Voci indipendenti: le letture di Paolo Polvani. Rubrica. Barbato, Secco, Del Moro.

Voci indipendenti: le letture di Paolo Polvani. Rubrica. Emilia Barbato, Silvia Secco, Francesca Del Moro.

 

A dispetto di ogni profezia.

Mi capita di imbattermi in articoli in cui si annuncia la morte, senza possibilità di resurrezione, della poesia, o, nei casi meno drammatici, dello stato comatoso in cui versa, della irrimediabile crisi. La poesia versa in uno stato di crisi costituzionale, perenne, perché persegue l’obiettivo impossibile di tradurre la realtà in parole, ed essendo la realtà sempre in movimento, la poesia è costretta a un continuo inseguimento o, nel migliore dei casi, ad anticipare i tempi, nella faticosa ricerca di un equilibrio che sposta il baricentro ogni volta più in là.
A me sembra invece che la poesia non se la passi così male, quanti si cimentano con i versi sono sempre tanti, forse anche troppi, e non è del tutto negativo questo cimento, considerata la possibilità della funzione terapeutica della parola e considerato soprattutto il disagio psichico nel quale annaspiamo tutti. Riviste, iniziative, letture, presentazioni, ora anche grandi giornali che aprono alla poesia, un fermento che non parla di morte né di stato comatoso.
Inoltre è significativo che la varietà delle voci si dispieghi nelle direzioni più differenti. Ed è anche significativo che, almeno a mio parere, le voci più interessanti siano voci femminili.

Mi piacerebbe accennare, seppure in maniera lacunosa e sintetica, agli ultimi libri di tre autrici che testimoniano della originalità delle voci femminili, del livello molto alto cui si è spinta la loro produzione. Pur essendo molto differenti tra loro, tuttavia sono accomunate da alcune caratteristiche: la classificazione anagrafica, che le pone nella fascia tra i quaranta e abbastanza al di sotto dei cinquanta, la loro presenza attiva nel panorama poetico nazionale, l’assoluta indipendenza dei percorsi, l’indubbia qualità, certificata dalla firma di garanzia che accompagna la loro ultima opera.

La prima voce appartiene a Emilia Barbato, autrice di Nature reversibili, edito da LietoColle; Maurizio Cucchi nella prefazione parla di impeccabile compostezza della scrittura e di equilibrio della lingua e della forma. Il tema della raccolta è l’amore, ma un amore che circola nei versi mimetizzato, soltanto accennato in forma di sussurri, di minimi suggerimenti, come se per una predisposizione naturale al pudore fosse preferibile nominarlo il meno possibile, lasciarlo intravedere, indicarlo come sospetto, come traccia celata nelle metafore del vento e dello stormire, metafore sonore che scompigliano, infatti il vento “strilla dal volto/ emaciato di un uomo invisibile”, ed è un mulinello intraducibile sotto le dita. La prima sezione, dedicata appunto al vento, è declinata in maniera assolutamente originale: è il flusso inarrestabile della vita? indice della transitorietà? della irraggiungibilità di sentimenti perfetti? e in quale maniera si collega alla reversibilità delle nature reversibili del titolo? “Cerchi una trappola per addomesticare/ il vento.”

L’andamento dei testi ricorda quello di una partitura musicale, anche i titoli delle quattro sezioni che compongono la raccolta presentano assonanze con gli adagi, i rondò delle sinfonie. Emilia sa scovare la musica segreta che si cela dentro le cose, illumina parole che parlano di lettere che non scriviamo e non leggiamo più, accennano alla voce di ogni oggetto respinto, disegnano in brevi tratti un doloroso epilogo. Pur nella impeccabile compostezza formale, la raccolta è un susseguirsi di acuti che aspirano a una massima discrezione e tuttavia bucano la pagina, fanno sussultare il lettore: Il paradiso/ aggiungo, è in questi giardini/ una pulsazione luminosa – oppure: luccico come in autunno/ nel sole gli alberi alle tre.

Una voce originale che traduce in eleganza gli accadimenti sentimentali, li accende di un fuoco che brucia di tenerezza e sperdimento.

Celesti e così prossimi
alle tue mani, un calice di vino,
il libro delle botteghe color cannella,
un piatto pulito – respiro piano –
l’inchiostro fregia la carta
come l’ala di un corvo il cielo,
una macchia di blu, siedo, ecco
la risposta muta di Dio a una preghiera.

 

      

Amarene è il titolo dell’ultima raccolta poetica di Silvia Secco, un libro di piccoli prodigi, di miracoli che si susseguono verso dopo verso, pagina dopo pagina. Qui la poesia ha un respiro collettivo, un incedere corale, è la celebrazione di eventi cui partecipa e assiste una molteplicità di personaggi dai profili definiti, ed è interessante sottolineare che Alberto Bertoni, nella nota critica che accompagna i versi, parla di un libro “a fondamento liturgico – senza mai essere, si badi, confessionale…”

Il primo prodigio a essere chiamato in causa è il prodigio della poesia: “Io ogni cosa chiamo ognuna genero/ e sono dio nel mio chiuso giardino”. E subito dopo il miracolo della neve, c’è tanta neve in questi versi, neve che ha il sapore della nostalgia di un’infanzia in cui le madri raccoglievano dai giardini la neve inviolata, ne riempivano i bicchieri, “Poi sopra, poco zucchero/ e un filo di vino nuovo compivano/ il prodigio. Le chiamavano marene.”

E richiama alla memoria il bellissimo verso di Zanzotto: “che sarà della neve? che sarà di noi?”. Si avverte qui una vicinanza non solo geografica con la poesia di Zanzotto, un sentire comune, un’acuminata e luminosa parentela poetica.

Vengono richiamati espressamente alla memoria alcuni poeti frequentati e sicuramente amati: “La resina cala il suo destino d’ambra,/ riscrive per intero Robert Frost/ sulle ali degli insetti..” e più avanti Ginsberg, in una poesia così bella che sarebbe un peccato non riportare per intero.

Il libro, per quanto pieno di atmosfere gioiose al limite dell’estasi, è quanto di più lontano dal divenire idilliaco, vi si ricordano le bambine che salgono le scale con le ginocchia sbucciate, portano nomi come caramelle, indossano magliette preferite, contano i loro anni fino a sei, gridano la faccia dei padri, “Fanno/ il salto, volano giù otto piani”.

Un libro davvero molto bello, molto compatto e coerente nella resa formale, che apre un grande orizzonte di speranza sul futuro della poesia italiana.

Nelle notti dei passaggi delle comete
nel millenovecentonovantasette
non potevamo immaginare Ginsberg
come uno qualunque che sarebbe morto.
Accadde ad aprile, si schiusero le labbra
e furono i tempi dei lunghi baci
dentro le automobili, i nostri vent’anni
sull’altopiano. Salivamo fino
al luogo dove l’aria liberava
il cielo dai puntali degli abeti.
Da lì pensavamo alla distensione
della piana addomesticata, ai fari
di terraferma dei campanili
come piccole perle sparse, sfilate
dalla collana. Pensavamo ai pesci
millenari nei calcari, e completamente
ciechi all’orizzonte restavamo beati
nell’oscurità. Ci affidavamo
        – chiusi gli occhi dell’uno e dell’altro –
alla scenografia del mare arretrato
alla foce dei fiumi, molto lontano.
L’amore aveva luce e prossimità
astrali. I poeti erano le divinità
vocali nei libri, ci cantavano il destino.

        

 

Ho sempre molto ammirato e amato la poesia di Francesca Del Moro per la stretta contiguità con la vita reale, per il suo piglio battagliero, per lo sguardo dritto e senza concessioni. Per il coraggio nella scelta dei temi. Per il coraggio con cui ha imbastito l’esile ma potentissimo La statura della palma – canti di martiri antiche. Scrive Anna Maria Curci nella prefazione: “Martirio e poesia: testimonianza, astuzia, scandalo, interrogazione inesausta, ferita aperta, prodigio d’amore.” Il libro raccoglie le testimonianze, narrate in prima persona, di tredici martiri dei primi secoli del cristianesimo. I versi della prima santa martire, Agata, ci immergono nelle atmosfere di pitture sacre dai forti contrasti: “La notte con la mano adunca/ mi stana la parte oscura”; mentre la ripetizione ossessiva dei versi “Una volta, due, tre, quattro/ gira e rigira la tenaglia/ nel battito del cuore snudato/ gira rigira e taglia” richiamano le forti note della tradizione melodrammatica. Traspare dai versi una forte connotazione erotica, a riprova di quanto la tensione religiosa, una forte aspirazione all’ascesi, si intridano di un’estasi paragonabile alla passione amorosa: “Solo lui succhierà i miei dolcissimi acini,/ solo lui mi spremerà, mi farà vino al suo calice,/ goccia a goccia mi berrà”. E più avanti, nel canto di Regina martire: “Io contemplavo la tua bocca../…mi prese non so quale/ desiderio di baciarla.”

L’aggancio col reale va individuato nel gesto della insubordinazione, nella disubbidienza all’ordine costituito che impone loro di abiurare la fede. Inoltre è nel canto della santa martire Apollonia che lo spirito di ribellione si rivolge direttamente a Dio:

Guarda, o Dio, la creatura a tua immagine
è questo l’uomo: sei contento?
Vedi come si allarga la primigenia macchia?
Come ovunque si rimoltiplica l’archetipico crimine?
Dimmi: è questo che pensavi?

Indubbiamente un incalzare di domande coraggioso, al limite dell’empio, come coraggioso è aver messo in versi la storia delle sante martiri, aver distolto lo sguardo dai temi consueti e aver voluto indagare l’animo femminile nel momento del sacrificio estremo.

Agata

Una volta, due, tre, quattro
gira e rigira la tenaglia
sul battito del cuore snudato
gira rigira e taglia.

Non nascondermi, Cristo, il tuo volto
nel buio della cella lo ricerco.

La notte con la mano adunca
mi stana la parte oscura
la parte mia che dubita.
Appeso ninnolo sbreccato
scivolo dentro me, in me ricado.

Una volta, due, tre, quattro
gira e rigira la tenaglia
sul battito del cuore snudato
gira rigira e taglia.

Non nascondermi, Cristo, il tuo volto
nel mio pianto sul ciglio lo ricerco.

Covo una larga oscurità
che preme, tu mi aiuterai
tu sei qui per questo.
Pendo campana crepata
battendo un suono cavo.

Una volta, due, tre, quattro
gira e rigira la tenaglia
sul battito del cuore snudato
gira rigira e taglia.

S’impiglia il buio
nei muri, nei musi
dei sorci che brulicano.
Io grido, incrinata lanterna
oscillo a fiamma spenta.

Una volta, due, tre, quattro
gira e rigira la tenaglia
sul battito del cuore snudato
gira rigira e taglia.

Ecco la notte si spalanca
al tuo amore che rimargina.
Io butto latte nero, sangue nero
dal mio seno che si stacca.

       

 

One thought on “Voci indipendenti: le letture di Paolo Polvani. Rubrica. Barbato, Secco, Del Moro.”

  1. Ringrazio Paolo Polvani per la bellissima lettura, felice di comparire tra le splendide voci poetiche di Francesca e Silvia. Ringrazio la redazione per lo spazio concesso alla mia nuova raccolta.

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