Rock poetry by Sf: fear of music
Per associazioni di idee, in ordine sparso, sul tema del mese.
*
Fear of music, terzo album dei Talking Heads. La paura è timore reverenziale nei confronti della musica, come fosse una divinità alla quale sottomettersi per trovare se stessi.
Da lì in poi, non esisteranno più barriere di genere (nel rock).
*
Afraid of everyone. The National.
Molto americano, molto post 9/11. Come la paura della politica strisci a fianco delle paure individuali. Oltre l’ipocrisia del sistema elettorale e gli inutili piani antiterrorismo.
La paura è il più grande dei business, e per i media, l’affare supremo, garanzia di vendite e indici di ascolto, spettacolo da primissima serata.
E sotto. Oltre la tv. Oltre la radio. Sotto. Molto sotto. Un popolo in balia, impotente, impaurito, incapace di proteggere i propri figli.
Con la mia bambina sulle spalle provo
a non fare del male a coloro che amo
ma non possiedo le droghe per farcela
difendo la mia famiglia con il mio ombrello arancione
ho paura di tutti
*
Insight. Joy Division
Immagino che i sogni finiscano sempre
non si sollevino ma si abbassino
ma non mi interessa più
ho perso la forza per volere di più
non ho paura
li guardo cadere
ma ricordo
quando eravamo giovani
quelli con l’abitudine allo spreco
il loro senso dello stile e il buon gusto
accertarsi che tu avessi ragione
non lo sai che avevi ragione?
Non ho più paura
tengo gli occhi fissi sulla porta
ma ricordo…
Ian Curtis la scrive a 21 anni.
Questo talento devastante, questo tremendo potere di visione, che trascende la giovinezza, lo accomuna a Rimbaud. Solo che il suo suicidio non è stato solo artistico.
Se si smette di avere paura della morte, si diventa immortali?
*
Vasco Rossi, nel suo (finto?) modo sfacciato e sbruffone di prendere la vita, inneggia alla cultura della sopravvivenza ai propri miti, al diritto umano alla contraddizione, alla debolezza, alla caduta. Alla paura. E’, nell’immaginario collettivo, ma non solo, il ragazzo della porta accanto. Quello che ce l’ha fatta. E’ il cantante di rock italiano più vicino al sogno americano.
Lo so
cos’è la marea
io lo so
com’è sentirsi a terra
Io non ho paura
di restare solo
quando lo dico mi vengono i brividi
davvero
Sono così insicuro
che non credo a niente
non ho paura di nessuno ma
ho paura sempre
*
La paura, è anche un brano di Gaber.
Un’ombra, nella notte, in una strada deserta, ci viene incontro.
Tiene qualcosa in mano, che di certo è fatta per ferirci, per ucciderci.
Non possiamo scappare perché ogni fuga crea una preda.
Quindi proseguiamo, nel terrore, fino a che l’ombra non è talmente vicina da capire di chi si tratta. E di scoprire cosa tenga davvero in mano.
Esistono due finali, uno più antico, dissacrante. Uno più recente, moralista. Erano cambiati i tempi. Era cambiato Gaber.
Il brano no. Ascoltato oggi, dà l’impressione che sia stato scritto per noi, per le nostre paure, per le nostre città.
Gaber si era inventato il teatro canzone, una forma stupefacente di coercizione al pensiero libero. Entravi, ti sedevi, ascoltavi la sua voce, ridevi (molto) ed eri obbligato a pensare, a pensarti. Tutto il contrario dell’evasione. Era impegno, occupazione del palcoscenico da parte dell’attore e insieme del suo pubblico. Era la realizzazione del rivoluzionario concetto di partecipazione.
Cosa ha a che fare questo con il rock?
Nulla, forse.
*
Neppure Paolo Borsellino ha a che fare con il rock. Ma è con lui che concludiamo.
Chi ha paura muore ogni giorno. Chi non ha paura muore una volta sola.
*