Corpo della gioventù di Alessandra Corbetta, recensione di Giuseppe Martella

Fra due spazi: il Corpo della gioventù di Alessandra Corbetta, Puntoacapo Editrice, 2019. Recensione di Giuseppe Martella

 

        

Quando si prende in mano questo libriccino, si ha il timore quasi di non volerlo gualcire, tanto è esile al tatto e delicato nel presentimento che suscita la sua prima lettura. Ma poi, anche, pare che scotti fra le dita o tagli come una lama incandescente. Per chi conosce, anche solo sui social, o ha incrociato di passaggio Alessandra Corbetta in qualche reading, il titolo poi non può fare a meno di evocare il bel corpo snello e nervoso dell’autrice, il suo sguardo saettante e malinconico a un tempo. Perché anche di questo si tratta qui ovviamente, di un corpo giovane e leggiadro calato in uno spazio ambiguo, spesato tra realtà e simulazione. Su tale spaesamento insistono le note e la postfazione al testo, e sul senso di transitorietà e incompletezza esistenziale che risulta quasi palpabile nello sfogliare queste pagine. Se poi, come è accaduto a me, capita di imbattersi nella bella recensione che ne fa Davide Rondoni su Clandestino, si apprende che l’io poetico qui fa da catalizzatore di questioni che ci riguardano tutti a prescindere dalla età anagrafica e dalla appartenenza di genere.

Ma allora dobbiamo chiederci anzitutto “a chi appartiene questo corpo della gioventù, a chi si rivolge l’io poetico e da dove, da quale spazio ci interpella, affinché noi, la comunità dei lettori, possiamo cogliere in questo fischio 1 a volte leggermente stridulo o stonato, le valenze di un canto che si fa da qualche parte, malgrado la nostra distrazione e perfino forse contro le intenzioni dell’autrice. Perché c’è in Alessandra Corbetta una sorta di tensione occulta tra l’afflato del nuovo che la investe e la nostalgia di luoghi (topoi) e modi (generi e figure) del discorso letterario che le sono più consueti. C’è in questo testo una tensione irrisolta, generatrice, tra lo spazio virtuale in cui la poeta è solita operare (per inclinazione, pratica, curriculum di studi) e lo spazio di carta in cui si deposita infine il suo travaglio. Tra l’immaginario intermediale che le è più consono e la figurazione letteraria che ancora ne domina il fare poetico. Il disagio esistenziale di cui qui si tratta, oltre che da un conflitto di sentimenti e di ragioni dipende allora qui, mi pare, da una lotta tra schemi percettivi e artifici compositivi. Il fare artistico si colloca cioè in uno spazio intermedio tra quello effimero e virtuale dei social e dei videogiochi, e quello più protetto e imbalsamato del libro, della letteratura. Di ciò è ad esempio testimonianza irrefutabile, a mio avviso, la contrapposizione, che assume un valore emblematico per l’intera raccolta, fra due intagli iniziali, l’omaggio a Milo de Angelis (13), dove il gesto atletico e l’impasse esistenziale della Donatella sono mirabilmente freddati in una dimensione che è fuori dal tempo, all’incrocio di sguardi che non appartengono a nessuno ma autonomamente scavalcano la cronaca e la storia, in un magato equilibrio tra parole e cose: “Così, in questo passo fatto a mani giunte,/le periferie sono state scavalcate e/le scarpe inchiodate di Donata/sono potute rimanere sui gradoni dell’Arena/a penzoloni di parole esagerate/…[perché] anche lei cammina in bilico/tra sasso e poesia.” (13) E si confronti questo freezing letterario-esistenziale del “corpo della gioventù” con la scena seguente della sala giochi dove tutto è in pieno divenire, per quanto sotto il dominio del caso e dei simulacri della merce: “La signora della sala giochi/ha il corpo sformato/come le sagome delle nuvole/sbirciate in coppia dalle spiagge/…se spari e colpisci ti dà un premiol’addio è solo una partita/che ricomincia.” (16) Da una parte dunque l’icona letteraria perfetta e anchilosata, dall’altra l’informe, cangiante figura della tenutaria della sala giochi, vestale della simulazione e dell’azzardo intermediale. In questa opposizione quasi archetipica si può già cogliere la tensione (tra omaggio e oltraggio alla letteratura, tra epigramma e programma di scena) che regge l’intero impianto della raccolta. In cui domina il grande filone del transito, del passaggio, dell’azzardo, con una marcata ,costante connotazione nostalgica, come si confessa nella surreale scenografia di “Blu”: “Dicono che la nostalgia mi appartenga/come l’esile equilibrio del fenicottero,/sicuro su una gamba sola.”(17) E dove il ruolo preminente del caso riceve un riconoscimento che è quasi confessione, quasi carità: “ha prezzo/il lancio folle della moneta,/caduta a terra/nel cappello del mendicante.”(17) In questo filone si snoda poi tutta una galleria di passaggi e scambi, stazioni e traversie, a sostanziare in dettaglio il tema dominate della transitorietà. Fessure e battenti, semafori e passaggi che culminano ovviamente in quel “passaggio/obbligato di gioventù” (36) che costituisce il nocciolo drammatico della silloge.  Questo tema della transizione si compenetra poi quasi inevitabilmente con quello dello spaesamento e dell’angoscia: “Sono deserta/in questo posto che non mi attraversa”, col conseguente desiderio di regressione all’infanzia: “quanto ero vecchia/a non voler crescere,/a voler restar bambina.” (54) Si tratta di una bambina però che in ciascun “rito di passaggio” è ben consapevole di dover “scavalcare il suo tempo.” (55) Conscia cioè della sfida decisiva che la attende nel suo “passaggio di gioventù” che è anche emblema di un passaggio epocale. Si comprende dunque che nella struttura modulare del testo, nell’apparente permutabilità nell’ordine dei suoi componimenti, si cela una intima necessità che spinge verso l’esplosione di un canto inedito e l’annuncio di un mondo nuovo. Un annuncio che è scandito come da un basso continuo che attraversa l’intera raccolta, ma che si fa più insistente nella sezione centrale, “Rintocchi”, dove la voce educata della giovane reporter si carica di una oscura violenza mentre al suo volto angelico si sovrappongono quelli della Matrioska o di Medusa: “dentro una scatola e poi dentro un’altra/come una bambolina mai stanca di aprirsi/e svuotarsi” (33), oppure: “sei il terrore di te stessa, la Medusa/che rende pietra eterna.” (34) Nell’attesa sempre più urgente che il suo “battito/di bacchette perfette di legno” divenga infine “la sola possibile/esplosione del canto” (39). Che in una nuova sinergia della voce, dell’occhio e della mano, cioè, questo angelo di un altro mondo ci apra la consuetudine dello spazio che già abitiamo. 

Mi sembra opportuno che questa mia ipotesi interpretativa rimanga qui solo abbozzata, in sintonia con l’incompiutezza di questo work in progress. Che tale sia l’opera di Alessandra Corbetta, risulta evidente anche solo a una disamina dei titoli delle cinque sezioni che la compongono: “Fessure, Attraverso, Rintocchi, Battenti, Esplosione.Sezioni che si possono attraversare come altrettante installazioni interattive dove tocca al lettore colmare la distanza tra i referenti e persino fissare il metro della propria scansione ritmica. Perché lo spartito di questo testo lascia molto spazio alla libertà dell’interprete e l’ambivalenza metrica in senso stretto qui rinvia quella più profonda dello spazio intermedio di cui dicevo. Così attraversiamo questa serie di microsceneggiature per installazioni multimediali, lasciando ovviamente le nostre tracce biologiche che rapsodicamente formano quel corpo della gioventù che è anche il nostro, spaesato e nostalgico, tra lo spazio letterario e quello mediale. In questa prospettiva si acquietano i nostri dubbi sulla tenuta dell’opera e nascono le nostre più autentiche domande: da dove proviene questa voce a un tempo cristallina e rimediata (cioè passata al vaglio di diversi media)? Qual è la prospettiva iscritta in queste microsceneggiature interattive? Perché a me pare infatti stranamente che il punto di vista più che irradiare dai testi verso il mondo venga da fuori e disegni come una spettrometria di massa nello spazio del libro.  

E tuttavia in questa apertura dell’opera, nella permutabilità virtuale delle sue lessie, nella apparente occasionalità dei singoli componimenti, si avverte ad ogni passo come una crescente gravitazione verso l’esplosione finale del testo in una aureola luminosa di schegge di senso che tutti noi corpi della gioventù dobbiamo ancora imparare a riconoscere. Si avverte il presagio di una irresistibile attrazione verso la materia oscura e ubiqua (alfanumerica) che già costituisce i nove decimi del nostro universo di discorso, e in ciò sta il fascino elusivo del dettato di Alessandra Corbetta che si colloca così in una zona franca rispetto alle consuete antitesi fra parlare e dire, tra voce e segno, nello spazio ancora inesplorato tra i simulacri del videogame, nuovo gioco del mondo, e le rimediazioni della parola che lo nomina. 

Credo che la metafora della installazione interattiva qui sia pertinente perché, più che a cose o eventi storicamente collocati, qui assistiamo a passaggi elusivi come cunicoli spazio temporali, non solo per la messa a tema ma anche per la distanza formale tra i referenti che Tommaso Kemeny ha acutamente notato nella sua introduzione. Una distanza che non è affatto un difetto di struttura quanto piuttosto un tratto saliente di una poetica della alienazione che non è solo genericamente esistenziale ma segna lo scarto fra la galassia di Gutenberg e altri mondi possibili. Qui si tratta di prenderne coscienza fino in fondo, noi lettori e la stessa autrice, la cui Sehnsucht nei confronti della grande tradizione letteraria è parte stessa del suo lutto e della sua malinconia, le cui denegazioni inconsce non a caso si ritrovano al culmine dell’esplosione del suo nuovo mondo (57) dove le tocca vincere la paura dell’ignoto e dell’impuro, poiché la posta in gioco che questo pamphlet incandescente pone a noi lettori e alla sua autrice è quella di accettare la sfida della scrittura contaminata dai passaggi mediali, dai riconoscimenti vocalici, dal copia e incolla, dal pratica del montaggio insomma che a tutti gli effetti sostituisce la scrittura lineare di una volta. In questo orizzonte fluido e ubiquo si comprende meglio il senso di un discorso che è nel contempo trasparente e fragile, vitreo ed esplosivo. E che pone domande radicali. 

Lo si comprende a partire dall’assunto preliminare che questo testo non va valutato in rapporto al sistema letterario odierno (o a quel che ne resta) ma piuttosto al reticolo mediale che lo ospita, e in quest’ottica sorgono subito alcune questioni di semiologia della cultura, come ad esempio: quale conflitto di modelli è sotteso alla distanza tra i referenti del testo? Quale crisi di gerarchie al gioco delle rimozioni e delle reticenze? Quali controculture si agitano sul fondo di questa nostalgia di una dimora perduta, di questa ricerca  di una nuova postura poetica? Quale tipo di spazio interattivo evocano le sue sceneggiature sospese tra prosa e versi? Non è il caso di procedere oltre: a me basta avere indicato qui una cornice di riferimento per quell’interpretazione intermediale dell’opera, che mi sembra la più proficua. 

 

 

in apertura Emiliano Barbieri, Argentina

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