? Come sensibilizzarci di nuovo, oggi, e non solo subire l’abitudine.
Educazione alla comunicazione: si cita spesso l’esempio della Finlandia che dal dopoguerra ha introdotto lo studio dei processi comunicativi tra le materie scolastiche. Credi sia possibile immaginare questi percorsi anche da noi? Può essere l’educazione una via per rinnovare l’informazione?
Questo tema si ricollega in parte a quanto si diceva sopra, sulla questione del “diritto all’opinione”. Diritto che non parte dal nulla, ma appunto dall’educazione. Questione fondamentale: assolutamente sì! Si tratta di inventare una nuova consapevolezza alla lettura e analisi dei processi comunicativi, che sono sempre multipli e stratificati. Ma, appunto, hanno perfettamente ragione in Finlandia: questo deve diventare oggetto di studio e lavoro nelle classi e nelle scuole. Alcune cose le stanno già facendo, da tempo, gli insegnanti, talvolta in maniera anche volontaristica, talvolta in modo più sistematico. Ma, purtroppo, anche loro hanno bisogno di continui aggiornamenti e forme di supporto. Vedi il caso del dibattito sul divieto di uso dei telefoni in classe. Mi pare evidente che i telefoni rappresentano un problema. Ma è anche evidente che affrontare la cosa in questo modo, lasciando la questione fuori dalle scuole è una risposta aberrante e demagogica. Bisognerebbe fare, non tanto, o non solo, corsi “con” i telefonini (come proponeva di recente un’insegnante di letteratura, e forse aveva anche ragione) ma anche “sui telefoni e smartphones”. Non è solo questione di “tecnologia informatica”. Ma di smontare il senso sociale di queste tecnologie. Un po’ vedo, lo ripeto, che accade, talvolta, nelle università o nelle scuole. Ma la cosa andrebbe approfondita e resa sistematica. Ad esempio, si tratta di lavorare assieme sui legami fra la dimensione percettivo-affettiva quotidiana, degli oggetti tecnologici, e il loro essere porta di accesso non più solo alle informazioni ma ad interi mondi paralleli (e senza nemmeno pensare al “Metaverso”, sempre se esso avrà un qualche successo). Ma, al contempo, pur lottando contro il conformismo tecnologico, bisognerebbe evitare di ricadere in forme di paternalismo vecchio stile. Dato che poi i ragazzi più giovani sono spesso estremamente consapevoli (oltre che competenti) sull’uso delle tecnologie. Il problema è sempre quello: cercare di pensare ad uno sguardo, né troppo vicino, né troppo lontano. Imparare, assieme, a osservare in modo, forse, allo stesso tempo, più ironico e più distaccato. Far sì che ci siano corsi di coding nelle scuole, ma al tempo stesso, portare a far discutere i ragazzi e ragazze, le persone sul fatto che i dati e le tecnologie non sono mai neutri. Sono carichi di teoria, come diceva un filosofo, ma anche di politica e di società. (Le “vecchie” domande, ma trasformate e dilatate: chi li produce, con quali mezzi, con quali effetti, con quali scopi, per chi? Cosa potrà accadere?)
Le parole della guerra e della pace: perché da vent’anni continuiamo a credere a missioni armate per la pace? Cosa non sta funzionando nella comunicazione pacifista?
In realtà, forse bisognerebbe prima rispondere ad un’altra domanda, ben più ampia e direi più antropologica: perché torna la guerra? E quale è il suo legame con le forme della comunicazione? Ma la guerra se ne è mai veramente andata? Certo, dal punto di vista eurocentrico potremmo dire che siamo “quasi” rimasti in pace per molto più di mezzo secolo, in Europa… Appunto, l’Europa. Ma, intanto, certo non nel resto del mondo. Inoltre, non è nemmeno vero questo. Basti ricordare l’orrore delle guerre etnico-civili della ex Jugoslavia, solo vent’anni fa, in piena Europa. O della Cecenia, veri prodromi della attuale aggressione russa all’Ucraina. Certo, si potrebbe replicare che in questo modo, parlando di guerra in senso ampio si rischia di eludere la questione del come costruire un discorso di pace, di come praticare la pace. Credo che invece per parlare di pace, e poi possibilmente fare la pace, bisogna pensare e ragionare sulla guerra. Bisognerebbe forse rifondare la pace, reinventare questa parola (a proposito di parole della pace e della guerra) e non darla per scontata. So che questo oggi può essere difficile e doloroso e aprire discussioni e contraddizioni. Un “vero” pacifista potrebbe rispondere: la pace senza se e senza ma. Tuttavia, oggi non mi pare più possibile porla in questi termini. Forse bisognerebbe pensare, dopo le attuali o recenti esperienze (appunto, dai Balcani alla Ucraina, passando dalla Siria, alle guerre civili africane), non ad un pacifismo ma alle condizioni della pacificazione. Come si difende la pace? A quali condizioni? A quale prezzo? E il nesso pace/libertà? Pace/difesa? Di un popolo, di un territorio? Per alcuni è ancora quasi scontato. Pace a tutti i costi. Ma prendiamo allora gli esempi più recente e tragici dell’Ucraina o sella Siria. Anche il “popolo della pace”, diciamo, chi si era visto in passato a lottare per la pace, ora, perlomeno in parte, si ritrova diviso sul tema delle armi, della difesa dell’Ucraina. Ma i Curdi del Rojava? Hanno lottato armati contro l’ISIS. Loro combattevano per la loro libertà e per proteggere anche “noi” dal Califfato. Vediamo quali contraddizioni vengono fuori. Spesso facciamo fare la guerra agli altri in cambio della nostra pace. Si dice, riguardo all’Ucraina, ah ma perché in realtà la Nato ha soffiato sul fuoco, ha cercato di espandersi verso Est. Ma qual era il sentire comune di chi viveva in quei paesi? Certo, le persone vogliono vivere in pace. E, certo, spesso i politici (o chi ha il potere, pensiamo agli oligarchi, o i mercanti d’armi) hanno interesse o vantaggio a fare la guerra. Ma il tema, ripeto, per quanto difficile, è capire le condizioni dell’emergere della guerra. Lanciare allarmi per tempo, favorire mobilitazioni in anticipo. Ricominciare però anche a ragionare sulle forme della difesa e della prevenzione dalla violenza e dalle possibili aggressioni. Anche da “sinistra” e dal punto di vista di chi crede nella pace. Ricordo che la grande filosofa Simone Weil, pacifista e libertaria, si unì (seppure come volontaria e non combattente) alle brigate internazionali antifasciste nella guerra civile spagnola. E poi all’indomani dell’invasione hitleriana della Francia, propose di aprire un ragionamento non sulla resa ma su come combattere l’aggressore, inventando certo anche altri mezzi, oltre a quelli tradizionali. O che un grande pacifista ed ecologista come Alex Langer, pensava a corpi di pace per la ex-Jugoslavia, e non escludeva la possibilità di un intervento armato per fermare la guerra. Forse, bisognerebbe allora pensare non solo alle “parole della pace e della guerra”, per tornare alle domande qui poste, ma alla sintassi, alla grammatica delle guerre e delle paci. Quali regole entrano in gioco. E come si contiene la guerra, la violenza. Come la si “gestisce”, dal lato pacifista, o meglio, di “fondazione pacifica” (qualcuno, uno studioso come Paolo Fabbri, aveva detto “pacifondaio” e non “paciosi” contro i “guerrafondai”). Certo, poi si tratta anche di ragionare sul fatto che in questi ultimi decenni si siano imposte visioni egemoniche (l’idea di una Democrazia e di una “Pace” imposte “dall’alto” da un Occidente e dagli Usa, che si sono imposti come unico attore, egemone, appunto); e di qui anche l’idea di “spedizioni” più o meno umanitarie, o appunto “spedizioni armate”; ma qui entra in gioco anche il tema degli strumenti di intervento e di controllo (l’Onu, oggi, fra l’altro completamente annichilito, per quanto riguarda la guerra in Ucraina). Dunque, credo, sia necessario un ripensamento da parte soprattutto dei veri pacifisti, degli strumenti e condizioni del “pensare la guerra per preparare la pace”. Certo oggi, nelle condizioni tragiche e urgenti in cui ci troviamo, di una “guerra mondiale a pezzi”, come dice anche il Papa, è ancora più difficile, sia a dirsi che a farsi.
Un’ultima domanda, visto che il nostro dialogo nasce per una fanzine che si occupa di arte e letteratura: che ruolo può avere la poesia, intesa come pratica d’avanguardia del linguaggio attraverso una sua continua risignificazione e rimessa in discussione?
L’arte ha sicuramente questo ruolo di “risignificare”, di costruire altri, nuovi, percorsi di senso, anche a partire dai media e dalla comunicazione. Ma aggiungerei un altro punto, che mi pare tipico delle forme di arte contemporanea (sia visive che audiovisive, e rimetterei dentro anche in generale il rapporto con la poesia, nella sperimentazione dei linguaggi). Quello della capacità degli artisti di costruire dei veri e proprio laboratori di sperimentazione percettiva. Quasi si trattasse di scienziati (e un po’ come forse, per tornare al ‘500 o ai primi del ‘600, prima che si verificasse la progressiva “grande cesura” fra arti e scienze? O forse, per certi versi, questa rottura non è mai davvero del tutto avvenuta…) In questi laboratori, certo, dicevo, si sperimentano nuovi linguaggi, ma direi che si inventano soprattutto nuovi modi di vedere di “guardare e osservare il mondo” (per dirla con Goodman). Nuovi strumenti di osservazione: nuovi osservatori, prospettive e punti di vista. Per illuminare e osservare da altri lati, imprevisti, gli oggetti e le cose, e gli stessi linguaggi, di questo mondo. Per citare ancora Deleuze, che riprende Proust, laddove lo scrittore affermava che la Recherche era un telescopio e forse anche un microscopio, per vedere attraverso, oltre che costruire i mondi che lo circondavano. E per poi attraversare con le loro percezioni e sensazioni questi nuovi mondi immaginati. Come se si trattasse di un viaggio in territori stranieri. E “in una lingua straniera”, diceva il filosofo.
Federico Montanari, semiologo e sociologo, è professore di sociologia della cultura e comunicazione e di studi visivi all’università di Modena e Reggio Emilia. Si occupa soprattutto di temi relativi alle forme dei conflitti e alle guerre in rapporto ai media e alla comunicazione, e alle loro rappresentazioni visive ed estetiche. Più di recente anche del rapporto fra tecnologie e temi relativi all’ambiente e agli spazi urbani. Su questi argomenti ha scritto diversi saggi.
Appena conosciuto Fanzine gia` trovo spunti di riflessione estremamente stimolanti. E` un dato di fatto che contenuti innovativi densi di significato perdono col tempo il loro impatto emotivo, vengono per cosi` dire digeriti dalla collettivita`: il mito rivoluzionario di Che Guevara diventa una foto stampata sulle magliette in vendita nei mercatini, tutto sembra destinato prima o poi ad alimentare i giri di affari; del resto l’unica (che mi risulti) volta che Gesu` ha perso le staffe non e` stato proprio coi mercanti del Tempio ? E, restando nel tema evangelico, la drammatica appropriatezza della domanda di Pilato: cos’e` la Verita` ? A chi dobbiamo credere ? Il meglio sarebbe passare dal percepire al sapere senza passare per il credere ! Sono infatti critico con questa comunicazione a proposito di Bucha: come si fa a sapere di non essere vittime noi stessi di manipolazione propagandistica nel momento in cui accusiamo altri di cio` ? Dal momento che ambedue le versioni poggiano su valide ragioni, dovremmo poter contare su giornalisti e detective esenti da ogni pregiudizio e interesse: ce ne sono ? E delle sentenze dele stesse corti penali, dovremmo fidarci ? soprattutto alla luce della constatazione che a distanza di anni tali sentenze vengono spesso ribaltate ?