Reportage. Miracolo a Milano di Saya, Santarone, Zironi. La città nei versi di tre poeti.
Vi proponiamo il punto di vista sul tema del mese di diversi autori, con una sola poesia (o magari due) a testa, a esemplificazione e dimostrazione di come la parola poetica possa fornire una molteplicità di spartiti aderenti a un medesimo assunto:
La parola a Marco Saya che Milano la vive da quarant’anni:
milano
milano, quando ci sbarcai era bella,
nonostante la saudade mi innamorai
di quella nebbiolina che, allora,
s’incuneava tra le case di città studi.
sono passati più di quarant’anni,
gli amori passano,
anche le città cambiano,
e quella nebbiolina
ha scelto un altro amante.
*
passa il tram
passa il tram.
quelli di una volta.
Il pirellone (l’unico con i tacchi) rifatto.
come vernissage di baldracca.
lo sporco confina con transenne.
sigillano un domani pulito.
anche il vecchio regime restaurato.
non muore mai, quello.
sopravvive tra avanzi di idea.
così scorre la vita.
così passeggi per il centro.
hai fatto centro.
le freccette,un lontano ricordo dei navigli.
in qualche bar dove il calcetto
accoglieva giovani ossa.
Ora tocca a Paolo Santarone che ha vissuto la città del lavoro (dalla raccolta “Poesie dell’impiegato”):
A Milano, 40 anni fa
Rimpiango ancora quel mio vecchio ufficio
proprio all’ombra
dell’altissimo fallo gentile
e rastremato
totem civile e vanto
d’una cultura e un’epoca lombarde
Per le strade intorno
battone vecchissime
trasandate e laide
Il fascista matto
che
soprattutto alle donne
proponeva con ombra di malizia
il saluto romano
un’erezione buffonesca
proprio ai piedi
della superba erezione del totem
Il nano litigioso
omino piccolissimo e polemico
che provocava apposta
per vedere se
gli altri
reagendo l’avrebbero offeso
Le battone il fascista il nano
i viados di notte
all’altra estremità della via
(fenomeno raro e curioso
allora
prima che dovessi chiedermi
dove trovavano tutti quei clienti)
i negozi le banche
le guardie
i bar
i terroni cortesi del grande parcheggio
che chiamavano tutti ingegnere
era tutto un mondo fisso
fermo
era l’anima di paese
in quel cuore di grande città
Noi
eravamo invece
i passeggeri
come i tram
i vigili
gli scioperanti dei cortei
noi
cinquanta ottanta centomila impiegati
della zona
non uguali
allora
non così uguali
eravamo l’onda che muove la riva
il refolo di vento
il battito d’ali
Noi eravamo la gente
Eravamo le parole
Quello
per noi
era il mondo
quel quartiere dove vivevamo
non i dormitori del ritorno
E lì davvero
subito accanto al grande
luminoso
totem intagliato nel cielo
noi vedevamo
quotidianamente
il reale
Dalle finestre
o nelle pause
o con un qualsiasi pretesto
fuggendo
ore o minuti
dall’ufficio
noi rubavamo all’azienda
piccolissimi momenti di vita
e di conoscenza
Per attimi
noi
eravamo nel reale
*
L’impiegato e la realtà
Ma poi
di quale reale sto dicendo
se quello che mi accade
è
il mio reale
e tutti viviamo in piccoli mondi chiusi
in isole
e di lì nasce il nostro giudizio
la conoscenza?
Quel che è diverso da un tempo
è che ora
questi reali collidono
come sfere d’acciaio
scaraventate in cielo da un dio burlone
E dunque fuori della sua isola
a casa
con la moglie coi figli
con gli amici
nelle strade nei negozi nei bar
nei viaggi in metropolitana
l’impiegato
vive un mondo che non è
suo
Estraneo
s’avvicinava
nella grande piazza
ai due ragazzi che si passavano la sigaretta
Era quello il famoso spinello?
I suoi blue jeans
opportunamente lisi
e senza piega
non erano come i jeans dei ragazzi
né
come quelli
di molti altri che vedeva
In tutto uguali
invece
uguali nell’anima dico
nell’odore
nel riflesso
a quello di altri impiegati camuffati
che erano lì
nella piazza
quella sera oziosa d’estate
con le marlboro nel borsello
Un impiegato
varcato il punto del non ritorno
si sarà per sempre maledetto
ai sogni del tempo non liberato
e
d’impossibili liberazioni future
Dunque
nessun reale ci ha rubato
la società dove stavamo
e le mura medievali
che l’architetto comunista
con vetro e acciaio aveva inventato
per recluderci
non erano alienazione
Ci confermavano anzi
e ponevano davanti
la certezza
del nostro essere impiegati
Marmorizzavano il nostro reale
La realtà
d’essere un impiegato
Chiude il reportage Claudia Zironi, guardando dal finestrino del treno, di passaggio:
Milano, passando in treno
Zampettano sui tetti gli occhi
Questa periferia milanese
così difforme d’architetture
sfacciata in accostamenti
di toni, stenta a diluire
nella campagna, ostinata
fra Lambrate e Rogoredo
Innumerevoli scheletri
in costruzione, concrezioni
ferrose estranee perlopiù
contribuiscono all’inquietudine
di una possibile invasione
aliena. Chi andò a Milano
non diede più notizie, infatti
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A Milano ci sono cresciuto. Purtroppo (ma è un’opinione personale). In tutti questi testi ritrovo l’atmosfera di perfetto estraniamento che questa città provoca negli uomini. Il suo potere deformatore è enorme. L’avete colto bene.
che dire ?
degli ottimi testi, un quadro d’epoca nella quale chi ha una certa età si può identificare.
grazie