Reportage di Agata Bui. Tra Gozzano e Phileas Fogg un funerale indù

Reportage di Agata Bui.
Tra Gozzano e Phileas Fogg un funerale indù.

      

   

L’uomo sotto il portico della casa della morte.

di Agata Bui

Pashupathinath (Nepal) – Varanasi (India)

Nel caso sia un giorno limpido,
levigato come il cristallo
e il sole ci colpisca alla schiena,
potremmo credere di vedere
scorrere sotto di noi
la perfetta autosufficienza
della vita e della morte.
E udire il fiato bollente di un dio
sbuffare
sopra le nostre teste.

Qualcuno osserva dai gradini più alti,
accanto alla lunga distesa
delle nicchie che imprigionano i falli.
Lui è sotto il portico della casa della morte,
vicino al tempio,
tra i fagotti grigi.
Altri sono all’interno.
Lui ha scelto di restare fuori,
nella luce.
E’ tra gli uomini
che attendono di morire.
E’ uno di loro.

One Rupee di Luca Bartolotti
One Rupee di Luca Bartolotti

Shiva Pashu Pati guidava il suo gregge di uomini,
ha riso
e questo fiume è nato,
spinto come un regalo tra le montagne.
Un caso.
Bagmati,
il fiume che canta,
canterà fino al Gange,
fin dove ti avrò toccato,
strappato alle lenzuola
e trascinato nella notte.
Ti butterai addosso gli abiti,
gli uni sugli altri
come bucce
e non ti servirà a niente.
Ti avrò portato nel freddo.
In strada gli uomini raggomitolati attorno ai fuochi,
avvolti nelle coperte,
la testa fasciata negli stracci,
avranno aspettato da tutta la notte,
avranno aspettato noi,
le nostre gambe
in cerca delle loro gambe
verso il fiume.
Ci chiameranno.
Ci inseguiranno.
Si offriranno tutti insieme.
Tu non li vorrai guardare.

A pochi passi da Lui
un’altra sagoma
ricoperta dal lenzuolo bianco.
I parenti
sono al tempio a pregare
e hanno lasciato che un morto
sia vegliato da un moribondo.
Sospendo il respiro
sulle offerte di fiori,
il riso,
la polvere colorata sparsa ovunque,
i gesti pacati,
sereni,
la pace nella pace,
la pantomima a cui manca
lo strazio della perdita.
Anche Lui penserà,
come me, ora?
“Non dovrei essere qui.”
Lo sguardo dei vivi
è terribile.
Lui assomiglia da uno di loro
Ma dormiente e deforme.
Gli arti disarticolati,
rovesciati.
Quasi separato.
Quasi cieco.
Quasi muto.
I suoi gemiti,
a differenza dei miei,
non spaventano i passanti.

Ti ricorderai della luce,
come una nebbia
sulle rive
e sui palazzi,
chiarissima,
quasi rosa,
coprire e scoprire
le ombre dei volti
e degli oggetti.
Guarderò il tuo viso
pietrificato ed eterno.
Alzerai la voce.
Gli uccelli scivoleranno sull’acqua.
Crederò tu sia
immortale come una divinità.
Dell’acqua nelle brocche
sapremo poco o niente.
Impossibile mescolarci
ai loro gesti.
Impossibile fingere
di mimare
il saluto al sole.
I bambini
lanceranno brevi grida stridule.
Dirò che voglio tornare.
-Non mentire. – dirai.
Riderai.

A poco a poco,
con cura meticolosa,
prende forma l’ultimo letto
dalle geometrie assolute.
Legno,
zolle,
paglia,
foglie,
burro,
sandalo,
canfora,
parenti,
pellegrini,
curiosi,
mendicanti
e noi.
Un vecchio
scende nel fiume.
Spazza la sabbia
attorno alla piattaforma.
Qualcuno
dal ponte
grida qualcosa.
Il vecchio guarda in basso.
Alza gli occhi.
Li riabbassa.
Guarda meglio.
Qualcosa che brilla.
Una rupia.
Si china.
La raccoglie.
Se la spinge in tasca.
Aspettiamo in disparte.
Come Lui.
L’uomo sotto il portico della casa della morte.

Dirai: – Vuoi ritornare perché vorrai ricordare. –
Avrai le mani fredde.
Mi chiederai di strofinartele
e io
non ne avrò voglia.
Dirò che preferirei vederti
immersa nell’acqua tre volte,
maledire il tuo dolore,
il dolore del mondo,
quello degli dei,
riemergere,
gli abiti appiccicati al corpo
come una seconda pelle,
i seni nudi,
sputare verso il sole.

Guardiamo il corteo
sollevare la barella di bambù
sopra le teste,
farla girare intorno tre volte
prima di appoggiarla sulla pira.
Era un uomo,
un sesso,
una voce.
Lo ricopre
un lenzuolo arancione,
brillante.
E fiori.
Il lenzuolo
viene alzato
e il volto
ti fa pensare ad un sorriso.
Il tuo
è inquietante
e bellissimo.
Il lenzuolo si abbassa
e solo
i piedi giallo zafferano
rimangono visibili.
Anche Lui come me
starà pensando ora?
-Non io. Non ancora. –

Religion di Luca Bartolotti
Religion di Luca Bartolotti

Dirò che preferirei vederti
soffocata dai colori abbacinanti
dei massaggiatori,
dei barbieri,
dei venditori di cartoline,
dei lavandai dai movimenti ritmici
come una danza,
dei guru in meditazione,
isolati,
altrove.
Sommersa.
Fino a farti impazzire.
Tu,
ferma
nel disagio della terra sacra
e della sete di vita,
i colori
li vorrai comprare.
Sabbia in minuscole bottiglie.
Io te lo proibirò.
Inutilmente.

Il fumo
dà il suo segno al cielo.
Il fumo nero
brucia gli occhi.
Ti guardo.
Ti fisso
come ultima immagine
nel mio minuscolo tempo.
Qualcuno
si prende cura del rogo
perché bruci lento.
Qualcuno parte.
-Ho fame – dici.
Segui il fumo
lontano scuro e veloce
salire alto e rimanere.
E’ l’immagine che ferisce.
E l’immagine è intatta.
Ricorderà la morte?
O solo un’agonia languida
e indolore
e un pensiero?
“E’ la vita che si perde.”
E se non ricordasse
come sia avvenuto e quando?
Se ricordasse solo
di essere qui,
nel fiume?
Dunque
deve essere morto
da qualche parte.
L’uomo sotto il portico della casa della morte
è ancora lì,
come me,
né bruciato
né sepolto.
Qualcuno che gli somiglia
è sul Gange.
O sulle scalinate
sopra il Bagmati.
Copie
della sua copia del ritorno.
Qualcuno che divide il suo silenzio
con una donna.
Potresti essere tu.
Lui potrebbe non esistere
affatto.
Io potrei non essere
mai nato.
Le sue ombre
potrebbero non conoscerlo mai.
Le uniche cose che gli somigliano
e che incontrerò
saranno animali da macello
e specchi rotti.
Allora penserò
con consolazione
che non c’è mai stato tempo
per fare nulla
e che tutto
è stato perduto da sempre.
Come Lui?
Mi vede?
Come me,
anche Lui
finirà di muoversi.
Al contrario di me,
Lui poi
non lascerà ai suoi vermi l’azione.

Ti ricorderai del caldo,
lento,
intenso,
dolce
come il sorriso del nano
sotto l’inimmaginabile peso
che gli schiaccia il viso tondo.
Dirò
che non c’è niente da fare,
se non sedersi di fronte al sole,
per il fiume,
i canti,
l’ozio,
l’indolenza,
la tentazione della morte.
La spuma dell’acqua
sarà un’epidermide grigia e rugosa
che si squama a poco a poco.
Il sole
penetrerà nelle sue grinze
come una malattia.
Annuserai l’odore dolciastro delle sigarette
e del cibo fritto per le strade
mischiato all’odore dei corpi bagnati.
Spalancherai gli occhi,
li getterai come belve
sul tintinnio delle larghe cavigliere
ai piedi scalzi
che solleveranno la polvere
e te la butteranno nella gola,
insieme alle urla,
insieme ai tuoi occhi.
Dirò che anche noi
siamo sul punto di compiere un gesto,
un rito,
uno qualsiasi,
che liberi,
che salvi,
che dal fiume prendiamo tutto,
come loro,
materia e spirito,
per la prossima vita
e per questa.
Dirai che
malgrado tutto
non potresti fare a meno
di ascoltarmi mentire.
Nessuno mai
avrà paura dei tuoi occhi.

Nel caso sia un giorno limpido,
levigato come il cristallo
e il sole ci colpisca alla schiena,
potremmo credere di intuire
la memoria delle cose,
che è memoria dei suoni e dei colori.
E vedere le cose
espiare la colpa della forma
scoppiando in un unico
perfetto
fragore di risa
che noi, noi soli sulla terra,
avremmo immaginato di udire.

Gossip di Luca Bartolotti
Gossip di Luca Bartolotti

     

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Foto di testata: Existence di Luca Bartolotti

6 thoughts on “Reportage di Agata Bui. Tra Gozzano e Phileas Fogg un funerale indù”

  1. trovo questo pezzo veramente molto interessante sul piano descrittivo e della narrazione.

    oserei definirlo un ottimo lavoro di scrittura ” giornalistica “, anche con buone intuizioni liriche, ma sul piano della poesia mi sembra eccessivamente lungo, vagamente prosaico e con versi decisamente troppo brevi.

    ma forse lo scopo era proprio quello di presentarci una situazione di morte assai lontana dai canoni occidentali, ed l’autrice è stata bravissima a rendere quella cultura così lontana dalla nostra occidentale.

    sul piano poetico forse una maggiore ascittezza e brevità gioverebbero all’insieme.

    mi scuso se ho detto forse cose non del tutto condivisibili

    1. E’ lusinghiero per me che un poeta abbia trovato il tempo e la voglia per commentare la mia poesia, oltre tutto in modo – a mio avviso – così puntuale nel tratteggiarne pregi e difetti.
      Ringraziando per i primi, vorrei aggiungere qualche brevissima nota in merito ai secondi.
      Anch’io temo che un lettore possa faticare a giungere alla fine di un testo così lungo, ma confesso che la narrazione “interiore” richiedeva spazio sul foglio e, da madre indulgente, non ho osato operare tagli.
      Per quanto riguarda il tono, a volte un po’ naif e banalmente esotico, tipico degli occidentali quando parlano dell’oriente, è un rischio che sapevo di correre e che ho cercato di evitare, ma a volte, nell’entusiasmo, qualcosa è sfuggito.
      Da ultimi i versi. Brevi, brevissimi a volte. Lo so. Ma mentre le parole scorrevano sul foglio il ritmo che ne usciva era un battito sincopato e irregolare.
      Grazie ancora. Spero di avere in futuro altre occasioni e capacità per stimolare i tuoi interventi. Agata

  2. mi perdoni Agata se ci torno sopra, ma sentivo dentro di me l’esigenza di farlo ancora perchè tutto questo suo lungo discorrere in poesia era come qualcosa che mi rovistava dentro e ogni volta che vi sono tornato sopra a rileggerlo non sapevo darmene una ragione.

    Ora ho trovato un riferimento che forse potrà farle piacere :

    il recente libro di David Grossman intitolato ” Caduto fuori dal tempo “, un lunghissimo libro in poesia dialogata tra vari personaggi attorno alla morte, ed alla perdita di un figlio e di tanti flgli, testo che vedrei benissimo come lettura a quattro o cinque voci ( tanti sono i personaggi ) in teatro.

    Un testo che mi sentirei di consigliare a tutti coloro che amano la poesia e che troveranno in Grossman tutta la delicatezza e la sensibilità di quel grande della scrittura che egli è.

    Credo che il testo di questa sua poesia sia molto affine a quello suo, sia per lo stile che per i temi, ed oggi ho capito anche il suo, dialogare, Agata, con qualcuno che viveva con lei l’esperienza mentre essa era in divenire.

    Sentivo di doverle questa spiegazione supplementare.

    mi scuso e la saluto

    luigi38

  3. Per prima cosa mi scuso. Un commento così prezioso avrebbe meritato una risposta più solerte, ma la quotidianità, nonché la mia più banale incapacità, mi allontanano dalla scrittura più spesso di quanto vorrei.
    Poi, ringrazio. Perché un poeta mi ha fatto leggere un’opera che non è solo prosa, o poesia, o teatro, è un viaggio. Un‘esperienza che travolge, coinvolgendo tutto il corpo – gli occhi, la mente, lo stomaco – in maniera così intensa che a volte si sente il bisogno di pause, perché quando un grande scrittore scrive del dolore, quello lacerante e totale, lo fa con la capacità di trascinare con sé il lettore, che perciò, a volte, deve chiudere il libro, e allontanarsi.
    Poi, ringrazio ancora. Il lusinghiero accostamento della mia modesta poesia alla meravigliosa scrittura di Grossman, lo ritengo del tutto ingiustificato, ma se non fosse stato per questa curiosa associazione di idee, non avrei mai letto “Caduto fuori dal tempo”.
    Grazie Luigi.
    Agata

  4. non c’è nulla di cui scusarsi, gentile Agata, però sono contento di leggere che il mio suggerimento di lettura è stato recepito e in modo eccellente.
    e……se proprio desidera proseguire con Grossman non si perda il romanzo ” che tu sia per me il coltello “, credo le piacerà moltissimo, e ……….io andrò alla ricerca di Montalban che lei così bene ci segnala nel numero di Marzo-

    E’ stato un piacere questo scambio

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