Rosso pompeiano, rubrica d’arte di Raffaella Terribile. 4^ puntata.
I gatti di Leonor

Oh cara Leonor
mio bel gufo incantato,
dove ti posi
l’aria diventa un nido d’oro
Elsa Morante, 15/1/1953
“Ciò che mi stupisce sempre è che essi avrebbero potuto restare piccoli felini indomabili e crudeli come i loro selvaggi fratelli dalle orecchie sempre appiattite. Lo penso spesso nel sentire i loro aguzzi artigli, nel vederne le zanne affilate. Ma Colui che muove il mondo li ha voluti accessibili, amici e spesso tremanti di dolcezza. A volte con la gola rossa spalancata, la gobba, la coda a spazzolone, lo sguardo fisso e feroce, si tramutano nei più terribili draghi d’Oriente. Ma basta che io posi la mano sulla loro fronte, sulla gola, la immerga nella pelliccia, ed eccoli ridiventati i più leali e fedeli messaggeri mustacchiuti di un paradiso che forse non abbiamo completamente perduto…”.
Pochi artisti hanno saputo abbinare allo stesso modo la passione per un animale domestico e quella per il proprio lavoro in una simbiosi così perfetta. La prima volta che Leonor si innamorò di un gatto fu all’età di undici anni. Il carattere onirico, sognante, vagamente inquietante dello stile di Leonor si rispecchia nella sinuosa eleganza del gatto, presenza silenziosa nella casa, enigmatica e simbolicamente allusiva. Quando lavora, Leonor è sempre in compagnia dei suoi gatti, di cui apprezza la calma e il magnetismo dello sguardo, quasi magico, numi tutelari, angeli onnipresenti, creature fatte di grazia e di bellezza: “I gatti bisogna viziarli, coccolarli e ogni tanto cantare loro una canzone...”. E amava ripetere: “Io sono la figlia di una donna e di un gatto. Mio padre è nientemeno che Sua Maestà il Gatto, lo provano i miei occhi: guardali, sono occhi felini”.
Nata a Buenos Aires nel 1908 da padre argentino e madre triestina, a due anni era giunta a Trieste, quando la madre, abbandonato il marito, aveva fatto ritorno nella casa paterna di via Carducci. Artista trasgressiva, raffinata e poliedrica, donna affascinante, sensuale e anticonformista, crebbe artisticamente nella Trieste mitteleuropea anni Venti, amica di Arturo Nathan e Carlo Sbisà, Italo Svevo e Umberto Saba. Da Nathan attinse l’interesse per la metafisica di de Chirico e per la rappresentazione della propria immagine interiore attraverso visioni fantastiche. Partecipò dal 1928 al 1930 alle collettive organizzate a Trieste dal “Sindacato fascista di belle arti” e nel 1929 alla mostra organizzata dalla Galleria Barbaroux a Milano, dove si trasferì appena ventenne. Il contatto con l’ambiente artistico milanese, quello novecentista (Carrà, de Pisis, Campigli, De Chirico, Tozzi) fu determinante, come l’apprendistato con Achille Funi, suo mentore e amico. Memorabile in quel periodo la lite con Margherita Sarfatti. A Milano studiò alcuni grandi maestri del passato, il Quattrocento italiano, i manieristi lombardi e fiorentini, ammirando le opere dei Primitivi, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Signorelli, e le stravaganze di Pontormo, Beccafumi, Bronzino. Ma, da orgogliosa autodidatta, pittrice per vocazione e contro il volere della famiglia, dirà: “Non ho mai frequentato le scuole d’arte. Ho imparato guardando i dipinti che mi attiravano. Prima di saper dipingere, sempre che questo si possa imparare, bisogna saper vedere.”
Se da un lato la grande città le aveva permesso di conoscere artisti come Giorgio De Chirico, Mario Sironi e Achille Funi, dall’altro la aveva fatta scontrare con un mondo dell’arte ancora impreparato ad accogliere una donna artista e a riconoscerle credibilità. Il rientro a Trieste sarà solo temporaneo: quella città, passata dall’Impero austroungarico a un’Italia che si rivelava assai poco affascinante, cominciò a diventarle stretta, e decise di spiccare il volo a Parigi, sulle tracce dei Surrealisti, portandosi dietro l’amore per i felini, per i travestimenti, per il mistero, e la voglia di stupire. Sempre. Perché lei è già Leonor Fini. L’artista. La donna gatto. A Parigi si fece presto notare con opere permeate da atmosfere rarefatte, sospese, inquiete e vibranti, che attingevano dal mondo del sogno e dell’inconscio un vocabolario di segni e di figure di giovani ninfe esangui, silenziose enigmatiche e bellissime, che rispecchiavano anche il tipo fisico di Leonor: alta, sottile, grandissimi occhi neri dai riflessi blu, intensi e febbrili, un volto minuto dai tratti delicati incorniciato da una massa di capelli neri.
Pittrice indipendente nelle scelte, non si assoggettò mai alla dittatura di Breton: come un piccolo affluente tranquillo dal grande fiume irruente del Surrealismo, alla lingua violentemente “urlata” dal punto visivo Leonor contrappose un canto sussurrato con cui raccontare fiabe preziose, mettendo in scena figurine evanescenti per una piccola setta di raffinati curiosi del mistero delle cose, scrutatori dell’inconscio, appassionati del simbolo e dell’arcano. Un mondo popolato di sogni, leggero quanto rigorosamente definito da uno stile e da una iconografia che rendono le sue opere uniche e inconfondibili: uno stile libero da scuole, regole e modelli, frutto di contaminazioni di genere e linguistiche, fedele nel tempo alle delicate fiabe poetiche popolate di gatti e di figurine femminili eteree e quasi infantili, che si muovono su uno scenario da sogno, protagoniste assolute di un racconto per immagini che si moltiplica incessantemente come nel riflesso di innumerevoli specchi, infinita metamorfosi dell’impossibile, lontana dalla corrosiva icasticità di Ernst.

Fin da bambina aveva imparato a infischiarsene delle regole e delle convenzioni borghesi, tanto da apparire agli occhi dei benpensanti come una moderna strega: «Hanno paura di me perché faccio i sortilegi a uomini e donne. Io li guardo e quelli mi seguono!». Osservava uomini e donne con le pupille a fessura dei gatti, come diceva lei stessa, con lo sguardo innocente e magico di quegli esseri fantastici dotati di baffi e coda che aveva imparato ad amare fin da piccola, quando pretendeva che sua madre, se travestiva lei da marinaretto, applicasse all’adorato Cioci, il gatto di casa, delle ali colorate da farfalla. Del resto, non era nata lei stessa da una donna e da Sua Maestà il Gatto? E dietro quello sguardo viola, malandrino e incantatore, che non tollerava di essere imbrigliato, c’era sempre una grande voglia di stupire, di raccontarsi attraverso le immagini, il travestimento, la maschera, la provocazione: “Quando ero bambina detestavo farmi fotografare. Fuggivo. Mi coprivo il viso. Poco a poco ho trovato interessante avere un viso, conferma della mia esistenza. Dagli specchi sono passata alle fotografie. Ma non amo le istantanee, niente è più falso del naturale stereotipato. E’ la posa che è rivelatrice, e io sono curiosa e divertita di vedere la mia molteplicità affermata da queste immagini. Mi si dice: Avresti dovuto fare l’attrice. No: solo l’inevitabile teatralità della vita mi interessa”. Molto proficui furono perciò i rapporti con la Fotografia, dagli anni Trenta in poi: da Cartier Bresson a Richard Overstreet, da Veno Pilon ad Arturo Ghergo, da Erwin Blumenfeld ad André Ostier e a Eddy Brofferio, tutti i grandi fotografi vollero ritrarla mettendo in risalto il suo eccezionale talento di modella e realizzando immagini che in molti casi sono degli autentici capolavori.
Nel 1931, approdata a Parigi, la sua formazione e sensibilità l’avvicinarono ai Surrealisti con i quali espose più volte. Ma dai Surrealisti si tenne a debita distanza, rifiutando l’invito di André Breton di aderire al movimento per restare indipendente: “Sono cresciuta in un ambiente intellettuale e ho avuto assai presto l‘occasione di irritarmi sia per i pregiudizi delle avanguardie che per quelli della borghesia”. Tuttavia fu presente alla mostra Fantastic Art, Dada, Surrealism al Moma di New York del 1936 con gli amici Dalì, Ernst, Giacometti e Meret Oppenheim. Patrick Waldberg nella sua monografia su Max Ernst così la descrive: “Alta, dal portamento superbo, con i capelli e gli occhi di un nero bluastro, ecco come appariva Leonor Fini, attirando nella sua scia l’ignaro passante strappato al proprio torpore. Max Ernst amava in lei la furia italiana, l’eleganza scandalosa, il senso della festa e anche questa passione per l’equivoco, per i turbamenti provocati a seconda del capriccio”. A Parigi la sua carriera procedette tra gli onori, la mondanità e gli scandali; incontrò Man Ray, Georges Bataille, Henri Cartier-Bresson. Sviluppò temi molto personali, dipingendo con stile incisivo donne in movimento, nude o drappeggiate di tessuti leggeri come Le iniziali. Nel panorama internazionale è figura controversa, perché donna artista e mito di se stessa, totalmente indipendente e di difficile classificazione, spesso fraintesa anche a causa delle sue eccentricità: tranne il primo periodo parigino nel quale ebbe accanto a sé Andrè Pieyre de Mandiargues, visse con più di un uomo. Realismo magico è stata considerata la miglior definizione della sua pittura. Jean Cocteau la definì invece Realismo irreale, poiché tutto il soprannaturale era per lei naturale. Dipingeva metamorfosi bizzarre, ma senza l’inquietudine di Ernst, creava atmosfere sospese popolate di esili figure femminili, immobili e dormienti con gli occhi serrati e le labbra dischiuse come bambine maliziose (Les Dormeuses), donne enigmatiche, prigioniere dentro stanze vuote dove improvvisa prendeva vita una visione di fuoco, o immerse fino al mento in acque buie che sembravano risucchiarle in apparizioni opalescenti: opere fatte di vertigine come le definì Ernst.
Durante la Seconda Guerra Mondiale si trasferì a Montecarlo e poi rientrò in Italia, a Roma, dove frequentò Alberto Savinio che così descrisse il suo vasto atelier sul tetto del Palazzo Altieri: “ Non si respira aria di lavoro in questo luogo. Le tele della Fini si mescolano ai mobili, agli oggetti e alle stoffe in questo salone senza soluzione di continuità, come se tele e oggetti e mobilio fossero alberi di una stessa foresta”. Una foresta magica dove Leonor si aggira, sacerdotessa dell’arte misteriosa di ricreare i sogni sulla tela, quasi un personaggio, lei stessa, del suo universo immaginifico. Sono degli anni Cinquanta alcune sue opere di straordinaria bellezza come La pensierosa e L’avvolgimento del silenzio. Si rifugiò due estati in Corsica, prendendo in affitto un vecchio monastero andato in rovina presso Nonza e si dedicò alla serie delle Guardiane, donne sfingi che regnano su una natura ancestrale e primitiva, dai colori minerali; dipinge scheletri e affronta il tema del doppio, una riflessione sull’identità che diventa uno dei suoi motivi prediletti. Lo scrittore polacco Kostantin Yelensky, che visse con lei, scrisse che la sua società immaginaria è dichiaratamente matriarcale nella misura in cui essa ricrea l’organizzazione spirituale delle società primitive, di natura, appunto matriarcale. Tuttavia, questo non vuole essere segno di un’ipotetica superiorità femminile, bensì dell’appartenenza naturale ad una cultura antichissima. Alle radici stesse della storia.
Finì per legarsi allo scrittore André Pieyre de Mandiargues, che alla fine le preferirà Bona De Pisis, nipote del pittore. Dopo un matrimonio presto fallito, iniziò un triangolo amoroso con i due uomini della sua vita: il console Stanislao Lepri, che per lei abbandonò la carriera diplomatica per dedicarsi alla pittura, e Kostantin Yelensky (Kot), un giovane intellettuale polacco. Un legame fatto di convivenza e di fedeltà durato 37 anni, fino al 1980, con la morte di Lepri. Negli ultimi anni Trenta diventò la ritrattista di tutta l’aristocrazia parigina, animatrice della vita mondana sempre da protagonista. La vita come opera d’arte. Con l’arrivo della guerra si trasferì a Roma (dal 1943 al 1946), frequentò da amica i salotti di Fellini, Moravia e Elsa Morante, conobbe Mario Praz e Fabrizio Clerici, tutti volevano essere ritratti da lei (come Anna Magnani, Alida Valli, Valentina Cortese). Alternava i periodi romani a lunghi soggiorni estivi passati presso la torre di Anzio, un’antica torre di avvistamento sul lungomare che lei affittava di anno in anno oppure presso il monastero abbandonato di Nonza, in Corsica, dove riuniva i suoi amici più intimi per dei veri e propri sabba basati sul travestimento, sulla fotografia, sulla pittura e sul disegno. Tra i suoi ospiti Enrico Colombotto Rosso e Dorothea Tanning, moglie dell’amico Max Ernst. La critica italiana però la snobbava, considerandola poco più che merce da rotocalco, oggetto di scandali e di pettegolezzi. Quando, nel 1945, Alberto Savinio presentò la sua personale di Roma, tutta la critica impegnata di quegli anni la isolò, bocciandola come epigona del Romanticismo e considerando la sua pittura troppo intellettuale e letteraria: anche se i suoi dipinti, riconobbe Guido Piovene, sono “belli come un oggetto della bellezza di un fossile e di una gemma” non si può dire che “partecipino allo sviluppo vivo della pittura”. Poco male: rientrata a Parigi dopo la fine della guerra, bellissima e corteggiatissima, ritrovò vecchie amicizie e strinse nuovi legami, lavorando intensamente su più fronti, pittura, teatro, illustrazione, e incontrando un consenso sempre più ampio da parte della critica e dei collezionisti. La sua pittura, ambigua e misteriosa, si nutriva di una straordinaria capacità di vedere oltre le apparenze, di sondare le paure umane, di dare forma ai sogni, ma in maniera leggera, “trasparente”. Circondata da amici fedeli e da frotte di ammiratori, si muoveva con leggerezza anche nella sfera della mondanità e della moda, portando sempre un tocco di originalità e di follia. Donna-gatto delle sontuose feste parigine del dopoguerra, figura trasgressiva dalla sensualità mondana, incarnò l’archetipo tardo romantico della Belle Dame sans merci, femme fatale, la donna libera da pregiudizi e dal conformismo benpensante borghese. Diceva che gli uomini si distinguevano in uomini gatto e uomini cane: i primi erano rifiutati perché lei amava troppo i gatti, gli altri le piacevano perché erano animati da sciocca bontà e l’accontentavano. Importanti artisti le furono in quel periodo vicini: Stanislao Lepri, Enrico Colombotto Rosso, Leonardo Cremonini. Posò per Cartier-Bresson, Man Ray e Cecil Beaton. Fu un trionfo anche a New York, quando giunse con Max Ernst per esporre insieme alla Galleria Levy e dove fu introdotta nell’ambiente del Moma allora diretto dal mitico Alfred Barr. Alla “sacerdotessa nera”, Gabriel Poumerand dedicò un film, La leggenda crudele. Jean Anouilh volle che le scene e i costumi del suo balletto sui gatti, Les demoiselles de la nuit, fossero disegnati da lei. Nel 1965 la mostra a Knokke-le-Zoute riunì quasi un centinaio di dipinti e altrettante opere grafiche accanto alle retrospettive di Max Ernst e Magritte. La poesia illuminava già agli esordi la sua vita parigina, Paul Eluard le aveva dedicato versi in profonda amicizia (Tableau noir, 1936). Ma, dall’inizio degli anni Quaranta, il disegno di Leonor si abbinò alla scrittura, illustrando libri di poeti e letterati da lei frequentati: gli amici parigini André Pierre de Mandiargues, Jacques Audiberti, Jean-Paul Guibbert, Jean Cocteau, Marcel Béalu, Lise Deharme, Yves Bonnefoy, Gilbert Lely – per citarne alcuni – assieme a grandi scrittori del passato che l’avevano ispirata come disegnatrice e pittrice (Verlaine, Baudelaire, Poe, Balzac, Racine, Shakespeare). lllustrò opere di André Pieyre de Mandiargues, Sade, e il celebre romanzo Histoire d’O di Pauline Réage, una passione per l’illustrazione che durerà fino agli anni ’70 con alcune tra le raccolte forse più spettacolari della sua opera grafica, declinata nelle tecniche amate (matita, acquaforte, gouache, acquarello, china) accanto alle litografie di mano di Cécile Reims Deux, graveur amica di Leonor con cui aveva instaurato un sodalizio artistico ventennale.

Continuò a dipingere luoghi sospesi tra l’immaginario e il reale: quadri popolati da figure sensuali e barocche, gatti, maschere, conchiglie, ossa e teschi umani. L’attività come creatrice di scenografie e di costumi si situa tra gli anni Cinquanta e Sessanta, tra Milano – dove lavorò con Giorgio Strehler (realizzando i costumi per La vedova scaltra di Goldoni messa in scena nel 1953 al Piccolo Teatro di Milano) – e Parigi. Un periodo d’oro, quello tra il 1946 e il 1954, fatto di riconoscimenti, ricchezza, interessi diversi: scrisse ed illustrò lei stessa dei libri e altri li scrissero su di lei. Ma anche le arti applicate, le maschere (da gatto, naturalmente), i costumi, i profumi, i vini, una vita frenetica in continuo spostamento tra Parigi, Londra, Roma e Milano, sempre al centro della vita mondana. Pur essendo una parte meno consistente della sua attività, l’impegno per il teatro rappresenta un capitolo di fondamentale importanza, alimentato di un’attitudine innata per il mascheramento e la finzione, dove il suo talento si mostrò straordinario, in un caleidoscopio di trasformazioni e camuffamenti da gran Ballo in Maschera: bautte nere con antenne tremolanti, teste di gatto, penne di pavone. Ma è un ballo silenzioso, quello di Leonor, incrinato da una malinconia che fa vibrare l’aria, fatto di gesti lenti e misurati, quasi una liturgia laica, con varianti minime, per non rompere l’incanto di quel limbo decorato e fragilissimo. “Ancora piccola ho scoperto, da un giorno all’altro, che mi attiravano le maschere e i costumi. Travestirsi è un modo per cambiare dimensione, specie e spazio. Significa sentirsi giganteschi, diventare vegetali, diventare animali, sino a sentirsi invulnerabili e fuori dal tempo, ritrovarsi, oscuramente, in riti dimenticati. Travestirsi è un atto di creatività. E’ una rappresentazione di sé e dei fantasmi che si portano in sé”: e così eccola apparire dietro l’obiettivo di fotografi come Cartier-Bresson con il capo coperto di piume, un diadema di corna, abiti lunghi che la trasfigurano in una creatura femmina e selvaggia, capace di ammaliare con i suoi occhi neroblu. Leonor era ormai entrata nel mito, mito lei stessa, “splendida diavolessa”, “furia italiana”, come la chiamava Max Ernst.


Ma due mondi apparentemente agli antipodi si intrecciavano, sovrapponendosi: l’artista narcisista e trasgressiva, gaudente e salottiera, mondana e scandalosa, e la donna “privata”, profondamente melanconica, ripiegata nella riflessione dolorosa sugli enigmi dell’esistenza, una parte di lei, quest’ultima, che si fece sempre più invadente con il passare del tempo. Verso la fine degli anni Settanta, la sua pittura divenne più introspettiva, orientata verso tematiche nordiche ispirate anche da Heinrich Fussli e William Blake: sono gli anni della cosiddetta Kinderstube, ovvero la “Camera dei ricordi”, una raccolta di scenari irreali con figure femminili sospese tra la sfinge e la bambola circondate da esseri inquietanti e asessuati. Il richiamo all’eros è sempre più evidente, le figure danzano su uno sfondo scuro opprimente e le composizioni sembrano uscire dall’allestimento teatrale di un’opera di Ibsen. Dal 1992 scelse l’isolamento dal mondo: la regina della mondanità internazionale decise di andare in esilio volontario in una fattoria di campagna a Saint-Dyé-sur-Loire. Pochi la ricordano, gli amici di un tempo sono morti, gli uomini che l’hanno amata non ci sono più. I momenti di malinconia, ora più frequenti, gettarono ombre sempre più lunghe da cui uscire diventava ogni volta più difficile: bastava la malattia di uno dei suoi innumerevoli gatti a mandarla in depressione e il richiamo dell’arte finì per non essere più sufficiente a placarla. La parabola discendente del declino arrivò a toccare la fatale dimensione dell’oblio e, nella solitudine dell’età, rimasero solo i suoi gatti a renderle omaggio. Se ne andò dal mondo il 18 gennaio 1996: come ultimi compagni di viaggio volle accanto a sé i due uomini della sua vita, Kot e Stanislao, amati contemporaneamente e riuniti in un abbraccio nel piccolo mausoleo a tre che svetta in un piccolo camposanto nella campagna francese. La donna sfinge, la donna gatto, l’icona di un’epoca, la pittrice che in giorni lontani vendeva meglio di Picasso, dimenticata dai francesi e dagli italiani (questi ultimi probabilmente mai la capirono fino in fondo, nonostante tardivi riconoscimenti), uscì dalla vita silenziosa e leggera come un gatto, per percorrere le dimensioni di un fragile sogno dai colori minerali a lungo vagheggiato.

