Recensione di Marco Righetti a “L’algebra della vita” di Ivano Mugnaini

Note di lettura di Marco Righetti a L’algebra della vita di Ivano Mugnaini.

    

     

Se è vero che la manipolazione algebrica (più nota come calcolo formale, algebra computazionale) è metodica oggi imprescindibile nella ricerca scientifica, forse anche nell’Algebra della vita (Greco & Greco editori, dicembre 2011) possiamo assistere a un’analoga riduzione (nel senso etimologico del termine arabo algebra) e ad una contemporanea trasformazione in espressioni nuove, diverse da quelle comuni di partenza.

Al di là della filiera iridescente e variegata di personaggi che occupano il libro, storici, fantastici o, più semplicemente – e meglio – interpreti del dettato profondo dell’autore, ci si accorge immediatamente dopo il primo testo, La feritoia (titolo che potrebbe probabilmente suggellare l’intera raccolta altrettanto bene di quello scelto dall’autore), che occorre forse accantonare l’abusato senso del termine ‘racconto’ e cercarne altri, più focalizzati: potremmo proporre magari ‘accensioni’? Lasciamo la questione terminologica ed esaminiamo le tessere delle prime pagine.

La feritoia nel paese in cui è tutto fermo e senza tempo diventa subito l’apertura di un altro punto di vista. Anche la natura perde ogni requisito routinario, tutto collabora alla deformazione dell’ordinario, alla sua riformulazione. E il tratto si fa assertivo, incalzante, spinge la ragione nell’angolo (non a caso l’incipit recita “oggi la gente è più pazza del solito”) per convincerci poi che nemmeno nell’angolo delle certezze c’è ormai più nulla. Il vuoto metafisico creato dalla fabula è in realtà, schiettamente, vuoto della stessa vecchia forma narrativa. E il lettore questo lo comprende subito, lo assapora nella stessa progressiva erosione dei punti fermi ad opera della voce narrante.

Il tempo del racconto è più rapido di quanto non dica e prepara il suo ambiente: Mugnaini vi getta per l’impasto le forme pure, tratte dall’emozione, anzi da una scommessa che torna costante nel libro: raccontare il dopo, quello che segue al decadimento di strutture protettive e false, codificate da riti e miopie acquisiti. L’algebra della vita non azzecca più le vecchie strutture se viene innescata una serie apparentemente perversa, perché allora il fascino di vedere come andrà a finire genera immancabilmente meccanismi eversivi, sulla pagina e nella rappresentazione del lettore. Vi è una sorta di congegno a orologeria che prima o poi espelle il superfluo e fa precipitare nella aporia di ciò che accade, del non ancora visto ma dell’ugualmente possibile. Come avviene nella Feritoia. La posta in gioco è elevata: “la vita, l’armonia, la gioia sono preziose, costano care”. Il lettore è un “eterno forestiero”.

Gli oggetti mutano, cambiano forma e diventano indizi, la ricerca si focalizza sulle reazioni dei protagonisti e qui lo scambio è ancor più incessante, il gioco delle parti inverte le polarità note (Paglia e sangue). Ma l’arco voltaico corre, elettrizza come deve, illumina della sua luce inusuale, scardinante. La felicità è “variabile impazzita”.

Ed è qui appunto la scommessa: ‘provate un attimo a pensarla come me’ dice lo scrittore, ‘non potrebbe andare a finire (o a non finire) così’? La provocatio, la sfida allo scorrere anodino del tempo, del senso e del ragionamento comune e la ricostruzione dell’assunto profondo, solitamente trascurato e qui invece in claris (si veda per esempio l’incipit di Miele e pioggia) urtano immancabilmente contro l’annichilente paludamento sensorio che ci sostanzia.

E Mugnaini vince la scommessa, circostanziando puntigliosamente la sua tesi, corroborandola di lampi, di tempi nuovi, veloci, oltremodo godibili nella lettura. E che si sposano con un’intenzione svelata, quella della conduzione – per restare al linguaggio della fisica – di una corrente improvvisa, affatto ignota. La feritoia è quella in cui viviamo, ma di là da essa la visuale si allarga e il territorio è vergine. Mugnaini allora lo riempie delle sue intuizioni e creazioni, mai addomesticabili del tutto, sfuggenti, ironiche, infingarde: l’algebra – come osserva Luigi Grazioli nella prefazione – è cosa più complessa dall’aritmetica. L’algebra non può che dare risultati esatti ma in nessun caso scontati, contraddicendo la logica inerziale di base e innescandone invece altre perfettamente, dialetticamente coerenti, crudelmente lucenti direi, “affamate di pelle, silenzi, parole” (Petite suite).

Metabolizzato il plasma narrativo di Hesse e di Walser, di cui si colgono tracce per esempio nell’Inseguitore e, rispettivamente, in Desaparecidos, l’autore ricorre spesso al “miele agro” della poesia, ad antonimie ed ossimori (come questo appena citato), ad accostamenti inediti in cui entrano in azione concetti opposti: “Le tre parole (…) gli erano chiare a quel punto: ‘Non mi avrai’, ecco cosa aveva vergato quella mano tremolante. E, sopra, accanto, dentro a quelle parole, mischiate, fuse, abbracciate con rabbia e trasporto, altre tre parole: ‘Ti amo infinitamente’. Nell’atto della sconfitta il medico-scrittore ormai impotente aveva fatto vibrare nell’aria, fino al cielo, due urla sovrapposte, odio e amore, abbandono e passione” (Tre parole illeggibili). È una circolarità di matrice poetica impiegata a fini narrativi, dunque, spesso un contraltare alla drammaticità dell’esito.

I paragrafi, cadenzati come sequenze di un avvicinamento progressivo, entrano nell’agone: nella morsa creata dall’autore si giocano umori, carne, profumi, sensazioni, maschere, ombre. Ma grazie alla rilevata doppia cifra stilistica – che mentre racconta e crede fino in fondo a quello che dice non rinuncia mai al velo della poesia, ottenendo così una sinergia di indubbia originalità – il tragico, irridente, sanguigno tour nei meandri dei comportamenti e delle situazioni, resta pur sempre tour di bellezza e insieme concatenazione di causa ed effetto che non esclude affatto l’esito a sorpresa (Le piume del pavone). Modalità anche questa, il ribaltamento, che va inquadrata nell’intelligenza profonda dei testi, anzi nella scommessa che Mugnaini fa con se stesso (prima ancora che con il lettore), con le proprie attitudini e vocazioni narrative. La necessità – come si diceva sopra – è ‘l’accensione’ del testo, una volta individuata la feritoia da cui far leva.

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