Rosso pompeiano, rubrica d’arte di Raffaella Terribile. 9

Rosso pompeiano, rubrica d’arte di Raffaella Terribile. 9^ puntata.

      

    

Otium cum dignitate

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Otium e Negotium: cosa pensavano gli Antichi

All’inizio c’era l’Otium, quello della vita tranquilla e libera da ogni tipo di impegno, gli otia dia di Lucrezio (De Rerum Natura, V, 1381), i giorni beati che Virgilio descrive nelle Georgiche (vv. 490-528), ma dopo Saturno, re agricoltore e non solamente pastore, il Lazio conosce un’epoca di fatica, di lavoro forzato e tirannico, che si chiama Negotium, legato allo sviluppo dei bisogni e dei mestieri agricoli, successivi alla civiltà pastorale. E’ allora che l’attività pratica assume un valore preponderante nell’esistenza del civis romanus, tutto foro e bottega, dedito al profitto e all’attività pubblica, mentre la contemplazione oziosa è tipica di quei Greci inurbati persi in chiacchiere e di quei Romani che danno scandalo incuranti dei buoni costumi degli antenati. Otium-Negotium è dunque contrapposizione antica, che sta alla base della concezione dell’esistenza nella Classicità e ha condizionato in maniera notevole anche l’arte e la cultura di due momenti importanti, l’Antichità romana e il Rinascimento, con una memoria che resta sotto i nostri occhi e che ci regala lo spettacolo di splendide ville di campagna. Anche nell’antica lingua greca esiste l’opposizione ascholía (occupazione) con alfa privativo (alla quale, in latino, corrisponde il prefisso neg-) – scholé (tempo libero, ozio), equivalente al latino otium,, con una singolare inversione del termine principale e di quello derivato per negazione a dimostrazione, forse, di una diversa mentalità che assegnava alla riflessione e alla contemplazione un ruolo ben più importante e positivo rispetto a quello che la società romana era disposta inizialmente a riconoscere. Infatti, mentre i negotia, almeno fino all’epoca di Cicerone (I sec. a.C.) sono ineludibili perché legati alla visione tradizionalista romana e al senso morale del mos maiorum, nella letteratura greca filosofica, da Platone ad Epicuro, le ascholíai sono viste come importune, fastidiose, e la scholé invece come un valore assolutamente positivo per l’umanità. Con la conquista della Grecia e dell’Oriente ellenistico e la conseguente penetrazione della cultura greca a Roma, il profondo processo di ellenizzazione dei costumi modificò anche i valori tradizionali. Così, anche per i Romani gli svaghi e gli impegni della vita pubblica divennero una piacevole alternanza… almeno a parole. Infatti Cicerone, che predicava bene ma razzolava male, scrive (De Officiis, III, 1) “Nostrum autem otium negotii inopia, non requiescendi studio constitutum est” (il mio ozio, invece, è imposto non già dal desiderio di quiete, ma dal non aver più nulla da fare) e, nel De Oratore (I, 1-2) parla addirittura di “otium cum dignitate”, dove con dignitate si intende l’attività propria dell’uomo libero, che può scegliere come impiegare il proprio tempo per scopi personali, operando così una sottile distinzione tra l’otium nobile e liberamente consentito e il ritiro forzato dell’uomo di stato deluso, non otiosus ma impegnato in nobili occupazioni private, segno certo di una certa resistenza, almeno formale, nell’ammettere la liceità di uno stile di vita “disimpegnato”, che si allontanava dai canoni tradizionali. Ma già nel secolo precedente si era tentata un’apertura alla cultura ellenizzante e all’importazione a Roma di una visione della vita più moderna e culturalmente raffinata ad opera dall’ambiente aristocratico vicino al Circolo degli Scipioni. Questi ultimi, profondamente influenzati dalla cultura greca, contrapponevano alla visione tradizionalista di Catone il Censore e alla visione morale e moralista del negotium come unica attività qualificante il cittadino romano l’idea dell’otium aristocratico. A questo ambiente culturale si può ricondurre il poeta Lucilio, il primo aristocratico municipale a rifiutare i negotia e l’attività pubblica in genere in nome di una più libera attività individuale, rivolta alla meditazione, e della rivalutazione della funzione naturale del riposo. Anche il più cauto e tradizionalista Cicerone, alle prese con lo sforzo titanico di conciliare l’impossibile, ossia la tradizione romana antica, quella del mos maiorum, e l’irresistibile fascino della cultura greca, nel De Re Publica ammette che “l’anima ha bisogno di rilassarsi” in quelle attività piacevoli che lui certamente ben conosceva nelle sue ville, circondato dalla bellezza di antiche statue greche di cui era appassionato collezionista, in un’epoca in cui era politicamente scorretto e quindi anche poco conveniente mostrare troppa familiarità con una cultura filellenica. Ma il poeta che più di tutti si sente fino nel profondo appartenere all’ideale aristocratico dell’otium è Ovidio che, nell’esilio a Tomi, sul mar Nero, nell’opera Tristia (I, 39-42) fa coincidere l’otium con l’attività letteraria: uno scrittore per scrivere ha bisogno di otium: Carmina proveniunt animo deducta sereno; / nubila sunt subitis pectora nostra malis. / carmina secessum scribentis et otia quaerunt; / me mare, me venti, me fera iactat hiems (La poesia nasce da un animo sereno, e sul mio cuore gravano le nubi di un’improvvisa sciagura. La poesia richiede una vita appartata e quieta e io sono sballottato dal mare, dai venti e dalla furia dell’inverno). Ancora Ovidio, in un altro passo dei Tristia, si mostra come il poeta votato all’otium per eccellenza: Quique fugax rerum securaque in otia natus, / mollis et impatiens ante laboris eram, / ultima nunc patior… (II, 2, 9-11): “Io che sfuggivo la vita indaffarata ed ero nato per un’esistenza tranquilla e senza impegni, io che prima ero delicato e incapace di sopportare la fatica, ora affronto situazioni estreme…”. L’eco dei versi di Ovidio ritornerà, molti secoli più tardi, nelle Satire di Ludovico Ariosto, dove il poeta del Furioso esalterà, in chiave letteraria, il primato della sfera privata e dell’otium letterario come manifesto di una humanitas che sente troppo stretti i lacci del rapporto intellettuale-potere e il ruolo del poeta-cortigiano, a lui poco congeniale. Tibullo, in Elegie I, 1, 25-28, esprime la sua concezione di vita serena finalmente raggiunta: Iam modo iam possim contentus vivere parvo nec semper longae deditus esse viae, sed Canis aestivos ortus vitare sub umbra arboris ad rivos praetereuntis aquae (Ormai finalmente, ormai possa io vivere contento del poco né essere soggetto sempre a lunghi viaggi, ed evitare il sorgere estivo della Canicola all’ombra di un albero, presso ruscelli d’acqua corrente”). Perfino le gioie dell’amore richiedono l’otium: quam platanus vino gaudet, quam populus unda / et quam limosa canna palustris humo, / tam Venus otia amat; qui finem quaeris amoris, / cedit amor rebus; res age: tutus eris (Remedia amoris, 141-144): “Come il platano ama la vite, il pioppo l’acqua, le canne di palude la terra limacciosa, così Venere ama il tempo libero: tu che vuoi la fine di un amore datti al lavoro e sarai al sicuro: l’amore si ritira di fronte alle attività”. Un significato molto simile a quello greco assume la contrapposizione latina otium-negotium in Seneca: “Otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura (il riposo senza gli studi equivale alla morte, è la tomba di un uomo vivo, Ad Lucilium, X 82). Ancora Seneca, nel De brevitate vitae, riconosce pienamente l’otium come stile di vita (XII-XIII): il tempo libero deve essere legato alla cura di se stessi e, in definitiva, la vera libertà coincide con l’uso libero del proprio tempo, come già affermato in VII, 5: Magni, mihi crede, et supra humanos errores eminentis viri est nihil ex suo tempore delibari sinere, et ideo eius vita longissima est, quia, quantumcumque patuit, totum ipsi vacavit: “Credimi, è proprio del grande uomo che eleva se stesso sopra tutti gli errori umani non permettere che gli venga sottratto niente del suo tempo, e perciò la sua vita è lunghissima, qualunque sia stata la sua durata, poiché è sempre stato libero per se stesso”, concetto ribadito nel De Otio, scritto nel momento dell’abbandono della vita pubblica e autentico manifesto dell’ozio contemplativo (62 d.C). Osservando le tarsie lignee dello studiolo di Federico di Montefeltro, nel Palazzo Ducale di Urbino, non può sfuggire il dettaglio dei libri appoggiati in un armadio, compagni della solitaria meditazione del duca quando, tolta finalmente la corazza e dimessi i panni dell’uomo di stato, poteva concedersi il tempo di un dialogo silenzioso con “Tulio” e con “Seneca”.

L’elenco di citazioni non pretende di essere esaustivo, ma utile per comprendere un concetto fondamentale, filtrato poi dalla cultura romana – attraverso i Classici – nel Rinascimento Italiano; il senso principale dell’otium, la sua energia positiva riposta proprio in questo essere per se stessi, in questa cura rivolta verso l’interiorità, l’importanza del “fermarsi e riflettere”: condizione indubbiamente riservata a quei pochi che allora potevano permetterselo e – ancora oggi – un lusso per alcuni privilegiati, nell’epoca della fretta, del profitto e di un tempo che vale solo in quanto “monetizzabile”.

    

Le scenografie dell’Otium: Villae e Horti

Ma, chiarito il senso dell’Otium antico, né padre né parente stretto di tutti i vizi, quali sono i suoi luoghi, le sue scenografie? Le testimonianze archeologiche e le fonti letterarie sono concordi: le Ville d’otium, così chiamate per differenziarle da quelle con finalità produttiva (villae rustucae), lussuose residenze pensate per il riposo e per il tempo libero. In tutta l’area dell’Impero Romano ne sono state scoperte alcune centinaia, molto diverse tra loro per dimensioni, epoca di costruzione, forma e struttura. Inizialmente costruite al di fuori delle città, con la diffusione progressiva presso le classi dirigenti italico-romane di raffinate abitudini di vita di origine greco-orientale, già a partire dal II secolo a.C. cominciarono a connotare anche la scenografia urbana, nell’ambito stesso delle città o nelle loro immediate vicinanze, prestigiose ville dette urbanae, per lo più circondate da vasti giardini con una privilegiata posizione panoramica. L’esempio più significativo di villa urbana nella fase del suo esordio come modello architettonico è la Villa dei Misteri nelle immediate vicinanze di Pompei. L’edificio sorgeva in declivio verso il mare, sul quale si apriva con eleganti ed ariosi saloni che offrivano incantevoli panorami del golfo: questi ambienti, collocati nel lato più a valle dell’intero complesso, erano sostenuti da un criptoportico che girava per tre lati, destinato a colmare il dislivello altimetrico fungendo da basis villae. La Villa dei Misteri era inoltre contraddistinta da un elemento che era comune a queste costruzioni: subito dopo l’ingresso si entrava in un peristilio, al quale seguiva un atrio, con un’inversione della normale successione presente nelle domus signorili di quest’epoca. Una delle ville più sontuose mai trovate è quella di Poppea rinvenuta a Oplonti, nelle terre vesuviane, scavata per la prima volta nel Settecento e poi dal 1968: si tratta di una villa d’otium dove comunque non mancavano sale dedicate alla produzione del vino e dell’olio, risalente al I secolo a.C. e ampliata nel corso dell’età claudia, attribuita a Poppea Sabina per l’iscrizione dipinta su un’anfora indirizzata ad un liberto della moglie di Nerone. Le grandi ville urbane avevano anche dei veri e propri parchi ombreggiati di tempietti e punteggiati di statue famose, chiamati Horti e Roma ne poteva contare diversi – nel III secolo d.C. occupavano circa un decimo dell’estensione urbana – come quelli di Cesare, di Galba, di Antonio, di Pompeo, di Agrippina, di Messalla, della bellissima Clodia (forse la Lesbia di Catullo), quest’ultimo sul Lungargine della Farnesina. Recenti studi sembrano fare chiarezza sul luogo di rinvenimento preciso di una delle opere d’arte più amate nella storia dell’arte, il gruppo del Laocoonte, celebrato da Plinio e ammirato da artisti come Michelangelo, avvenuto nel 1506 nelle pertinenze proprio di una villa urbana privata, quella di Mecenate. Sembra però che a lanciare la moda degli horti urbani sia stato Lucio Licinio Lucullo, amico di Cicerone, generale sotto Silla e poi console, inventore, si può dire, del “giardino del piacere” dopo che i suoi avversari Pompeo e Cesare avevano preso il sopravvento spingendolo alla decisione di ritirarsi dalla vita pubblica, secondo quanto riferisce Plutarco: “Nella vita di Lucullo, come in una commedia antica, un uomo può leggere nella prima parte di incarichi politici e di comandi militari e, nella seconda, di simposii, di banchetti e di tutti i tipi di frivolezze”. Nelle guerre in Oriente aveva accumulato ingenti fortune che gli consentivano una vita nel lusso e una serie di ville fuori Roma, una a Tuscolo, nei Castelli Romani, con terme, biblioteche, collezioni di quadri e di statue, enormi uccelliere per la fauna esotica. Altre tre ville erano in Campania, a Miseno, Baia e Napoli, con tanto di roboraria, ossia serragli per animali selvatici allevati non solo per il divertimento ma anche per il guadagno, peschiere, vivaria, piscine marittime per l’allevamento di specie ittiche rare, laghetti e moli protesi sul mare. A Roma la sua villa sul Pincio veniva definita “le tranquille dimore degli dei”, con molti ambienti e giardini terrazzati per sfruttare il livello del colle con effetti scenografici, con i diversi piani collegati da rampe di scale, viali, statue e fontane. La Chiesa di Trinità de’ Monti dovrebbe occupare la posizione dl corpo di fabbrica principale, mentre la rinascimentale Villa Medici si è sovrapposta a una parte dell’area di pertinenza degli horti antichi. Il modello delle Ville antiche, ripreso attraverso lo studio umanistico di Vitruvio nel Rinascimento, portò a partire dal Quattrocento al fiorire di un’altra e altrettanto splendida stagione della Villa, intesa come luogo di meditazione aristocratica e di culto della bellezza, artistica e paesaggistica, con architetti come Raffaello, Falconetto, Vignola e Palladio, impegnati a coniugare le esigenze di committenti capricciosi e il gusto di una memoria che non voleva abbandonare i suoi antichi modelli ideali e formali di riferimento.

     

Parabola e declino dell’ideale dell’Otium: il caso degli Horti Sallustiani e di Villa Ludovisi

L’esempio di Lucullo a Roma fu seguito dallo storico Gaio Sallustio Crispo i cui horti, i più grandi dell’Urbe, si estendevano tra Quirinale Viminale e Campo Marzio. Secondo l’arte paziente e fantasiosa della “topiaria”, la natura più ribelle veniva addomesticata e modellata a suon di forbici, creando figure geometriche e intere scene mitologiche. Immersi nel variegato paesaggio del verde e dei fiori, diversi padiglioni ospitavano le attività dell’otium a seconda delle stagioni, del clima e del capriccio del proprietario, con ambienti al chiuso e all’aperto, portici per il passeggio, ninfei, finte grotte, fontane, terme, tempietti. Un fiume d’acqua scorreva verso Roma portato dagli acquedotti per offrire il lusso del fresco a due passi dal chiasso dell’affollato centro cittadino in luoghi miracolosamente immuni dalla frenesia dei negotia.

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Gli Horti Sallustiani erano già stati di proprietà di Giulio Cesare: sorgeva infatti sul Quirinale, presso Porta Collatina (il più importante accesso alla città da Nord), un’altra villa di Cesare, nei pressi del Tempio della Fortuna Pubblica (di cui rimangono i resti scoperti nell’800 sulla Via Flavia), alla quale doveva i suoi successi. Era una proprietà tra il pubblico e il privato, sia dal punto di vista ideologico che architettonico. Gaio Sallustio Crispo, proconsole in Numidia dove ebbe modo di arricchirsi (e per questo fu processato per concussione), fu un personaggio molto vicino a Cesare e alla morte dell’imperatore acquistò questi horti (che da allora presero appunto il suo nome) ampliandoli e abbellendoli. Venne inglobato nella proprietà il Santuario di Venere Ericynia dedicato da L.Porcio Licinio nel 187 a.C. (luogo in cui le ierodule praticavano la prostituzione sacra). Nel XVI secolo il santuario si rinvenne tra le attuali Via Sicilia e Via Lucania, ma fu poi distrutto e le colonne in giallo antico, facenti parte del tempio, vennero utilizzate poi per la navata della Chiesa di S. Pietro in Montorio. Furono qui scoperti, e si pensa pertinenti al santuario, il cosiddetto Trono Ludovisi e l’Acrolito Ludovisi (una grande testa femminile in marmo), entrambi originali greci provenienti dall’Italia meridionale, forse da Locri Epizefiri (V secolo a.C.), ora al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps. Sallustio si ritirò in questa villa in libero esilio, scrivendo le due monografie “De Catilinae coniuratione” e “Bellum Jugurthinum”, e le “Historiae” rimaste incompiute. Alla sua morte (34 a.C.) gli horti passarono in eredità al nipote Quinto Sallustio Crispo, confidente di Augusto e di Tiberio. Quando nel 21 d.C. sotto Tiberio anche il nipote di Sallustio morì, la proprietà entrò a far parte del demanio imperiale, in assenza di eredi diretti. Gli horti divennero così la residenza occasionale degli imperatori, in alternativa al Palatino: Nerone la usava per le sue stravaganti uscite notturne, Vespasiano aprì il parco ai cittadini, Nerva la preferiva al palazzo del Palatino. Durante il regno di Adriano vi fu una ristrutturazione del parco, mentre nel III secolo, durante il regno di Aureliano, la proprietà viene inserita all’interno della nuova cinta muraria che l’imperatore fece costruire (Mura Aureliane), che viene fatta passare lungo il suo confine settentrionale. Sempre Aureliano fece costruire il cosiddetto Porticus Miliariensis (chiamato così perché lungo mille passi = 300m), un maneggio decorato come un giardino e pavimentato in marmo giallo, che occupava tutta l’attuale Via XX Settembre, dove egli si esercitava a cavalcare. Nel III secolo questi horti costituivano il più grande parco monumentale della città antica: si estendevano dal Quirinale al Pincio, avendo come confini le Mura Aureliane da Porta Pinciana a Porta Salaria (Via Piave), l’attuale Via XX Settembre, le mura tra Via Veneto e Via S. Nicola da Tolentino. Gli edifici che si trovavano nella proprietà erano distribuiti secondo determinati orientamenti, per sfruttare al meglio la luce del sole a seconda dell’ora del giorno in cui venivano frequentati.

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Gli Horti Sallustiani sono molto importanti perché dal Rinascimento sono stati una vera e propria miniera di opere d’arte e questo dà l’idea della ricchezza artistica di queste dimore sepolte nel verde della capitale. Dalla cosiddetta Valle Sallustiana, la depressione che separava il colle Quirinale dal Pincio (colmata nel XIX secolo per la realizzazione del nuovo quartiere umbertino), proviene un obelisco, che probabilmente era posto sulla spina di un ippodromo, forse il cosiddetto Circus Florae. L’obelisco fu posto nel 1789 da Papa Pio VI davanti alla Chiesa di Trinità dei Monti, che sovrasta la scalinata di Piazza di Spagna. L’obelisco è una copia romana di quello di Ramsete II eretto da Augusto nel Circo Massimo (oggi a Piazza del Popolo), eseguito quando non si era più in grado di leggere i geroglifici- Dal ninfeo che si trovava negli annessi della villa proviene il gruppo scultoreo di Oreste, Ifigenia e la cerva, oggi al Ny Carlsberg Gliptoteck di Copenaghen e, sempre dalle pertinenze della villa, tra le opere più belle portate alla luce negli ultimi secoli, il Galata morente (oggi ai Musei Capitolini) e il Galata suicida (oggi al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps). In entrambi i casi si tratta di copie degli originali bronzi dello scultore Epigonos realizzati per il re di Pergamo Attalo I per decorare il donario e celebrare la vittoria del 240 a.C. sui Galati, commissionate da Cesare per celebrare le sue vittorie sui Galli e posizionate nei suoi horti sul Quirinale. Il Galata morente, rinvenuto nel XVII secolo, fu portato nel 1797 a Parigi da Napoleone e ritornò in Italia nel 1815, grazie all’intervento di Antonio Canova, inviato dal papa. Altri frammenti di rilievi e statue, provenienti dagli Horti Sallustiani, sono ora conservati al Museo Nazionale Romano alla Centrale Montemartini e nel Museo di Palazzo Massimo, come la bellissima Niobide morente, proveniente dal Tempio di Apollo Daphnephoros di Eretria, trasferita a Roma in epoca augustea per decorare il Tempio di Apollo nel Circo Flaminio e poi trasferita negli Horti Sallustiani, rinvenuta nel 1906. Molte delle opere scoperte negli ultimi secoli entrarono nel mercato antiquario e finirono all’estero, da Parigi a Copenhagen, da Madrid a Boston. E’ invece rimasto a Roma l’Ermafrodito dormiente esposto alla Galleria Borghese: trovato dietro la Chiesa di S.Maria della Vittoria, fu restaurato da Andrea Bergondi imitando il materasso realizzato da Bernini per l’Ermafrodito Borghese. Ai Musei Vaticani invece sono conservate tre statue egizie che decoravano gli Horti Sallustiani: quella in granito nero di Tuya, sposa di Seti I e madre di Ramsete II, che in origine decorava il Ramesseum di Tebe (1279/1213 a.C.) e condotta a Roma da Caligola, insieme alle altre due statue in granito rosa di Tolomeo II Filadelfo (periodo greco-romano) e della sorella-sposa Arsinoe II.

Ecco quindi un altro aspetto importante dell’otium aristocratico: la saldatura con l’arte e il conseguente fenomeno del collezionismo privato dei grandi capolavori greci o delle copie di questi: il godimento estetico diventa così uno degli elementi su cui si basa la piacevolezza della vita e l’ammirazione suscitata dalla bellezza un tema su cui riflettere e discutere con gli amici lungo viali ombrosi, rinfrescati da fontane e ninfei popolati di statue. Il “caso” Horti Sallustiani è anche importante per la continuità di vita come residenza aristocratica, sia pure con la frattura dell’epoca medievale. Dopo un periodo di declino e di abbandono, dal Rinascimento la zona conobbe un rinnovato interesse da parte delle più facoltose famiglie di Roma e nel 1622 il cardinale Ludovico Ludovisi (nipote di Papa Gregorio XIII) volle qui, a nord della valle Sallustiana, la più bella villa di Roma, Villa Ludovisi, su progetto del Domenichino, nell’area di oltre trenta ettari compresa tra Porta Pinciana e Piazza Fiume, con un parco immenso disegnato dall’architetto dei giardini reali di Versailles, Andrè Le Notre. La villa comprendeva la Palazzina del Belvedere (appartenuta già al cardinal Del Monte, chiamata anche “dell’Aurora” per gli affreschi del Guercino che la decoravano), il Palazzo Grande (situato dietro l’Ambasciata Americana di Via Veneto), il Casino della Villa Capponi (ricco di sculture), il Casino dei Pranzi (famoso per i sui banchetti in ottobre), una Chiesa privata e il Castello gotico, una sorta di fortezza medievale che verrà costruita nella seconda metà del Settecento. Attorno agli edifici, giardini, orti e frutteti: 250 tipi diversi di piante formavano viali affiancati da sarcofaghi o statue di Satiri e Ninfe. Una delle attrattive della villa era infatti la straordinaria Collezione raccolta per passione dal cardinale, oltre 450 splendide sculture antiche di varia provenienza, che furono abbondantemente restaurate, come si usava allora, da alcuni dei maggiori artisti a quel tempo operanti a Roma: Alessandro Algardi, forse il Bernini e altri. Le sculture andarono a decorare la splendida villa; un centinaio delle quali, acquistate dallo Stato italiano nel 1910, fu poi collocata nel Piccolo Chiostro della Certosa di Santa Maria degli Angeli, il grande monumento che Michelangelo ricavò nell’ambito del sito delle Terme di Diocleziano. La Collezione si trova ora nel quattrocentesco palazzo Altemps, a due passi da Piazza Navona.

Ma, è cosa nota, il Negotium è nemico dell’Otium, e oggi difficilmente chi passeggia svagato per la rumorosa via Veneto potrebbe pensare di trovarsi esattamente dove fino agli anni Ottanta del XIX secolo si estendeva un paradiso botanico ed estetico di duecentocinquantamila metri quadrati, tra Piazza Barberini e Porta Pinciana. Perduto per sempre è lo scenario descritto da Henry James, narrando delle romantiche passeggiate lungo “viali oscuri sagomati da secoli con le forbici“, fra “vallette, radure, boschetti, pascoli, fontane riboccanti di calami, grandi prati fioriti, punteggiati qua e là da enormi pini obliqui“. Un giorno del 1881 il principe Boncompagni-Ludovisi apre i cancelli della sua villa a Theodor Mommsen e consegna al venerato storico tedesco una raccolta di dagherrotipi che ritraggono per l’ultima volta i viali ombreggiati da lecci e cipressi, le statue pagane, i giardini segreti e i casini, tutte le meraviglie del suo parco. “Conservi queste immagini“, dice all’ esterrefatto Mommsen, “perchè la mia villa dovrà scomparire“.

Don Rodolfo Boncompagni-Ludovisi ha appena stipulato una convenzione con la Società Generale Immobiliare per edificare un quartiere residenziale sui suoi terreni. E’ tempo di “febbre edilizia”, e il principe ha bisogno di realizzare. Non importa che il piano regolatore preveda la conservazione della villa. Le immobiliari pagano bene, per i proprietari di terreni è l’occasione di fare fortuna. Nello stesso anno si ha un interramento delle strutture antiche per la realizzazione di strade in vista di una successiva lottizzazione. Per quel che riguarda i resti archeologici semisepolti di Piazza Sallustio, vennero costruiti muri di contenimento per preservarli: non si aveva il coraggio di distruggere. Ma nemmeno quello di conservare. Perfino il governo ha preso di mira da qualche tempo villa Ludovisi. Nel 1884 si è fatto avanti il ministero dell’Interno, offrendosi di acquistare parte del giardino per impiantarvi il nuovo complesso del Parlamento. La trattativa va per le lunghe, ma Don Rodolfo ha fretta di vendere. Si rivolge allora al Comune – retto dal nobiluomo Leopoldo Torlonia, vicino agli ambienti pontifici – prospettando l’idea di un vasto quartiere alto-borghese da costruirsi sulle ceneri della sua villa. Il municipio tentenna, ma la Generale Immobiliare interviene accollandosi l’onere della costruzione delle strade e della vendita dei lotti. Il 29 gennaio 1886 è firmata la convenzione triangolare fra Comune, Generale Immobiliare e don Rodolfo Boncompagni-Ludovisi. Un mattino d’ inverno del 1886 squadre d’ operai irrompono nella proprietà, livellano i prati, demoliscono le fontane, distruggono i boschi, accendono fuochi, scavano trincee, lavorano la calce. La “perla di Roma” è perduta per sempre, sotto gli occhi del giovane Gabriele D’ Annunzio, che scrive: “I giganteschi cipressi ludovisii, quelli dell’Aurora, quelli medesimi i quali un giorno avevano sparsa la solennità del loro antico mistero sul capo olimpico del Goethe, giacevano atterrati… Sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di ville gentilizie a cui nulla è paragonabile nel mondo delle memorie e della poesia“. Per ironia della sorte, il ricavato della speculazione, che porta nel giro di trent’anni alla nascita di uno dei più eleganti quartieri romani, è assai inferiore alle aspettative: appena cinque milioni e mezzo, dei quali tre quinti all’Immobiliare, il resto al Boncompagni-Ludovisi. Lo Stato pone il suo beffardo suggello allo scempio, proclamando villa Ludovisi monumento nazionale… dopo la sua distruzione! La fine di villa Ludovisi è il momento più oscuro della devastazione dei parchi urbani e suburbani innescata dalla “febbre edilizia”, a partire dai primi anni Ottanta del XIX secolo. La cinta delle ville patrizie si trasforma in un grande cantiere che corre ininterrotto da Porta del Popolo a Porta San Giovanni. Sotto i colpi dei picconi delle immobiliari cede pezzo dopo pezzo la “città delle ville” di cui son pieni i diari di viaggio barocchi e romantici: Massimo, Capizucchi, Nari, Magnani, Patrizi, Altieri, Albani, Gonzaga, Olgiati, Strozzi, Bolognetti, Rondanini: l’elenco delle vittime continua a lungo. Il massacro dei giardini romani diventa un caso internazionale, ma l’indignazione di Ferdinand Gregorovius e di Herman Grimm, di Emile Zola e del pittore Hébert, direttore dell’Accademia francese a villa Medici, non ferma lo scempio. Grimm pubblica un pamphlet sulla “Distruzione di Roma“, sorta di inno romantico in morte di villa Ludovisi – “il luogo più bello della terra” – e inveisce contro la “barbarie italiana” che minaccia la Città Eterna. Dove un tempo si scozzonavano i cavalli, dove brucavano le pecore, dove giacevano rovine romane o giardini barocchi – lamenta Grimm – ora sorgono “file di colossali case a sei piani senza nessuna architettura, intese soltanto a dar ricovero agli uomini, e in mezzo a quelle le immense caserme dei carabinieri… In qualunque cantiere voi andiate, o si smuove o s’ agguaglia il terreno per guadagnar lotti fabbricativi, o già sorgono nuove case, o le vecchie si demoliscono. File interminabili di carri, portando scarichi o materiale da costruzione, ingombrano le vie e le riempiono di strepito e di sudiciume. Torme d’ operai forestieri s’ aggirano dappertutto… Un’ incomoda agitazione ha preso il luogo dell’antica quiete“. Vaticano e nobiltà nera sono alleati in quello che all’estero viene visto come un piano di vera e propria distruzione della città. Se l’indignazione internazionale non era bastata per fermare la distruzione di un patrimonio così importante, ci riuscì – e solo temporaneamente – una delle più pesanti crisi edilizie che l’Italia conoscerà, con il risultato di quartieri semideserti, opere incompiute, strade in disordine, cantieri abbandonati. Ma ormai non c’è più spazio per l’otium: è l’epoca del profitto, a tutti i costi. Ed è così che si distrugge la bellezza che altri hanno costruito. La cancellazione dal volto dell’Urbe della Villa Ludovisi, luogo di otium ricreato molti secoli dopo sui ruderi di quello antico, non è solo lo sfregio a una memoria o la distruzione di un luogo, ma di un’idea, forse anche di un sogno impossibile: quello di una bellezza fragile e intramontabile. E non dite che l’ozio è una cosa poco importante.

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Immagine di testata: Il sole del mattino opera di Leonardo Lucchi.

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