Rubrica tre pregi e un difetto a cura di V. Panico. Su “Non ha tetto la mia casa” di Lucia Cupertino

Rubrica tre pregi e un difetto a cura di Vito Panico. Su “Non ha tetto la mia casa” di Lucia Cupertino.

       

    

Commenti di Luca Ariano, Loredana Borghetto, Angela Caccia, Maria Luisa Vezzali
su “Non ha tetto la mia casa – No tiene techo mi casa” di Lucia Cupertino,
Casa de Poesía, San José, Costa Rica, 2016.
(Edizione bilingue italiano-spagnolo. Traduzione in spagnolo a cura dell’autrice).

    

  • Luca Ariano:

Non ha tetto la mia casa di Lucia Cupertino incuriosisce subito per essere stata pubblicata con una versione in spagnolo che arricchisce questa breve antologia poetica, come indicato dall’autrice nel sottotitolo. Nella prima sezione Sul balcone del mondo subito notiamo un tono narrativo, con versi lunghi che trasportano il lettore: questo, a mio parere é un pregio della poetessa che sa colpire chi legge con immagini dirette. Ricorrono spesso le parole terra, polvere, vento dal tono evocativo.

Un altro pregio è, nonostante l’uso di versi lunghi, come detto, e uno stile narrativo, un certo lirismo di fondo che pervade tutto l’impianto della raccolta. Spesso narrazione e lirismo vengono visti come contrapposti, ma in questa raccolta sono ben dosati, efficace la metafora del treno del viaggio e anche l’uso di alcune figure retoriche come l’allitterazione (a frinire fino a finire).

Nella seconda sezione Coperti da un albero si susseguono poesie dove affiorano ricordi dell’infanzia, del passato, con un’eterna ricerca di qualcosa (una terra promessa?) e spiccano poesie come Le madri (figura che ricorrerà anche in un’altra poesia: “LE MADRI bussano alla porta di notte / sempre quando non sappiamo /  che darle, come accoglierle. / Perché siamo così impreparati?” Colpisce l’accostamento di vari linguaggi e lingue, con una mescolanza di toni più “aulici” a termini della contemporaneità come facebook, smartphone o di altre lingue che non stonano nell’incedere del verso: “Stai lì, nel mezzo di un ronzio di lingue / infisso come salice / ma divelta è la radice, / lontane le sponde del fiume / in cui attecchiva e un villaggio / ormai anch’esso presente / solo in qualche post di Facebook.”
In questa sezione che potremmo definire di “poesia civile” vi sono alcune poesie dedicate alla Siria, a Mosul e alla realtà attuale di una sanguinosa guerra che dura da anni; poesia legata alla contemporaneità che tratta un tema così delicato senza scadere nella retorica, qui Lucia Cupertino dimostra di saper dosare bene poesia civile e intimismo consegnandoci versi efficaci.

Come consuetudine di questa rubrica tocca anche trovare un difetto a questa preziosa raccolta che ho trovato davvero interessante. Forse una maggior ponderazione in certi versi che sono fin troppo lunghi, magari una piccola limatura renderebbe il tutto più efficace? Come ho ribadito all’inizio, per me non è un difetto, ma se proprio se ne deve trovare uno, questo potrebbe essere un punto da migliorare nella raccolta e forse nello stile di Lucia Cupertino.

        

  • Loredana Borghetto:

Se per Franco Armino la forza della poesia è la forza del luogo… e noi abbiamo bisogno di partire da un posto preciso, per la poeta non esiste un posto unico ma una molteplicità di luoghi che si dilatano fino a comprendere il mondo intero.
E non può essere diversamente, visto che Lucia (nata nel 1986)  è della generazione Erasmus (e, purtroppo, Bataclan) che sconfina oltre ogni confine; è un fiore del vento i cui petali da Polignano a Mare, il suo paese natale, sono già volati in numerosi  e differenti luoghi (favorita in questo anche dal suo curriculum scolastico-lavorativo): in Italia e poi in Argentina, Messico e Colombia; in Australia e Germania e in chissà quanti altri ancora.
L.C. è, dunque, una di quei  giovani “colmi di speranze come bottiglie” e contemporaneamente “fragili vessilli”, condannati a darsi il coraggio di guardare e rappresentare la vita (Lucia lo fa tramite la poesia)  per quello che è, con il rischio  di perdere l’ingenuità e, forse, anche l’innocenza. E’ una di quei giovani desiderosi di mordere la libertà, di disfarsi di ogni pastoia, anche abbandonando il “sacco tiepido di abbracci” pur di respirare il respiro della natura, stare sola come l’erba, avere la notte come tetto e riposare coperta da un albero.

1) In questo peregrinare l’io gitano di Lucia si dilata fino a “entrare nel palpito d’attorno”,  fondendosi in un afflato panico con la natura ed empatico con i tanti io incontrati che diventano conoscenza partecipe di umanità diverse, partecipe al punto da identificarsi con lei; così può succedere, per esempio,  che “la cicatrice della tua (di un io conosciuto…) gamba compare nella mia”, scrive la poeta in Mosul.
Quando le pareti della sua anima aderiscono al mondo, Lucia trova la sua casa e noi troviamo la sua poesia, che ha sempre qualcosa di non banale da dire, sulla vita e sulla morte, sull’amicizia e l’amore, sulle scelte che possono cambiare noi stessi  o il mondo. E mentre i suoi versi scorrono davanti ai nostri occhi, noi raccogliamo le sue risonanze.

2) “Il vento e i passi hanno tratto storie straordinarie al cuore…io le ho solamente raccolte” scrive l’autrice nella prefazione; raccolte e fatte poesia, anche mediante una galleria di ritratti che diventano quadri d’autore. Sono personaggi che, se da un lato vivono di vita propria, dall’altro assumono una dimensione lirica in quanto “attraversati” dall’io poetante  che li trasfigura grazie ad una particolarissima sintesi tra esperienze personali  e culture assorbite nel corso delle sue peregrinazioni.  Nella poesia “La madre”,  per esempio, tipi umani diversi e lontani affrescano un mondo realistico e nel contempo mitico, filtrato dalla sensibilità della poeta-antropologa , che vive la loro vita come un dono. C’è la madre con cui raccoglie gli asparagi e quella dell’amico chitarrista, la nonna con cui spacca le fave e quella elvetica dalla crocchia ordinata, l’indigena dai capelli di corvo e un figlio appeso al seno… E poi ci sono i voladores messicani e gli uomini di finanza in giacca e cravatta, il ferroviere e la sua donna, sola, nel letto freddo, come quello del fratello che da giorni non chiama ma di cui qualcuno continua a riassettare le lenzuola e il pigiama a righe… Storie raccolte che sollecitano ricordi, ma anche dubbi e paura che sfuma nell’angoscia di fronte a quei ragni giganti aggrappati alle pareti della storia, ai pericoli incombenti sulla natura e sull’uomo violentati, sul “nostro pianeta sterile”, come scrive Daniel Calabrese in Ruta dos. Ed ecco le poesie che denunciano la cementificazione  delle nostre città con le loro “scatole di cemento” in cui ci ostiniamo a “seppellire il corpo” e soprattutto a “incenerire slanci…a  tumulare la giustizia sotto le macerie di un non si può”. Poi ci sono i migranti con il loro death Jacket e quelli che riescono a toccare terra, per i quali ogni affetto è ridotto a un numero di cellulare, a una foto sottratta agli “sbrani  delle onde”, a un villaggio ormai presente solo su fb.  E la Siria, con le strade che non esistono più…, con tazze di tè con zolle di calcinacci e mani mozzate a non sostenerle. Quante sono le vittime delle guerre, della crudeltà gratuita generata dall’insensatezza umana? 4.000 o 4 milioni? Ormai non si può più tenere il conto; quello che è certo è che ognuna di loro è una PIETA’ del ventunesimo secolo.
Scrivere poesia, oggi più che mai, vuol dire cercare il significato più profondo dell’agire umano e, nel contempo, possedere la “caparbietà” di non voler soccombere agli sfaceli. Di fronte a questa realtà la poeta  non resta indifferente e con la forza dei suoi versi scuote i nostri torpori  perché, ci dice, quei ragni giganti alle pareti della storia e del nostro vivere quotidiano non possiamo schiacciarli con le pantofole e poi tornare in poltrona aspettando la catastrofe incombente. Questo è l’appello-messaggio di Lucia Cupertino che rivendica il diritto di possedere slanci e ideali per evitare la catastrofe.

3) Leggendo le poesie dell’antologia, oltre alla versatilità e sperimentazione formale, colpisce l’equilibrio tra sillabe, parole e sintagmi che danno ai versi (liberi e quasi sempre lunghi) un’andatura prosastica pur conservando le scansioni ritmiche della poesia.
Variegato, ma sempre efficace e contestuale, l’utilizzo della punteggiatura: a volte, usata secondo le regole canoniche della sintassi, scandisce periodi e/o frasi che hanno un significato concluso; altre volte si fa rada fino a mancare del tutto, come nella poesia “C’è terra” con i suoi 17 versi  retti solo dal punto interrogativo finale. Quando  la punteggiatura è scarsa o assente, nei  versi si creano ritmi aperti, fluidi e incalzanti e lo spazio bianco, associato ad alcuni enjambements e/o inversioni, evidenzia sintagmi e parole chiave. In “Avrei voluto” l’elenco dei desiderata scorre impetuoso come un fiume in piena, fino a rallentare improvvisamente con un verso-parola (ma) che ci permette di condividere la stanchezza dell’io poetante e, subito dopo, di respirare il suo sogno.
Al flusso del parlato quasi come  se stesse trascrivendo ricordi e registrazioni raccolte dalle persone incontrate, Lucia Cupertino accosta un uso oculato di figure retoriche, frutto di una personale ricerca anche lessicale mediante la quale dà corpo alla parola facendo emergere la forza del significante ma non a scapito del significato.  E’ da rilevare, infine , l’uso di parole o espressioni di altre lingue che fluiscono con naturalezza nei versi dell’autrice nomade che vuole aderire al mondo intero.

Difetto

In qualche passaggio la componente intellettualistica non riesce ad assumere una dimensione lirica, così che la poesia appare troppo raziocinante e fredda. Mi riferisco, per esempio, a un certo francescanesimo un po’ di maniera  a pag. 73 o al verso finale della poesia a pag. 67   “La bellezza, Lucia, è la ricchezza del cosmo”. Ma mi si potrebbe obiettare che Lucia, in questo suo nominarsi, ha un illustre esempio in  Dante   “Dante, perché Virgilio se ne vada / non pianger anco…” (Pg. XXX, 55).

      

  • Angela Caccia:

La sensazione che la Nostra scriva in un sussurrato dialogo tra l’io e il me di cui fa generosamente partecipe il lettore che non esita ad entrare in quel familiare conversare e farsi, egli stesso, intimo dialogo col suo sé;

È un “parlarsi” a voce chiara, quasi a voler chiarificare la vita che inevitabilmente accade, ripetutamente, incessantemente, senza l’unica tregua –concessa a sprazzi al “povero” poeta- che ogni vivente invoca e cerca di qualche modo di realizzare: il tempo di una consapevolezza, fosse anche di un unico verso;
Alcune liriche, piene zeppe di natura; in tutte le altre, non manca un pur semplice richiamo ad essa: è come un segno di identificazione, una doppia firma di cui abbisogna l’autrice per riconoscere e riconoscersi nello spazio tempo di quella precisa poesia. Annotazione questa che riporto tra i pregi perché ha la valenza ora di un vero e proprio pastello ora di una pennellata lieve e dolcissima;

Non so se per i motivi di cui sopra, da queste liriche si sprigiona un che di ancestrale che assurge quasi ad un vago archetipo in cui tutti, per frammenti, ci identifichiamo; un qualcosa di confitto e innato che questi versi solleticano e lasciano emergere come una liberazione inattesa, insperata; un inconscio che dà voce ad altri inconsci.
“Le parole, già./Dissolvono l’oggetto”, nel verso di Caproni il racconto del fallimento quotidiano di chi scrive versi: le parole non dicono non trattengono non raccontano, per intero, un intero che resta intangibile allo stesso poeta, fortuna che lasciano aromi e destano intuizioni e percezioni.

Per ultimo illustro ciò che non è propriamente un difetto, non è propriamente un pregio: in alcune liriche vorresti che la visione fosse retta un po’ più a lungo, vorresti che non finisse così presto …

    

  • Maria Luisa Vezzali:

«Tra le arcate di questo ponte / crescerà il mio canto.» Il massimo pregio di questa silloge – intrinsecamente connesso al fatto che l’opera nasce in edizione bilingue italiano/spagnolo e da un’autrice che riunisce in sé “mestiere” di antropologa e poeta – è quello di esercitare in modi cangianti e complessi una preziosa funzione di ponte tra realtà, discorsi, identità che nella compagine del mondo si trovano solitamente sconnessi, separati, antagonisti.

Il primo ponte (e primo pregio) è di natura, in senso alto, ecologica, tra uomo e ambiente. Lo spazio è infatti uno dei protagonisti di questa raccolta, uno spazio sempre aperto anche quanto si tratta di casa (che già dal titolo si dichiara programmaticamente «senza tetto») e accogliente, inglobante, che si nutri di toponimi, come Pompei, Mosul, Bosforo… Ma soprattutto vibra la presenza di una natura sfregiata che si vuole curare e rimettere al centro dell’esistenza umana e che per questo finisce per fondersi con il corpo. Si leggano a questo proposito i seguenti esempi: «qualcosa senza nome ti scuote fino alla corolla e ti svegli con un terremoto di radici in cerca d’altrove», «(le madri) non vanno mai via davvero, restano proprio come quelle liane ormai fuse ai tronchi d’albero»…

Il secondo ponte/pregio si manifesta come sapiente mediazione tra la tonalità della prosa assunta da certi passaggi soprattutto nell’incipit («non molto distante da casa tua appena a cento chilometri da Aleppo si trova la culla dell’orzo, il più antico del Mediterraneo») e la musicalità del dettato, fatta soprattutto di allitterazioni («sola a salare», «fiamma sulle felci», «eco di cicale e chiodi», «a finire fino a frinire», « sibili e spiriti su per gli spifferi») e assonanze («finita/vita»…).

Il terzo ponte/pregio lega la disamina lucida del quotidiano (la dura realtà del lavoro, il romanzo delle relazioni familiari, la tragedia siriana) a una rete di fitti rimandi culturali, oltre che esotici, provenienti dall’attività di studiosa dell’autrice, anche tutti nostri, nazionali: «e in te ti rifugi» ricorda il «sola seco si ragiona» o il «di me medesmo meco mi vergogno» che costellano il Canzoniere di Petrarca; il treno «furia purosangue» è parente del carducciano «mostro conscio di sua metallica anima»; nel «nero di fiati» è utilizzata una delle figure retoriche più distintive di Pascoli, la metonimia dei fratelli Goncourt (chi non ricorda, dai tempi dei banchi di scuola, il suo «bianco di nubi»?); il verbo “dissipare” è marcatamente montaliano/rosselliano; «avrei voluto mostrarmi ribelle e chiassosa» riecheggia il montaliano «avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale», mentre «tornando ad essere partorita oggi nelle acque della cascata» ha un senso uguale e contrario (parto vs sepoltura) alla necessità di armonia con gli elementi del cosmo che Ungaretti manifestava in passi celebri come «mi sono disteso in un’urna d’acqua e come una reliquia ho riposato». E si potrebbe continuare.

Il difetto germoglia, per quanto di rado, tra le piante buone della passione civile che pervade ogni testo della Cupertino anche quando sembra che il focus sia su altro. E si tratta di alcuni eccessi di indignazione enfatica che si riconoscono in espressioni come «perché siamo così impreparati?», «per molti sei solo un povero pazzo», «adesso che quel che resta di ogni affetto è ridotto a un numero di cellulare sullo schermo», «dicono che il pil misuri la ricchezza di un Paese, lo dicono uomini di finanza in giacca e cravatta», «non crediamo a questa barbarità». E’ un difetto assai veniale, pure si sarebbe potuto evitare, perché il messaggio arriva al lettore forte e inequivocabile, anche (e soprattutto) in versi meno lampanti.

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in apertura Kirikù e la strega Karaba, Michel Ocelot, 1998

        

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