Rizomi e altre gramigne di Maurizio Manzo, Zona ed. 2016, note di lettura di Francesco Sassetto.
Se scrivere su di un altro poeta è sempre un’occasione preziosa di confronto e conoscenza, scrivere su di un libro importante come Rizomi e altre gramigne (ZONA Contemporanea 2016) di Maurizio Manzo, è stata, per il sottoscritto, un’esperienza di ascolto e meditazione particolarmente coinvolgente, di profonda empatia, malgrado – o forse proprio perché – la poesia di Manzo non sia affatto “facile”, e debba essere letta e riletta, metabolizzata lentamente.
Siamo di fronte ad un discorso lirico robusto ed originale, animato da una decisa volontà di controllare e contenere in una struttura formale sicura e severa una materia poetica tanto ricca e densa quanto fluida e magmatica, spesso allusiva e metaforica, come già indicano i titoli monoparola delle liriche: Vapori, Croste, Chincaglieria, Resina, Spirale, Impasto, Falle, Inciampi, Intermittenza, estrapolati qua e là a titolo d’esempio. Evidente, anche solo a sfogliare questa raccolta, è infatti il rigore compositivo: quaranta testi, tutti di cinque versi di endecasillabi doppi. Un’architettura solidissima, compatta e necessaria ad evitare che il punto centrale del quadro lirico possa debordare, trattenendolo entro i confini di una precisa struttura metrica e ritmica. E già questo costituisce un pregio notevole della scrittura di Maurizio Manzo.
Una scelta fondamentale del poeta sembra poi essere la ricerca di un’esattezza linguistica e descrittiva, l’utilizzo di un vocabolario vario e diversificato, spesso quasi “scientifico”, e tuttavia arioso e ben scandito in un ritmo narrativo cadenzato da numerose rime e assonanze interne, allitterazioni e ripetizioni, aperto a squarci lirici pur senza nulla concedere ad orpelli retorici o compiacimenti letterari, una poesia visiva – come giustamente osserva Pasquale Vitagliano nell’ottima prefazione – ma anche assai fonica già sul piano semantico, nelle opzioni lessicali, tese ad evocare immagini ora aspre e ruvide, ora dolenti e malinconiche.
Un linguaggio ed uno stile che rappresentano efficacemente, mediante la metafora del rizoma, mutuata dai filosofi Deleuze e Guattari citati in esergo, l’inafferrabilità dell’esistenza umana, impastata e stratificata di ricordi che svaniscono, strade senza direzioni, amori trascorsi che riemergono per scomparire ancora nel vuoto, nel sogno, nelle sabbie mobili che lentamente ci inghiottono, nella nebbia che avvolge e spegne ogni atto umano, presente e passato. Il rizoma è, dunque, come spiega lo stesso Manzo, “un rigonfiamento, una riserva fitta di memorie, persone e fatti, che nel bene e nel male ci permettono di andare avanti e ricevere in qualche modo pur sempre qualcosa.”. Esso diventa, in definitiva, un metodo di scrittura poetica, di analisi della realtà umana, un assiduo interrogare e interrogarsi dell’autore – sia pure vanamente – sul significato, o la sua assenza, del nostro vivere. Così il poeta, nella splendida Croste, deve constatare che “I tuoi giorni sono quello che sono, senza un punto di partenza non contano/sembra di vivere per arrivare, ti volti e solo foschìa da abbracciare/possiamo rimpastare le macerie…”, o in Vapori: “… non possiamo trattenere il tepore/è come il vapore fumo che bacia, le mani passano sullo stesso punto/si sposta la luce e anche tu sparisci, ci sei ma non si accende più la luce.”
Queste poesie riportano alla superficie un vissuto psichico multiforme e occulto, di ascendenza freudiana e più ancora junghiana, un sentimento della realtà umana disincantato e doloroso, segnato irrimediabilmente dalla perdita, dal vuoto, dall’assenza, da cui deriva un senso di vertigine e mancamento, un annaspare nel tempo e nello spazio senza mai approdare a percorsi e direzioni certe ed appaganti: “… poi al vortice consegue un capogiro/una sospensione di indicazione, ripetuta e fuorviante percezione/finché tenersi appare irrilevante, lasciarsi andare un po’ senza ritorno.”. Tutto si muove su un terreno scivoloso di gesti e segni incomprensibili od illeggibili dove unica possibilità residua sembra essere il continuare ad “andare”, a “camminare” (verbi che, non a caso, ricorrono con frequenza), perché “… tutto ruota intorno a sé un cerchio lento/che non si chiude resta aperto e spento…”, cerchio che, se non è la soffocante “muraglia” montaliana, non è nemmeno il “cerchio non aperto” di Blok, ma una coercizione inconscia, credo, a dover vivere questa perdurante “apertura” pur nella consapevolezza della sua illusorietà e inconsistenza, che Manzo ribadisce con lucido vigore.
Così in Ossa: “Si prosegue a salti fugacemente, anche ascoltare richiede sforzi immani/si parla solamente a e per sé stessi, tu ascoltavi il suono del mio cammino/stonato e fatto di sincopi stolte…”, ed ancora in Sequenza: “… e adesso vado a tratti e scopro vuoti, c’erano molte cose che non scordo/sei sempre lì non ti chiama nessuno…”, in un’irrimediabile solitudine e precarietà di ogni cosa umana perché “la strada non è stabile sui piedi, a rotolare la vita inizia presto”. Un paesaggio psichico, talora quasi onirico, che sembra approssimarsi, attraverso una fitta orditura di quadri poetici simbolici e metaforici, ad un’epifania, uno svelamento cui tuttavia il poeta non approda mai o mai pienamente. Nulla insomma, nell’opera di Manzo, che somigli alla madeleine proustiana ed alla sua capacità di rivelazione, più presente, a mio parere, l’atmosfera del “terrore” montaliano di Forse un mattino andando, pur senza la carica di disperazione dell’ “inganno consueto”. Prevale in Rizomi il senso di sfaldamento delle cose, di sospensione ed inappagamento, il dover vivere una Condizione di continua sottrazione, di assenza di spiegazioni, opera di un “destino” montalianamente muto, inconoscibile e inesorabile:
La condizione conduce per mano, riserva del destino che indirizza
se provi a chiedere con discrezione, con calma ti toglieranno secondi
poi i minuti infine ore giorni e mesi, tutto accade così cortesemente
sembrerebbero farti una carezza, tenuto legato a dei fili ialini
come appeso ai vetri delle finestre, che guardi la vita che non puoi avere.
Smarriti, noi umani, tra gli incroci insondabili di un Traffico assiduo, che sfianca e conduce alla resa:
… e sicuro è quello che sfugge alla mano
la distanza non si accorcia sprofonda, così si allenta e non sai bene cosa
se il traffico che assomiglia alla vita, l’interazione richiede dei codici
ma abbiamo smesso di stringerci mani, di inseguire i segnali degli occhi.
Già si è detto del carattere fortemente visivo del dettato poetico di Maurizio Manzo, anzi, cinematografico come, con fine intuizione, indica Vitagliano che pensa alle scene del cinema di Michelangelo Antonioni. Il poeta procede effettivamente secondo una tecnica cinematografica e fotografica, per sequenze di immagini, dal primo piano al campo lungo e viceversa, dalla nitidezza di un quadro lirico alla sua sfocatura, in un rapido spostamento della messa a fuoco, un susseguirsi di piani-sequenza che corrispondono alla variazione del registro linguistico-lessicale che dalla precisa determinazione di un vocabolo o di un’espressione trascorre all’allusività metaforica del verso successivo, in un movimento personalissimo che a me ricorda alcune scene del cinema di Luis Buñuel come pure molte immagini fotografiche di Henri Cartier-Bresson dove ogni elemento dell’inquadratura è chiaro e comprensibile ma, allo stesso tempo, disorientante ed enigmatico.
Una poesia, dunque, emozionante ed inquietante, che non “sazia” il lettore, non gli chiede plauso o consenso, ma lo afferra e trascina in un vortice, un gorgo di immagini ed interrogativi formalmente composti ma affatto tranquillizzanti. Versi affascinanti per la sapienza stilistica dimostrata dall’autore, ma di amara crudezza nel denudare la sofferenza e l’assurdità del vivere, il nostro galleggiare impotente in una palude dove “… affiora qualcosa incontenibile/che fuoriesce come acqua da più parti, non sai se perdi gioia o dolore.” Non rimane, per il poeta e il suo lettore, che “riprendere a camminare”, vivere nella dolente consapevolezza che, ad ogni nostro passo, ad ogni istante, “c’è sempre una domanda da domare”.
