Rubrica tre pregi e un difetto a cura di Vito Panico. Su “I quaderni dell’agnizione” di Simonetta Sambiase.
Commenti di Marisa Cecchetti, Enzo Lomanno, Vito Panico
su “I quaderni dell’agnizione” di Simonetta Sambiase,
Ass. Culturale Lucaniart onlus 2013.
- Marisa Cecchetti:
Un pregio della Sambiase, ne I quaderni dell’agnizione, è la sua capacità di rapirti in un vortice di emozioni, a cominciare dal rifiuto del nome “a nessuno permetto di dirmi quale sia il mio nome/i nomi sono carnefici penitenti/ canali di lettere/volti del padre/fiumi migranti/ dove riversarsi ed affogare), che marca una sofferenza sostanziale nel riconoscimento di sé, per arrivare alla denuncia di un vuoto di legami, un bisogno carnale di contatto. Che sia vicenda personale o acquisisca liricamente un valore simbolico, non fa differenza: la madre cercata, sfocata, lontana, possono esser le radici affettive o poetiche in cui non ci si riconosce e a cui si anela. Interessante e riuscito lo svilupparsi del percorso dove i “fiori dei ricordi” portano immagini calde, come quelle del pane nella credenza della nonna, e ci portano al Sud, e di quella terra si colgono colori e odori vitali: “il profumo d’alloro, le conserve/ la visita cortese/il malbianco degli aranceti”.
Si recupera l’ava portatrice di abitudini, riti, di calore e sicurezza, in un contesto dove anche lo scorrere del tempo non fa paura e la fede mitiga il lutto e l’assenza. E’ un prendere coscienza della famiglia e dell’amore che la lega alle figure parentali:“importa ora dove sei e se sei al gelo/lascerei portare una coperta dalla mamma/ e non queste piante da lutto/l’inverno nei fiori ha un bianco/inquinante/di morte e dolore”. Pensieri che azzerano, negano, rifiutano l’idea di scomparsa, di assenza fisica, in una volontà di perpetrare sollecitudini quotidiane.
Un secondo pregio è senz’altro il linguaggio che talora toglie il respiro, batte pesante: “Si vive a cascata, si vive comunque/pesante ma proprio pesante, senz’aria/ferina, feriale, uno sciopero venuto male, un etto di piombo/senza la piuma, in questa città rettile non si cammina”. Ma la Sambiase, accanto ad una coloritura che volge al nero (buio, l’ora del lupo, orchi, rughe, vecchie tate, zitelle, gabbie, sorriso costretto, deserto, trappola) ad un certo punto fa sgorgare acqua limpida di vita, come una benedizione: “e divenne acqua viva e madre/un’onda bambina dentro sua figlia/chiamando a sé nuove forme come una benedizione/di pioggia”. E ci sono aperture alla speranza: “gloriosamente, risorgendo, striando di luce, che tutto passi e ritorni, un amore, ma anche un abbraccio”. O si sente un respiro più profondo che porta sapore di casa: “traspare in mezzo alle pentole che furono la dote delle nonne/tra la cristalleria del rosolio e il nocino che la circonda/ricorda i misteri del pomeriggio a sbucciare stagioni/ e i piselli e le fave da mettere sotto le mani”.
Interessante, in terzo luogo, l’immagine della creatura da mandare nel mondo: solo attraverso il “dare alla luce” c’è il riconoscimento di sé e un equilibrio personale e lirico finalmente realizzato. E lei sarà guida verso la Bellezza, in un misto di lacrime e riflessi di mare: “Di fibra e convulso si srotola il mondo/ma di vetro t’avvolge, in un arazzo d gocce/che appaiono e spaiono se le guardi per bene/di pioggia di sale come fosse di lacrime/o riflessi di mare, se per mare andrà mio figlio a svanire/ e per cielo taverne e per nuvole pastori/ti troveremo in una piega di donna o in una piazza assolata/- figlio di sole, impastato di lingue”. Una creatura che continuerà ad esistere e vivere nelle sue stesse fibre, grazie alla quale si allontana anche la morte , in una continuità che diventa eternità: “mi sei/dimora/e dismissione di ogni morte/così fortuna e fatica/acciaio nei capelli/e ruggine di lacrime agli occhi”
Un neo: ostica al primo avvicinarsi, quasi ti respinge, ti chiedi se davvero vuoi andare avanti. Poi entri lentamente dentro il suo registro talora surreale -anche se la poesia è casa ideale delle figure retoriche- e stabilisci il contatto.
- Enzo Lomanno:
A nessuno permetto di dirmi quale sia il mio nome
i nomi sono carnefici penitenti,
canali di lettere,
volti del padre,
fiumi migranti
dove riversarsi ed affogare”
Nella poesia di Meth riscontro temi a me molto cari sin dal Titolo: Agnizione
Agnizione che significa identità, riconoscimento.
In molte delle poesie lette riscontro un logorio sommesso che attraverso la parola che scava si incornicia in un dipinto di più ampio respiro e non deleterio. Una costruzione/ricostruzione che assoggetta luoghi, intenzioni, affetti, abbandoni per poi rinnovarsi in un simbolismo materno:
“Non le somigliava più
l’ultima vita infinita di deserto
di trappole, di membra e morsi di roccia
sola, qui, disabitata
era stata misericordia
ma divenne giorno e si cambiò, si dissolse
e divenne acqua viva e madre
un’onda bambina dentro sua figlia “
Mi colpisce in questo passaggio e in molti altri, l’attribuzione al sé di una forma vuota (disabitata), una cera vergine su cui prorompere con la forza primordiale e viscerale della vita che scorre “e divenne acqua viva e madre/un’onda bambina dentro sua figlia”
La forza dell’energia di questi ultimi due versi ha in sé tutta l’irruenza necessaria per incidersi nel lettore, lasciando alle parole appena lette un senso di stupore e meraviglia che sono innate in ognuno di noi.
La rappresentazione di metamorfosi e continuità che nella Sambiase si riscontrano sotto forma di figure retoriche e intimiste come Madri, Nonne si evincono anche in temi che paradossalmente chiudono drammaticamente.
Anche nella morte si ha un’impressione che esula da un sé sprangato, il senso di recinto spirituale si apre ed accerchia l’ambiente con un unico immenso abbraccio:
“Alla fine del fondo
voglio compagnia nei giorni della sepoltura
sopra la terra, due metri di finestre appendono barre
al conforto, voi datemi abbracci,
dei tocchi di mano sui capelli,
il sole sulla statale di qualche santo locale,
accanto un immobile ignoto sfogliato
una distesa di notte e il primo dolore d’autunno
aspetta all’erta con litri di scale e rosari in radio”
Si ha come una sensazione di salvifico alla lettura di questa brava autrice, che ammiro per il coraggio di proporsi anche in temi su cui spesso anche io sono approdato. Il pensiero dell’incasellamento societario, il volere espiare il senso di abbandono e della vita al di là dei piccoli concetti umani, utilizzando proprio quello strumento che più ci identifica e che ha in sé una chiusura inevitabile e un confine che ci reclude: La Parola
“Volevo confidarti – mamma
che mi hanno dato un nome nuovo nei giorni dell’infanzia
e un foglio di battesimo attaccato al collo
con una medaglietta della Madonna benedicente”
Un altro pregio che riscontro nella Sambiase è ovviamente la capacità dell’artista. La qualità degli scritti è ammirevole, il suo dire mai banale.
Non si appesantisce la lettura, nonostante tratti temi complessi.
Il ritmo si scandisce e non trovo abbellimenti superflui sui versi. La pulizia e il lavoro di cesello non mancano e gli elaborati hanno comunque mantenuto l’essenziale bellezza e ricercatezza che sono necessari al componimento Poetico.
“Mi cullo le ossa,
più scure del latte questa pelle gramigna
se sterile vivo, germino zolle e silenzi
ma non ascoltarmi figlio donato
se mi segano la lingua non sarà per un’ultima volta
per me extraordinaria
appena rinata, ti sgravo di nuovo”
Infine, mi rapisce il senso dei luoghi e delle tradizioni che si scontrano anche con un dire non troppo classico, a volte attraverso metafore che riconducono a luoghi di infanzia e di amarezza.
L’espediente del ricordo e l’utilizzo di figure che hanno corredato la vita della Sambiase, danno al tutto, quel senso di universalità che contraddistingue il poeta dal Poeta.
” Il suo Paese
è stato l’insediamento della Certezza medaglia e podio d’oro,
dal profumo d’alloro, le conserve la visita cortese,
il malbianco negli aranceti
e si ricorda appena delle pene
ha il tramonto nella fusoliera degli occhi la maschera di un velo
fra i capelli e gli anni che son venuti”.
Oppure:
“l’eredità è stata una lana da cardare in maggio
matasse e luci dal balcone
giusto là da dove arrivava anche Dio
come spiegavano le vecchie in chiesa
portando addosso i segni del lutto
insieme alla fede e alle cantilene”
Trovo che l’impaginato potesse rendere a livello grafico più giustizia a questa autrice. Il tipo di carattere scelto per il corsivo non mi convince, come non mi convince la scelta di non separare un testo dall’altro, ma di editarli direttamente uno dietro l’altro.
- Vito Panico:
In generale la memoria, l’abbandono, l’assenza, il freddo ci sembrano alcuni dei motivi fondamentali sin da subito e sono resi con potenza:
Si vive a cascata, si vive comunque
pesante ma proprio pesanti, senz’aria
ferina, feriale, uno sciopero venuto male, un etto di piombo
senza la piuma, in questa città rettile non si cammina
si sono estinti i saluti, il rosso semaforo ritma le strade
silenzi e squilli e foto smarrite a curvare i ricordi
Gli appigli che le servono per rendere questa poetica sono lo sbaglio, l’inversione dell’ordine naturale delle cose, l’ambiente, ma anche la posizione della donna nella società di alcune zone del meridione, e non solo.
fin da quando sono arrivata di scarto
o d’eretica passione, frutto di belladonna
sono ora reincarnata in un nodo – mamma –
‘nel freddo si sta fuori ogni notte.
lasciamo le fave per gli orchi, e i giochi, nelle camere
ascoltiamo
quello che leggono le rughe delle vecchie tate
e zie zitelle con segreti e smorfie di Maddalene poco penitenti
Troviamo il lessico ricco e preciso, quasi mai gratuito, e la struttura del verso sempre interessante:
ero un monastero tra i tuoi piedini nudi
che lo percorrevano freatici in anni imbeccati
C’era una tolda a forma di vita
e Lui voleva che gli assomigliasse.
i fogli ovunque nei muri, le fotografie invecchiate
virate a seppia, in basso, fra le gabbie e il cuore
si cresce d’infiniti passati
e alla fine del passaggio si cade
Ci piace il dialogo che la poetessa stabilisce quando si confronta con la generazione di donne che l’ha preceduta e con la quale un po’ s’identifica, e un po’ ne rivendica uno scarto, una presa di distanza:
Se tagliasse i capelli
la donna che chiamava nonna ora l’assomiglierebbe
all’aria libera o nelle scale diceva ai suo capellacci neri
“ foresta
– era il suo soprannome –
torna ferma che troppa vita ti attraversa”
senza radici nessuno ti sposerà se non riposi
senza segno della croce o la farina giusta per impastare gli gnocchi
In questo dialogo c’è un cambio di passo: è più bella quando si lascia andare mettendosi in gioco, e rimane concreta, più vitale, come nelle parti dedicate alla madre e al padre.
…importa ora dove sei e se sei al gelo
lascerei portare una coperta alla mamma
e non queste piante da lutto, l’inverno nei fiori ha un bianco inquinante
di morte e dolore
che poco assomiglia alla musica che suonavi
mite, buona, tasti neri e bianchi e tutti accanto
a costruire i ricordi, così sono ora la figlia che ascolta la radio in ogni stanza
note alte e basse incrostate del padre
che non ha mai smesso di essere l’amato.
L’altro pregio è il distillato umorismo:
All’Accademia avevo un compagno
che era proprio ma proprio cacaglio
rullo e colata, colore e disagio
giorni e studi, era sempre estraniato
“So\so\so stato adottato “ – andava dicendo
e l’agnizione invade questo quaderno
cacaglio = (dialetto partenopeo )balbuziente
Quello che non ci convince a pieno è un pregio e un difetto insieme: la musica. È una musica sì ammaliante ma solo a metà: a volte ricorda il novecento, quello di Terra Desolata, di Prufrock, o dell’antologia di Spoon River. Niente di male, anzi, ma il tono da lungo poema funebre a volte rischia di oscurare la forza della poetessa.
