REDIVIVA DONNA (Contemporanea), rubrica di Alessia D’Errigo ospita Nadine Spiaggiari.
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UN PENSIERO
Ed ecco aprirsi la Grande Matrioska, eccoci entrare in mondi interni profondi, sempre più fitti; un parto all’infinito, una nudità esposta “che dolora” affiliando, coraggiosa, ricordi e percezioni, richiami e preghiere, sguardi lontani e vicini.
Una poesia forte e schietta, quella che, soltanto la cruda Necessità, impone.
Buona lettura
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NADINE SPIAGGIARI
Nadine Spiaggiari nasce a Modena. Si diploma all’Istituto d’Arte Florentia dove matura la sua grande passione per l’arte. In seguito, lavorando per Krizia come modella, ha la possibilità di visitare l’Italia e parte del mondo. Questa esperienza le arricchisce il cuore di entusiasmo, facendo nascere in lei il desiderio di poter immortalare i suoi stati d’animo, con l’ausilio tecnico di corredi fotografici e pittorici. La sua inclinazione per il disegno e la comunicazione visiva la coinvolgono in diverse esperienze lavorative nel campo della grafica pubblicitaria e del design d’immagine. Collabora con Franco Bonvi, Mondadori ed altri stravaganti personaggi conosciuti nel settore della moda. Raggiunta la maturità professionale crea una propria agenzia di grafica, fotografia ed illustrazione pubblicitaria con notevole successo e gratificazione personale.
In seguito scopre la poesia: un tassello mancante, un modo unico per esplorarsi, là, dove non ha mai osato guardare.
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Ai miei figli
mi vogliono come un corpo di razza, i mie figli –
non accettano cammini interrotti, sospesi, il sussulto
che dolora, che tace, stanchezza del crollo nel cuore
assediato dal colmo giurato di promesse
e profumi futuri.
mi vogliono madre, I miei figli, un corpo di razza –
la stessa, amati di amore filiale, plenilunio nel cuore.
ero sana –
ero corpo di razza, seduta per ore a guardarvi
ad amarvi, per fissarmi come puntina da disegno
alla vulcanica natalità dei passi, inciampati nel mattino
in una tenera ranocchia, o nella tarta di terra
dove la bocca è luce in una leprotta affamata
e la parola nasconde il mondo
cattivo.
voglio riavervi nell’anima –
e l’anima agita, un urlo, di lupa da latte.
contro il pallido volto di donna e alla gioia smagrita
che si sta riposando.
ma il disagio si curva ed è bestia.
Piccoli pezzi di carne
strappata da tutti allo spirito.
per farne
colomba.
un sorriso dorato rotolerà dal male fra tuoni erranti –
saprò condensare la bocca
e i miei figli l’avranno nel sangue!
per sempre
cancro di gelo e rimorso, vergogna di ossa infettate
in abissi e ricordi. – ho paralizzato il tempo con la vostra nascita.
Sono felice, ma di quel tutto che vola per i cieli e fiata
sulla pelle dei neonati al latte.
quell’aria unica, rumori di frullii, per me
che ottusa non so del Dio quanto mi parla.
quanto
mi parla!
cari figli, ditemi quanto peso sul tempo,
se ripartisco abbastanza il respiro,
per restare più a lungo con voi –
io vi amo. ma l’amore è ovunque
io sarò dove e prima da voi!
ho scritto: – è così ogni volta, si innalza la luce che giace nascosta
confusa da fischi di uccelli e sospesa
si apre
Il mio pugno.
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Maria
Maria, mi inviti a riaffiorare / per rigettare il corpo nella vita :
ci sono albe rampicanti, più potenti, dici : ieri, di me,
di ogni lunga e radicata malattia. Dormire, Maria : rendi a me
tutto il sonno / rendimi la pace, il giusto punto di luce,
con pochi corvi sul cuscino. Scacciando la paura
dire che voglio il bene : dire grazie, il pegno
cancella il segno nero / l’ombra : le lingue troppo lunghe
della notte.
Nel regno, mio, di lotta, non spiarmi la caduta,
che sono sempre io
ad abbracciarmi : a massacrarmi.
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Alzheimer
Fu un caprimulgo a portare la notte in questa stanza.
Sbatteva sugli specchi la sua angoscia, lacerante, come mia madre,
pazza, nei miei ricordi di figlia.
Mia madre, mangiava il sapone con lo zucchero, urinava nelle scarpe di mio padre,
strideva le unghie in un pezzo di specchio, come volesse arrampicarsi
o abbandonarsi a piccoli aloni di fiato, simili a fiori di neve,
che andavano a confondersi nel sangue debole, malato e nel pallore riflesso.
Mia madre, inseguiva la sua lingua, il corpo vuoto a volte nudo
fuori dalle mura, come i suoi occhi, persa, in un mosaico informe.
Viveva nell’infanzia, cercando la sua casa di favole e miseria
dov’era lei la bimba, ed io, nelle sue voci semplici,
ero la madre.
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I miei occhi
Come saranno i miei occhi, accesi da un fuoco lontano
di piccole lampade rosse? – e dopo aver perso tutto
quello che non ricordo, come saranno i miei occhi
se non colmi di nenie infantili. – occhi stanchi, come vecchi palazzi
crollati in un tempo di maggio. – ho freddo,
lo sguardo, famelico a tratti rabbioso.
i miei occhi, palazzi d’inverno? un dolore felpato
o solo un’acerba tragedia?
…
Nemmeno le rose, maria? maria,
maria, sono stanca di un monologo ricco di buio.
maria, l’unica “meteora” che rischiara i miei passi.
la notte svolerà dal cielo senza rose? madre, madre rispondi!
rispondi più bianca di una rosa
sopra un corvo.
…
Non fosse per il cuore d’un uomo,
me ne andrei a guardare gli uccelli dal fondo del fiume.
ancora una volta, di sapore notturno, quelli scuri
come i i drammi di shakespeare,
che volano via lontano dai cieli che filano
vento di morte.
…
Tuttavia non vorrei avere niente, di quel niente che passa,
se non a piccoli pezzi il ricordo di un cuore,
per potermi nutrire tremando
anche dopo la morte.
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Una tregua
L’incontro con l’ultimo giorno, se il chiarore è vicino, se il residuo
magrissimo, il digiuno, il silenzio affannato –
si trafigge il respiro premuto, fra i colori si bagna
la pelle stellata di ulcere garze catino di smalto,
sbavato di sangue di cosce, di umori.
La mano sul seno una fonte di fuoco, allaga il dolore
solleva la voce, le soste affollate
fra letto e divano.
divano e ospedale.
Lo sguardo riposa –
è una tregua.
una tregua.
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Accade
Il vuoto esprime un peso al volo, una frenesia d’ali,
un pensiero laterale, come la storia di una donna che disegna
la sua fine in ronzii di suture metalliche.
Frazioni semplici, ma dolorose –
il sangue, le metastasi, i tratti surreali, una muta di biancheria
e le stelle assenti, le eco metafisiche, gli squarci e poi più su,
dove la luce non muore.
Ma si ritorna, accade che si rimane, a scaglie
e una magrezza d’occhi sempre più grandi
che lo spazio abita.
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Guardami
Guardami, sono provvisoria, non contare su di me –
la vita è stata un’onda senza risacca, un nido sull’albero divelto.
Vedi il mio sorriso stanco, un cuore di uccello spaventato
dai rami scossi dalla gente.
La gente, a volte, è un suono stridulo, un andamento concitato,
riconosci il modo: – viene verso di te, con un ramo puntato, senza gemme.
Gesticola e muore come un’ala sradicata dal suo cielo naturale,
durante la tempesta.
grazie dal cuore…
nadine
Mi sono piaciute molto, queste poesie. In particolare:
La gente, a volte, è un suono stridulo, un andamento concitato,
riconosci il modo: – viene verso di te, con un ramo puntato, senza gemme.
C’è una cosa che ritengo fondamentale in tutte le parole di Nadine: la verità.
Mi hanno emozionato. Massimiliano
grazie 🙂
Mi sono permessa di scrivere sul mio blog una piccola riflessione che riguarda soprattutto la sottoscritta e le pubblicazioni in genere. Ho inoltre aggiunto il vostro link. Spero sia cosa gradita! http://www.ilmondodiswan.it/pubblicazioni/articolo-leffetto-di-una-pubblicazione/ a presto leggerci. un caro saluto!
Certo cara Nadine, ci fa molto piacere e speriamo di non rimanere un non luogo per te: che la tua voce torni presto a cantare dalle nostre pagine virtuali per tutti i lettori che stanno apprezzando te e la rubrica di ottime proposizioni di Alessia.
” guardami ” è una super poesia.
di quelle che hanno peso, ma non pesano.
complimenti
grazie!