Rosso pompeiano, rubrica d’arte di Raffaella Terribile. 5^ puntata.
Comunitarismo e Utopia nell’urbanistica tra Otto e Novecento:
il caso della Garbatella
Nella prima metà dell’Ottocento, prima che la prassi urbanistica ripiegasse verso il tecnicismo haussmaniano, un vasto movimento critico percorreva l’Europa, legando la teorizzazione politica, all’interno di quello che Marx definisce socialismo utopico, alle riforme dell’organizzazione spaziale e alla ricerca di alternative radicali alla società capitalistica e alla sua forma: la città industriale. Soluzioni spesso ingenue, a volte utopistiche e irrealizzabili, ma che hanno avuto il merito di riconoscere la valenza politica dell’urbanistica e che, in alcuni casi, hanno trovato concrete applicazioni anche in seguito, con l’ipotesi Howardiana di Garden City, concretizzata in Inghilterra a Letchworth e a Welwyn, nei pressi di Londra, e la visione moderna di “unità di abitazione a dimensione conforme” teorizzata da Le Corbusier. Tutto parte da Robert Owen, un industriale (proprietario delle Filande Lanark in Scozia) che all’inizio dell’Ottocento s’impegna nel tentativo di realizzare un modello di società produttiva capace di tenere in considerazione la qualità di vita dei lavoratori, riducendo l’orario di lavoro e migliorandone le condizioni, aumentando il salario, fornendo servizi educativi e soprattutto costruendo degli alloggi salubri. Owen è infatti convinto che l’ambiente influisca sui comportamenti umani e che la sua tutela venga prima degli interessi economici, individuali e collettivi. Alla base della sua teoria c’è la valutazione della distribuzione degli abitanti sul territorio, poiché i “benefici non possono essere procurati agli individui e alle famiglie separate, né a masse troppo numerose”. Propone la creazione di insediamenti iterabili con 800 -1200 abitanti ed estensione di 600-800 acri di terreno, consolidando l’idea (già presente nell’urbanistica greca di età ellenistica e poi ripresa dalla Garden City di Howard) che, superata una certa dimensione, l’insediamento andasse duplicato, non ampliato senza limite. Si strutturano così unità a dimensione conforme, autosufficienti per produzione e servizi e in equilibrio con la campagna. Il funzionamento del villaggio è anche paragonato ad una macchina, precorrendo la concezione lecorbusiana dell’abitare come “machine à habiter”. Se la proposta di Owen resta solo sulla carta, come l’utopia di “Icara” di Cabet, quella di Fourier troverà concretizzazione nel “Familisterio” di J.B.Godin a Guisa, dal 1859 fino al 1939, esperimento che si fonda sui principi della cooperazione degli individui e del ruolo sociale della famiglia. Visioni del genere vengono riprese anche in Italia, dove si contano interventi significativi a opera di privati imprenditori. A Schio, nell’Alto Vicentino, la lungimiranza di Alessandro Rossi, proprietario del Lanificio F. Rossi, portò alla nascita del Nuovo Quartiere Operaio, detto la “Nuova Schio”, progettato dell’urbanista-architetto Antonio Caregaro Negrin, primo tentativo di concretizzare l’utopia di una “città ideale”. La planimetria generale del 1872 disegna una romantica “città giardino” con palesi riferimenti alle esperienze di Owen e alle città industriali belghe e francesi, anche se in seguito, con l’attuarsi del progetto, la fisionomia assunta fu quella tipica a scacchiera dei villaggi industriali d’Oltralpe. In seguito, tra il 1926 e il 1977 l’Olivetti realizzerà a Ivrea e in altre località importanti iniziative di costruzione di abitazioni per i dipendenti, veri e propri villaggi, seguendo la propria vocazione di impresa che si sente responsabile dell’assetto urbano e del paesaggio edilizio e che investe per aiutare i dipendenti a risolvere il problema dell’alloggio. In genere i progetti vengono affidati ad architetti qualificati, che garantiscono risultati di elevata qualità ambientale e costruttiva, in coerenza con l’idea di Adriano Olivetti secondo cui le condizioni e l’aspetto dei luoghi di lavoro e di residenza influiscono sulla qualità della vita sociale e sull’efficienza produttiva.
Ma anche la nuova capitale dell’Italia postunitaria conosce un esempio di applicazione su scala urbanistica dei principi della teoria comunitaria, mossa dalla necessità di ridefinire il proprio ruolo con un nuovo piano regolatore che le conferisse un aspetto più idoneo alle nuove funzioni. L’interesse si concentrò sulla zona sud della Capitale, l’Ostiense. Il Tevere, se ben utilizzato, poteva diventare, insieme alla ferrovia e alla Via Ostiense, una fondamentale via di comunicazione. Nell’ottica di quegli anni ciò assumeva un’importanza strategica economica rilevante, in vista di un vero e proprio decollo di quella vasta area pianeggiante morfologicamente adatta allo sviluppo di un polo industriale in una città che, verso la fine dell’Ottocento, si presentava per molti aspetti ancora medioevale e arretrata rispetto al resto dell’Italia. L’idea della costruzione di un porto di Roma e del prolungamento della via Ostiense fino al mare (1907) furono tappe importanti di questo progetto. La costruzione di una linea ferroviaria di collegamento con Ostia fu invece accantonata dal governo giolittiano come “opera non utile, né opportuna”, in quanto, nonostante l’insediamento di alcune piccole industrie, non c’era ancora alcun polo industriale cittadino da far “decollare”. Con il “Blocco popolare” capeggiato da Ernesto Nathan, vittorioso alle elezioni municipali di Roma nel novembre 1907, si ribadì invece la vocazione industriale di tali aree e la volontà di sviluppare la città verso il mare. Furono così costruiti i mercati generali localizzati su una vasta area fuori Porta S. Paolo, nel 1909 ad est della Via Ostiense, a circa 300 metri oltre il cavalcavia ferroviario, la cui realizzazione fu notevolmente dilazionata nel tempo e conclusa solo nel 1922 e, nel 1912, la centrale termoelettrica comunale (Montemartini). Nel 1921 avveniva l’allaccio dei due tronchi ferroviari che sanciva simbolicamente l’unione della città al mare. Non ebbero uguale fortuna, invece, le opere portuali che avrebbero consolidato la vocazione industriale di Ostia Nuova e incrementato quella dell’intera zona Ostiense. Il progetto portuale prevedeva la creazione di un avamporto difeso da dighe, una darsena interna e un canale navigabile di collegamento con il porto interno da realizzare presso la Basilica di S. Paolo. I lavori cominciarono nel giugno del 1920 con lo sbancamento della duna che avrebbe dovuto lasciare il posto alla darsena, ma nel 1922 furono sospesi ufficialmente per mancanza di denaro, probabilmente per resistenze di carattere politico.
Il 18 febbraio 1920 Vittorio Emanuele III pose la prima pietra per la costruzione della GARBATELLA, il quartiere “Concordia”. La borgata, che nacque inizialmente per ospitare le famiglie degli operai impegnati nelle industrie della Via Ostiense, iniziò la sua espansione su quelle che erano state le vaste proprietà di poche facoltose famiglie (Grazioli, Torlonia, Armellini) che occupavano casali e ville di campagna. Qualche arboreto, numerosi canneti, vari orti punteggiavano un paesaggio costituito in massima parte da aree tenute a pascolo, affittate a pastori che praticavano la transumanza. Il territorio dunque appariva semidisabitato ma si animava quando si svolgevano i pellegrinaggi delle Sette Chiese, un antico rito di origine medievale che aveva nella “chiesoletta”, la cappella dedicata ai santi contadini Isidoro e Eurosia, una delle tappe obbligate. In quella chiesetta, restaurata agli inizi dell’Ottocento dal Valadier, era avvenuto nel 1575 l’incontro tra S. Filippo Neri e S. Carlo Borromeo. Si dice, ma forse è leggenda, che in zona una compiacente e garbata locandiera avesse gestito una troppo ospitale osteria. Sta di fatto che quel tratto dei colli di S.Paolo (questo l’antico nome del luogo) cominciò a chiamarsi Garbatella, forse proprio in onore alla garbata ostessa.
Un’altra ipotesi sull’origine del nome è forse da ricondurre alle tipiche coltivazioni “a barbata” o “a garbata” della vite, appoggiando le viti ad alberi di acero o di olmo, sistema introdotto sui colli di S. Paolo alla fine del Settecento da Monsignor Nicolai, proprietario della locale tenuta dei Dodici Cancelli e famoso agronomo. Il nome “Garbatella” intorno agli anni Trenta rischiò persino di essere cancellato dalla Commissione toponomastica del Comune, ritenendolo troppo popolaresco. Così qualcuno suggerì Remuria, dal presunto nome che Remo avrebbe voluto dare alla città se avesse prevalso sul fratello Romolo. Era un nome in linea con la retorica del regime: la Remuria di Remo, secondo la tradizione riferita da Tito Livio, sarebbe dovuta sorgere sull’Aventino, il colle dei plebei, ma alcuni ritenevano che Remo avesse invece l’intenzione di costruire la sua città verso il mare, nella zona dove oggi sorge la Garbatella. La toponomastica del nucleo primario del quartiere, dedicata essenzialmente a personaggi legati al mondo navale, è indicativa della vocazione marinara che si voleva dare alla zona con la progettata costruzione del porto interno nei pressi della basilica di S. Paolo, anche se in seguito molte strade porteranno nomi diversi. Le prime case della città giardino (40 palazzine con 190 alloggi) si rifanno allo stile del “barocchetto romano”, simili alle case agresti del periodo tra Cinquecento e Settecento, ma con planimetrie sinuose che danno forma a edifici neomedievali ed eclettici. Particolari sono i comignoli, le cancellate, le finestre, le caditoie, i fregi in rilievo (che spesso riproducono strane figure di animali) per la loro varietà di forme e per la loro originalità. Gli alloggi sono composti generalmente di due o tre vani con annesso un piccolo bagno (fino agli anni Cinquanta gli abitanti non avevano nelle case la vasca da bagno e una volta alla settimana si recavano ai Bagni pubblici in Piazza Bartolomeo Romano, né avevano l’acqua corrente).
Al progetto urbanistico lavorò Gustavo Giovannoni, una delle firme più prestigiose dell’epoca, coadiuvato da Innocenzo Sabbatini, che firmò i progetti degli edifici più pregiati del quartiere e il primo nucleo della Garbatella, cioè le case intorno a Piazza Brin (i progettisti in verità furono numerosi e tra loro, oltre ai già citati Giovannoni e Sabbatini, alcuni famosi architetti romani: Aschieri, Cancellotti, Costantini, De Renzi, Marchi, Marconi, Piacentini, Trotti e Vietti).
Il nuovo quartiere si configurava così come un villaggio immerso nella campagna e staccato dalla città, con case più salubri, emulando quell’intervento pubblico nell’edilizia che in Inghilterra con il movimento delle Garden Cities di Howard avrebbe tradotto in pratica le esigenze di vita delle masse operaie del futuro polo industriale, che si sarebbero insediate di lì a poco, tenendo bassi i salari insieme agli affitti, il tutto nell’ambito di un’edilizia sovvenzionata dallo Stato Questo movimento Howardiano racchiudeva due idee di fondo: da una parte la tradizione delle utopie di Owen con i significati sociali che vi erano tradizionalmente legati; dall’altra il modello di casa unifamiliare nel verde che rappresentava la riduzione dell’ideale urbanistico di inizio secolo ad opera della cultura vittoriana, con l’accento posto sulla privacy anziché sui rapporti sociali: un tentativo di sottrarre al disordine delle metropoli la famiglia e di realizzare il massimo di ruralità possibile compatibile con la vita cittadina. Si diffonde così dai primi del Novecento in tutta Europa, partendo dall’Inghilterra, l’intervento pubblico nell’edilizia abitativa. In Inghilterra lo Stato sovvenzionerà fino al 70% le Garden Cities. In Francia, con la legge Segfred del 1894, lo Stato interviene direttamente in questo settore, realizzando case “salubri e a buon mercato” per i salariati, impiegati e operai; in Germania la Repubblica di Weimar prevede nella sua Costituzione la casa per tutti i cittadini. E così pure in Belgio, in Svezia, in Olanda, in Austria. In Italia nasce nel 1903 l’Icp e viene eletto ad ente morale. Il fatto che questo ente costruirà interi quartieri rappresenta un’occasione per dare ordine alla città. All’idea iniziale del quartiere realizzato con tipologia edilizia a villini, sul modello delle Garden Cities, prendono posto, dal 1923 in poi, le “case rapide”, edifici “provvisori” ed economici per i senzatetto, cambiando rapidamente l’aspetto del progetto originario. Mutate le condizioni politiche, con l’avvento del Fascismo, i progetti del porto fluviale e della città industriale furono presto abbandonati. Anche la Città Giardino, ispirata alla filosofia del socialismo utopistico di Owen, l’isola ideale entro cui era possibile soddisfare le necessità del proletariato urbano, lasciò presto il passo alle grandi opere che dovevano segnare i destini imperiali di Roma. Grandi sventramenti, giù i borghetti medioevali al centro della città per liberare le vestigia dell’Impero utili alla propaganda e trasferimenti di massa in periferia della popolazione, lontano dagli occhi della borghesia di regime. Si impone la tipologia degli “alberghi collettivi”, con servizi in comune, veri e propri dormitori pubblici, per ospitare le numerose famiglie sfollate a seguito dell’abbattimento della Spina di Borgo per la realizzazione di Via della Conciliazione e della demolizione delle abitazioni del centro per la realizzazione di Via dei Fori Imperiali. Così le casette basse con l’orto ad uso familiare lasciarono il posto a palazzine di quattro, cinque piani, con i giardinetti e gli spazi a uso comune. Con il venir meno dell’idea della Città Giardino e con l’emergere della necessità di trovare una sistemazione abitativa per molte persone, in breve tempo le forme architettoniche furono sempre meno curate: case rapide, cubi di mattoni senza fregi né particolari accorgimenti, realizzate in fretta e con materiali scadenti. Gli alberghi suburbani, nell’esempio più estremo di residenza, rappresentano le tipologie edilizie agli antipodi di quelle previste in origine. Nei quatttro grandi edifici, costruiti a partire dal 1929, composti in origine da alloggi di un solo vano con servizi in comune (mensa, lavanderia, bagni, scuola materna, chiesa, ecc.), abitano oggi circa 800 famiglie. Il concetto owardiano di villaggio di città è ormai del tutto stravolto: la campagna che circonda la Garbatella diventa terreno utile solo per la speculazione edilizia dei palazzinari, che a mano a mano provvederà alla saldatura tra il quartiere e il centro urbano, con ingentissimi profitti a discapito del paesaggio e della qualità del costruito. Concepita come suburbio staccato dalla città, ma a ridosso della zona industriale dell’Ostiense e destinata a centro abitativo preminentemente operaio, la Garbatella vedrà stravolto il progetto iniziale dalla nuova tendenza all’espansione di Roma verso il mare. Le logiche del Capitalismo avevano vinto sull’utopia del Comunitarismo.
(estratto da “Caro Diario”, di Nanni Moretti)