Viaggiare secondo Leopardi. Editoriale di Vincenzo Guarracino.
Ben scarsa è la fiducia, per necessità storiche non meno che per personali esperienze, che Leopardi nutre nella possibilità che un viaggio possa realizzarsi concretamente senza dover fare i conti con quanto lo ostacola, limita o annulla. A Leopardi, in effetti, la condizione del viaggiatore è estranea, se non addirittura sgradita, e l’immagine che di lui ci resta impressa, complice la sua poesia, è quella celeberrima esibita nell’idillio L’infinito, in cui l’io si rappresenta in posizione assisa (“sedendo e mirando”), se non in quella ancor più disperante dell’elegia Il primo amore, “in un perenne ragionar sepolto”: “solo il mio cor piaceami e col mio core / in un perenne ragionar sepolto / alla guardia seder del mio dolore”. Come dire, nella posizione del bramino, in cui lo vedrà quell’interprete d’eccezione che sarà Francesco De Sanctis in un celebre saggio critico.
Qualche anno fa, in occasione del centocinquantesimo anniversario della morte, nel 1987, Edoardo Sanguineti si chiedeva sulle pagine di un quotidiano se fosse possibile ottenere almeno qualche utile suggerimento intorno alla difficile arte del viaggiare e la risposta che si dava era che, sì, qualche consiglio poteva anche ricavarsi da altre pagine, tra Epistolario e Zibaldone, ma a patto di tenere bene in mente che a proposito di Leopardi non si può propriamente parlare di un viaggiatore nel senso che l’intendiamo noi oggi ma piuttosto di un passeggiatore, di un promeneur settecentesco, e di un errabondo, per costituzione e vocazione.
Da Recanati, “porca città” e “natìo borgo selvaggio”, a Roma e poi a Bologna, Milano, Firenze, Pisa e fino a Napoli è un susseguirsi di tentativi di conoscere, penetrare l’anima e lo spirito di luoghi in virtù solo di un indefesso attraversamento ma senza veramente riuscirci.
Se Recanati gli ripugna, non è che Roma gli risulti, a conoscerla, più attraente: “queste fabbriche immense e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’esser spazi che contengano uomini”. Lo spaventano le “distanze”, la grandezza smisurata di palazzi e strade gli danno il capogiro e lo disorientano, il carattere delle persone, intriganti e pettegole, gli procura un fastidio intollerabile. “In questa città che non finisce mai, con un pavimento infame, infernale, che dopo mezz’ora di cammino vi fa sentire dieci volte più stanco che quel di Firenze, di Bologna, di Milano, dopo due ore, io riesco a far nulla né per dovere né per piacere”.
Firenze non è che gli riesca più gradevole, impedito com’è di attuare il suo progetto di “vedere le tante cose rare e notabili”. Per le vie s’aggira in interminabili “passeggiate”, come “un passeggiatore solitario”, appunto.
Bologna e Milano, poi, le attraversa soltanto e l’impressione riportatane, dopo il primo momento di entusiasmo, è di stanchezza e delusione.
Così, dapprima, Bologna è “città quietissima, allegrissima, ospitalissima”, ma poi appena intervengono i soliti impacci fisici (soprattutto “una flussione d’occhi ostinata”) il disagio diventa insopportabile e si traduce in una serie interminabile e patetica di lagnanze nelle lettere a familiari ed amici.
A Milano, che “è uno specimen di Parigi”, si respira “un’aria della quale non si può avere idea senza esservi stato”, ma presto “tutto il bello che vi è in gran copia” svanisce: “tutti ti guardano in viso e ti squadrano da capo a piedi come a Monte Morello”. Tutto il mondo è paese, dunque! Giacomo sente, oltre il disagio fisico del dover camminare, più diffidenza che simpatia. Lo stare in mezzo agli altri, il sentire quasi il fiato e l’odore della gente per strada e nelle piazze, nei vicoli maleodoranti di un centro che gli va stretto, lo fa soffrire, gli fa rimpiangere la grande aria del suo “bel Recanati”, addirittura!
Certo, Pisa sembra restituirgli salute e poesia ma dura lo spazio di un mattino: pochi istanti irripetibili, nei quali può dedicarsi alle sue passeggiate per “una certa strada deliziosa”: “là vo a passeggiare quando voglio sognare ad occhi aperti”. E deve essere un evento eccezionale se è vero, come scrive alla sorella Paolina, che “fuori di Recanati…non sogna mai”. E si capisce che qui possa essere sorto il fantasma meraviglioso della poesia inscritto in un nome, Silvia.
E infine Napoli: “la bellezza della città e l’indole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli”. Ma chi lo conosce sa che non durerà molto. Pochi mesi ed eccolo di nuovo lì a lamentarsi: “non posso più sopportare questo paese semibarbaro e semiafricano, nel quale io vivo in un perfettissimo isolamento da tutti”. Napoli, città del sole e della fantasia, è per lui un budello nauseabondo di vicoli, abitati da gente perfida e maligna, metafora stessa della vita con le sue interminabili trappole e i mille motivi di odio e disamore. “Quei viottoli, che si chiamano strade, mi affogano: questo sudiciume universale mi ammorba; queste donne sciocchissime, ignorantissime e superbe mi fanno ira”.
Le donne: se a Roma “non la danno”, come confessava amaramente al fratello Carlo, a Napoli forse è peggio, con il fisico e l’aspetto che si ritrova. Ma questo è un altro discorso.
Giacomo, il povero “gobbo dei Leopardi”, quello che i monelli recanatesi hanno canzonato per strada con indegni fescennini per anni, il suo “viaggio” per il mondo, in carrozza o a piedi, lo sente drammaticamente ingombrante e faticoso e allora forse è meglio per lui sognare, restarsene lì, nel suo “perenne ragionar sepolto” a interrogare luna e stelle, che magari son disposte, ben più degli umani, almeno loro ad ascoltare.
Molto molto apprezzato . Un grazie a Guarracino .