Rock poetry by Sf: Bruce e gli altri (lavoro e non lavoro nell’era degli schiavi salariati)
Se il rock sia (o possa essere) poesia, è una disquisizione che rimandiamo.
Per ora, in una rubrica dal titolo come questa, continuiamo a “pretendere” che lo sia.
Dalla nostra parte abbiamo il nobel per la letteratura a Bob Dylan, il nostro amore per le contaminazioni, e testi memorabili di autori memorabili.
E se non vogliamo definirli poesie, perchè senz’altro nel rock la musica ha la meglio sulle parole (soprattutto per “stranieri” come noi, che non siamo di lingua inglese), allora chiamiamole canzoni, con buona pace di tutti.
Borges diceva che i libri parlano di altri libri.
Anche nel rock è così. I testi parlano di altri testi.
Quando esce “Il fantasma di Tom Joad” Bruce Springsteen è già famoso, ricco, lontano dalla realtà della working class dove è nato e cresciuto e dalla quale è fuggito grazie alla musica.
Eppure, continua ancora a raccontare di quelli che lì ci sono rimasti, o peggio, non ci sono più perché hanno perso lavoro, casa, dignità e hanno visto il loro personalissimo sogno americano andare in frantumi.
La coscienza di classe, Bruce Springsteen, non l’ha persa col tempo.
Fa quello che ha sempre fatto.
E’ un narratore orale, un costruttore di testimonianze, un “cantante di storie”, che si trasformano in semi di pensieri, di valori, di sogni. e si conficcano nella mente di chi ascolta.
Nel 1995 l”America è in piena recessione. Li chiamano nuovi poveri, ma assomigliano a quelli degli anni venti e trenta, quaranta. Perché i poveri hanno questa certezza, che assomigliano sempre a se stessi, in qualsiasi epoca o latitudine.
E qui, si rincorrono tre testi, tre momenti della storia americana (e di quella umana), tre momenti d’arte fusi con quella enorme colata di dolore e di fatica e di lotta, che è la Storia dei senza nome, degli invisibili.
Uno
All’inizio c’è Joe Hill, sindacalista, rivoluzionario, autore di canzoni, convinto che queste, più di articoli e volantini, piantassero semi di rivolta nelle coscienze dei lavoratori.
Nel 1915 è giustiziato per un omicidio che non ha commesso.
Alfred Hayes, in occasione del decennale della morte di Joe Hill, scrive una poesia, che Earl Robinson mette in musica nel 1936. E diventa una canzone di lotta, un inno per i lavoratori.
Joe Hill appare in sogno. E dice che non morirà, che ci sarà sempre.
“Ho sognato di vedere Joe Hill la scorsa notte”
Ho sognato di vedere Joe Hill la notte scorsa.
Vivo come me e te.
Dico “Ma Joe, sei morto da dieci anni”.
“Non morirò mai” dice lui.
A Salt Lake, Joe, gli dico
mentre lui sta seduto sul mio letto
Ti hanno incastrato in un caso di omicidio
Dice Joe: Ma non sono morto”
I padroni del rame di hanno ucciso Joe
ti hanno sparato Joe
“Ci vuole ben più delle armi per uccidere un uomo”
Dice Joe “Non sono morto”
Ed ergendosì lì forte come la vita
con gli occhi sorridenti
Joe dice: Quello che non potranno mai uccidere
è il continuare ad organizzarsi”
Da San Diego fino al Maine
in ogni miniera e fabbrica
dove i lavoratori difenderanno i propri diritti
lì troverai Joe Hill
Due
Poi c’è il libro di John Steinbeck, 1939, “The grapes of wrath” (“Furore” nell’edizione italian), storia della migrazione della famiglia Joad, dall’Oklahoma alla California, all’epoca della grande depressione.
Tom Joad, verso la fine del libro, parla alla madre.
“Io ci sarò sempre, ovunque, nel buio. Sarò dappertutto. Ovunque guarderai.
Ovunque ci sia lotta per sfamare chi ha fame, ci sarò.
Dove c’è un poliziotto che picchia qualcuno, ci sarò.
Sarò nelle grida di quelli che si ribellano, e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta.
E quando la nostra gente si ciberà di quello che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito, io sarò lì.”
(E poi, per completezza, c’è anche un film, di John Ford, del 1940, dove Tom Joad è interpretato da un giovane Henry Fonda e chi si ricorda questo film, leggendo le parole di Tom, vede il suo volto.)
Tre
Bruce Springsteen sovrappone le diverse epoche, le situazioni economiche, le vicende diverse, la gente, e le diverse narrazioni. Le mette le une sulle altre come ritagli di disegni apparentemente difformi. E si accorge che coincidono, perfettamente. E compongono un unico universale coagulo di fatica, di perdita, di miseria, di speranza. E di resistenza.
Bruce Springsteen
“The Ghost Of Tom Joad”
Uomini in cammino lungo i binari
diretti da qualche parte, senza ritorno
Elicotteri di pattuglia si ergono dai crinali
Zuppa calda in un fuoco da campo sotto al ponte
la linea dei rifugi si allunga oltre l’angolo
benvenuti nel nuovo ordine mondiale
famiglie che dormono nelle loro auto nel sud ovest
né casa né lavoro né pace né riposo
La strada è viva questa notte
ma nessuno si fa illusioni su dove è diretto
sto seduto qui alla luce del fuoco
cercando lo spettro di Tom Joad
Tira fuori un libro di salmi dal suo sacco a pelo
il predicatore si accende un mozzicone e dà un tiro
aspettando il momento in cui gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi
In una scatola sotto il ponte
hai un biglietto di sola andata per la terra promessa
hai un buco nella pancia e una pistola in mano
dormi su di un cuscino di solida roccia
fai il bagno nell’acquedotto cittadino
La strada è viva questa notte
dove conduca nessuno lo sa
sto seduto qui alla luce del fuoco
aspettando lo spettro di Tom Joad
Ora Tom dice: mamma, ovunque ci sia un poliziotto che picchia qualcuno
ovunque un neonato affamato pianga
ovunque ci sia lotta contro il sangue e l’odio
cercami, mamma, sarò lì
ovunque ci sia qualcuno che lotta per il posto dove stare
o un lavoro decente o un aiuto
ovunque qualcuno lotti per la libertà
guardalo negli occhi, mamma, e vedrai me
La strada è viva questa notte
ma nessuno si fa illusioni su dove è diretto
sto seduto qui alla luce del fuoco
insieme al fantasma di Tom Joad
Fonti e ringraziamenti
Grazie ad Alessandro Portelli, e al suo bellissimo libro “Badlands – Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni” (Donzelli editore, 2015), senza il quale non sarebbero potuti esistere né questo articolo né l’intervento al convegno di sabato scorso a Polverigi, “La poesia del lavoro che cambia”, nell’ambito del premio “Poesia senza confine”.