Rosso pompeiano, rubrica d’arte di Raffaella Terribile. 7^ puntata.
I muri parlano nella terra del silenzio
Quando si pensa ai murales, viene subito in mente Diego Rivera con le sue monumentali figure rudemente espressive e dai colori sgargianti nei grandi affreschi murali dedicati alla Rivoluzione messicana a Città del Messico e a Chapingo.
Oggi la Street Art è un fenomeno di tendenza, legato alle metropoli come New York e Londra e al nome di artisti che hanno cominciato nelle strade come writers: Kate Haring, Jean Michael Basquiat, Shepard Fairey e Banksy. Anche l’Italia ha conosciuto questo fenomeno a partire dagli anni Ottanta, come si vede soprattutto a Roma, Milano e Napoli, e la Street art è ancora oggi in bilico tra la condanna dei “graffiti” come atti vandalici e il riconoscimento della loro dignità artistica da parte delle istituzioni, con spazi appositamente dedicati. Gli scenari sono sempre e comunque quelli urbani e i soggetti sono presi direttamente dai contesti metropolitani, come mezzo di denuncia e di protesta in un linguaggio che è ormai quello della “globalizzazione” dei writers, uguale in ogni parte del mondo.
Ma esiste in Italia anche un piccolo paese dove i muri parlano una poesia dialettale, dove le case non sono semplici case, dove le idee hanno preso possesso degli spazi del vivere quotidiano di gente semplice, legata alla terra e alla dimensione di un tempo che scorre lento nel paesaggio quasi immobile del Supramonte, dove le pareti sono state trasformate in finestre aperte sul mondo, con messaggi di denuncia, di impegno civile, o con semplici rappresentazioni della vita di ogni giorno. Questo paese si chiama Orgosolo e si trova in una regione aspra della Sardegna, la Barbagia, un tempo terra di pastori e di briganti.
L’Italia ha una tradizione di murales che nasce più di un secolo fa, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, epoca in cui molti artisti scoprono il valore della pittura murale: è allora che nascono i grandi cicli decorativi per le sale delle mostre d’arte nazionali e internazionali (per l’Italia, la Biennale di Venezia, con opere importanti di Galileo Chini e di Giulio Aristide Sartorio), per gli ambienti pubblici che si aprono al consumo del primo turismo, come gli hotel e le terme (Montecatini, Salsomaggiore) e i palazzi comunali, come si vede nelle eleganti decorazioni sempre di Galileo Chini. Si tratta di cicli murali dipinti direttamente sulle pareti o su pannelli a esse applicati, realizzati ad affresco o in formelle di ceramica policroma con finalità prevalentemente estetiche, su influenza forse di quanto aveva mostrato l’arte decorativa dell’Europa centrale negli anni precedenti, da artisti passati per le Accademie di belle arti e protagonisti della scena artistica italiana. Il discorso cambia quando l’utilizzo del mural viene associato alla comunicazione di contenuti politici e ideologici: durante il Fascismo l’arte murale conosce un particolare impulso, utile, scrive nel 1933 Mario Sironi nel Manifesto della pittura murale, come strumento efficace per esprimere la vera “arte fascista”, educatrice del popolo, formativa dell’etica, portatrice di stile e grandezza nel vivere comune, “strumento di governo spirituale”. Dell’arte murale si esaltano le qualità comunicative, la capacità di influire sulle opinioni e sui punti di vista della gente comune e per questo la si ritrova in luoghi come le stazioni ferroviarie, le sedi sindacali, le università (i bellissimi lavori di Campigli realizzati a Padova), i palazzi delle poste (il ciclo decorativo di Benedetta Cappa Marinetti a Palermo), i ministeri. Sotto il profilo storico-artistico, la rivalutazione della dimensione pubblica dell’arte nel Novecento è legata alla riscoperta dell’arte antica, del Medioevo e, soprattutto, del Rinascimento, quando la pittura parietale (commemorativa di grandi eventi, celebrativa del potere dei signori locali e dei grandi mecenati, illustrativa di tematiche sacre e contenuti religiosi) conosce la massima fioritura. Un’arte “di regime”, dunque, che risponde a volontà di propaganda ed è esteticamente valida perché realizzata da grandi artisti pubblicamente conosciuti.
Il valore di questa capacità dei grandi murales di parlare alle masse è ampiamente riconosciuto anche dai pittori messicani negli anni Venti del Novecento, sulla scia della rivoluzione zapatista, consapevoli che, attraverso la sua ampia visibilità, la pittura murale può fare da supporto al rinnovamento politico e morale del loro paese, alla diffusione di idee democratiche ed egualitarie, alla creazione di uno Stato nuovo. Non è però, qui, un’arte di regime, imposta dall’alto per educare le masse, bensì un’arte del popolo per il popolo. Principale interlocutore di questa arte “alla luce del sole” è infatti la classe rurale e contadina che, indipendentemente dal livello culturale, è in grado di interagire emotivamente con le scene che celebrano i valori e gli eroi della rivoluzione. Questo non significa che gli artisti scelgano per forza uno stile realistico in senso fotografico, al contrario. Molti dei murales messicani sono percorsi da una tensione espressionista o visionaria, evidente nella deformazione dei tratti fisici, nell’uso di colori forti e stridenti, nelle associazioni impreviste. Il contatto tra i muralisti messicani e gli Stati Uniti, dove molti di loro ebbero occasione di lavorare (San Francisco, Los Angeles, New York), porta alla diffusione di questa pratica anche in America. Durante la Grande Depressione del 1929, il presidente F.D. Roosevelt elabora un piano di risanamento (New deal) che non solo prevede misure economiche e infrastrutturali, ma interviene ad ampio raggio sulla società americana. Attraverso specifici piani governativi, di cui il più noto è il Federal art project (FAP), gli artisti vengono coinvolti nel programma che mira a sostenere l’opinione pubblica americana nel momento di massima crisi. Per lo più di elevato livello qualitativo e artistico, i murales realizzati in quell’ambito miravano a comunicare ai cittadini nuova fiducia nei valori e nelle conquiste del popolo americano, confermando il perdurare di un certo stile di vita, diffondendo immagini di ideale e serena laboriosità, nei campi e nelle industrie, capaci di instillare ottimismo per il futuro. In Italia, nel secondo dopoguerra, le decorazioni murali hanno continuato a esistere, animate da contenuti politici ma anche a fini puramente estetici e ornamentali. Molto diffuse, negli anni Cinquanta, le monumentali decorazioni ceramiche policrome, spesso di soggetto astratto. Più di recente, alcuni paesi italiani hanno realizzato sulle pareti delle loro case cicli di pitture decorative, come per esempio a Satriano di Lucania, in Basilicata, a Diamante in Calabria, a Calvi dell’Umbria, a Cervara di Roma, a Dozza, in Emilia, a Valloria, nei pressi di Imperia, ad Arcumeggia, nel verde della Valcuvia in provincia di Varese, o a Folgaria, nel Trentino.
I murales di Orgosolo sono il punto di partenza di questo fenomeno oggi abbastanza diffuso e rappresentano un caso a parte, con radici che non sono da individuare nella tradizione “alta” della pittura decorativa di inizio secolo, quanto all’approccio popolare e rivoluzionario tipico invece delle esperienze dell’America Latina, in particolare cilena, con cui condividono, per dire così, la data di nascita. La nascita del muralismo in Cile come fenomeno di massa, risale infatti alla marcia del 1969 contro la guerra del Viet Nam, dal porto di Valparaíso a Santiago del Cile. Con una vecchia Jeep, un gruppo di ragazzi rifece l’intero percorso della marcia dipingendo i massi ai bordi delle strade nelle città in cui si fermava il corteo, insieme alla gente, per la pace e contro la guerra. I gruppi di pittura murale cileni, le Brigadas Ramona Parra, nascono con la finalità di realizzare propaganda politica elettorale della candidatura di Salvador Allende nel 1970.
Orgosolo 1969: siamo lontani dai lussuosi scenari della Sardegna del turismo, delle darsene con gli yacht a bandiera panamense, delle speculazioni edilizie dell’Aga Khan; il paese è sulle montagne, su una terra dura, poco generosa, lontanissima dal Continente del Boom e del benessere. E’ la Sardegna del banditismo, dell’Anonima Sequestri, di Graziano Mesina. E una comunità marginale di un mondo piccolo fatto di uomini e donne abituati a una vita difficile, uno scenario agricolo e pastorale arcaico, impervio rifugio di banditi e teatro antico di vendette, diventano un giorno luogo di rivendicazione sociale e di lotta, di riscatto e di orgoglio di appartenenza proprio attraverso la pittura murale. Una pittura murale “autogestita” e realizzata sulle pareti esterne di case di paese. Sono gli anni della contestazione giovanile, e un gruppo anarchico milanese chiamato “Dioniso” realizza per la prima volta il racconto in immagini di quando gli abitanti si opposero all’Esercito italiano che voleva creare un poligono di tiro in un’area da sempre adibita a pascolo libero e riuscirono a vincere, dopo dieci giorni di occupazione: l’evento è ricordato come i “fatti di Pietrobello”.
Nel 1975 Francesco Del Casino, un professore arrivato dalla Toscana, inizia a dipingere alcune pareti del paese con gli alunni della scuola media locale in occasione del trentennale della Liberazione dell’Italia dal Nazifascismo, spinto dall’impulso, come lui dichiara, “di rompere il muro che divide la scuola dalla società”. La sua pittura pubblica, non celebrativa né allegorica, è influenzata dal persistente clima neorealistico e nettamente antiaccademico. In quei lavori collettivi si avverte l’eco di Guttuso, Picasso, Léger, ma anche della cultura finto primitiveggiante. Quello di Francesco del Casino è uno stile pittorico inconfondibile ed unico. Allievi, Pasquale Busca di Orgosolo come Vincenzo Floris e Diego Asproni di Bitti, ne proseguono il lavoro negli anni successivi. I murales sono pitture eseguite da singoli (secondo ”la tradizione dell’affresco” in Italia) e da gruppi (come vuole la tradizione, per così dire, politicizzata del muralismo), con tecniche estremamente semplici (pittura ad acqua, di quelle normali, per interni, stesa a pennello su muri esterni) senza le raffinatezze dell’affresco o dell’encausto e, per questo motivo, estremamente deteriorabili. Tale elemento, comunque, non costituisce un problema: si potrebbe dire che sia una scelta esplicita dei pittori. I muralisti realizzano dipinti con colori ad acqua forse per una scelta estetica in base alla quale le opere vengono ritinteggiate solo se la comunità ne avverte il bisogno, altrimenti sono destinate a scomparire, lasciate alla memoria e al ricordo degli sguardi. Sono opere quasi sempre anonime e il tempo è il loro unico nemico, amalgamate come sono con la vita stessa e in perenne conflitto con il vento, la pioggia, il lavoro di altri uomini. Quello che un giorno è un dipinto l’indomani può presentarsi come un muro anonimo e senza vita. Oggi si contano sui muri delle case di Orgosolo oltre 150 murales, divisi tra soggetti storici, di impegno politico (fatti legati alla politica locale, italiana e internazionale), temi di vita quotidiana legati al mondo contadino sardo, all’ecologia e alla difesa dell’ambiente, messaggi pacifisti, poesia visiva. Una sorta di libro fotografico con immagini di vita reale, sofferenza, il dolore della gente sarda ma anche di tutti gli oppressi del mondo. Così, accanto ai murales che denunciano le ingiuste reclusioni, la sofferenza dei detenuti, la condizione delle carceri, ci sono uomini a cavallo, i pastori che tagliano il vello alle pecore, i contadini con la falce in mano, le donne avvolte nei tradizionali abiti neri, sedute sulla porta di casa. Particolarmente belli i capolavori che ricordano Piazza Tien An Men, la distruzione di Sarajevo, fino al crollo delle Torri Gemelle a New York.
La tecnica prevalentemente utilizzata è quella della pittura ad acqua, ma non mancano i più recenti esempi a stencil, tipico della Street art di Banksy. Gli stili sono piuttosto diversificati e passano dall’impressionismo all’iperrealismo, dalla pittura ingenuamente naif al realismo fino al trompe l’oeil. Molte sono le influenze del cubismo, con figure squadrate, solide e voluminese, i profili netti, i colori brillanti su uno sfondo scuro. Anche lo stile di Picasso del secondo dopoguerra è testimoniato da molte scene, con figure opulente e stilizzate, caratterizzate da una linea di contorno forte ed espressiva e da campiture di colore piatto e terroso. Chiunque qui può lasciare il suo messaggio, non seve essere dei “veri” pittori, non serve essere gente del posto, basta avere qualcosa di importante da dire e in cui la comunità possa riconoscersi. Camminando per le stradine strette del paese è la storia stessa a scorrere sotto gli occhi, con la trasformazione della Sardegna da pastorale a industriale, con le tensioni sociali della lotta di classe, con il G8 di Genova, con le sue donne e i suoi uomini, in bilico tra una tradizione a cui non si sa rinunciare e una modernità che non si può evitare. La Sardegna e il Mondo. Un’arte della gente e per la gente, che senza filtri racconta i mutamenti, la storia, gli ideali che cambiano, la tradizione, il riscatto sociale dall’isolamento e dal silenzio dei secoli. Un silenzio che si interrompe quando i muri iniziano a parlare.
articolo molto interessante che m ha fatto scoprire una realtà artistica che ignoravo completamente.
grazie mille all’autore