Rubrica tre pregi e un difetto a cura di V. Panico. Su “Habeas corpus” di Pasquale Vitagliano

Rubrica tre pregi e un difetto a cura di Vito Panico. Su “Habeas corpus” di Pasquale Vitagliano.

       

    

Commenti di Sandro Angelucci, Anna Belozorovitch, Anna Magnavacca, Mara Sabia
su “Habeas corpus” di Pasquale Vitagliano,
Zona contemporanea ed. 2015.

    

  • Sandro Angelucci:

In questi ultimi anni
sono stato inclinato su un fianco,
le vele a pezzi e la memoria scrostata,
le punte dei piedi rotte e inzuppate.
Ho ruotato ingovernato per cerchi
sprecando giorni interi a trovarne il perno,
finendo senza fiato a girare su me stesso,
specchiandomi di fronte credendomi l’orizzonte.

In questi ultimi anni
sono stato trattenuto alla deriva,
deviato dal mio tragitto e preda del passato,
finché non mi è stato restituito l’habeas corpus.

Consiste già in questo – che può essere considerata una vera e propria dichiarazione d’intenti – il primo pregio della raccolta di Pasquale Vitagliano: prendere atto di essersi sentito con “le vele a pezzi” ma, nello stesso tempo, che la sua “carena vuota” (come scriverà nella chiusa) può ancora riempirsi di un carico meno gravoso perché strettamente legato al proprio destino.
Da qui – immediato, conseguente – il secondo pregio; il riconoscimento del contenuto della stiva, la consapevolezza della parola salvifica:

Pronunciò piano la parola
e la camera si riempì di quel suono,
ne fu subito piena e fu ascoltata
come se fosse pronunciata la prima volta,
arrivata senza volerlo, non invocata, nuda.
Sconosciuta eppure concreta e nuova
come solo le cose più elementari
sanno esserlo.
Inspiegabile eppure chiara.

Una parola mai banale, dunque, non scelta ma che ti sceglie, inconoscibile pur essendo stata pronunciata, “nuda” – appunto – della sua sola elementarità: terzo pregio; senza dubbio il più rilevante, il più raro, oggi come sempre, da rinvenire in un poeta.

Il difetto? Ma si, troviamolo (è la peculiarità di questa rubrica e ciò che la rende interessante, in un ambiente che tesse lodi a non finire e, spesso, a sproposito): una forse eccessiva discorsività, uno stile narrativo che, inevitabilmente, penalizza la musicalità, l’armonia del canto. Sicuramente voluto, però, sicuramente genuino.

       

  • Anna Belozorovitch:

La raccolta è efficacemente divisa in sezioni che portano ognuna il nome di un colore. La scelta è già di per sé interessante perché sembra costituire un percorso, per nulla predefinito, a chi legge. Il giallo sembrerebbe raccogliere testi che riflettono sulla morte e sul tempo, sulla famiglia; il rosso pare – forse per suggestione? – associato al sangue e alla violenza; il nero sembra la cornice di una serie di esperienze e osservazioni sul mondo circostante; l’azzurro possiede un carattere forse più spirituale e infine l’ultima sezione, il bianco, è il luogo dei fiori, dei piccoli oggetti, dei dettagli che insieme costituiscono vere e proprie nature morte. Tale interpretazione può variare con ogni nuova lettura e per questo – seppure costituisca un “tocco” esterno alla composizione dei testi veri e propri – la scelta dei colori per intitolare le sezioni appare come un pregio.

Una presenza importante di questa raccolta è l’ambiente familiare, presentato in maniera sempre inattesa. Lo spazio domestico è il punto dove passato e futuro si incontrano, ma è anche luogo e misura del tempo che passa:

qui non c’era nulla prima,
poi mio padre un giorno c’ha piantato un melo,
che non so come gli è venuto.
E mia madre in un angolo ha fatto crescere i capperi,
e sotto il solito cielo ha fatto spuntare un tetto di glicini,
e un mio fratello sull’ultima lingua di terra ha fatto un orto.
Adesso questo posto è cambiato davvero. 

*

Ho già imparato quanto siano inutili i santi
se non ci hanno insegnato a rispettare la madre
che va bene se ti allatta anche se hai quarant’anni
ma poi la metti da parte se la casa l’ha data ad altri. 

Se per amore dei miei figli ho assassinato i miei genitori,
quanto è circolare l’immobilità del destino umano;
hai preparato col tuo sperma
il veleno per il quale tuo padre ha maledetto il suo. 

*

Mi sono arrivate dentro questo spazio
le urla dei ragazzi di sotto,
poi hanno suonato al citofono. 

Non so perché ho pensato che cercassero me
ed invece – come era ovvio – cercavano mio figlio:
due vite stanno passando in mezzo a quel suono.

*

Ascolto alla radio mia madre
che prepara la cena
cantando Sanremo
carezza la testa a mio padre
gli dice
mi hai rovinato la vita,
lo sai che mi hai rovinato la vita.

A tratti, sembra di trovarsi tra le mura di casa di una famiglia sconosciuta mentre la sua vita continua a scorrere. In altri momenti, si ha l’impressione di salire su un palcoscenico per sbirciare la scenografia da punti di vista impropri, diversi da quelli destinati allo sguardo dello spettatore. È un grado di onestà e di nudità imprevisto, che colpisce e accoglie.

Infine, un grande pregio di questi testi è il loro ritmo che, senza mai spezzarsi, appare carico, energico. Il verso sembra scorrere spontaneo e finisce per trascinare senza fare alcuna violenza a chi legge. La musicalità sembra materializzarsi nel momento in cui la parola colpisce la mente, quasi come se nascesse non dalla premeditazione del poeta ma dall’incontro tra questo e il lettore. Come in questa splendida poesia:

La nuca

Fisso la nuca delle donne
perché gli occhi a volte sono voltati,
ma mi colpiscono anche quelle
degli uomini, le nuche, la spina del collo.
Eppure non è il codice sorgente,
il vortice del corpo, ma il fuco
delle movenze e del linguaggio,
il punto radiante dello sciame delle azioni.
Dicevano che senza testa il corpo
non si muove, atassico, sgangherato.
E invece no. Parla, ricorda, mangia, pensa,
sempre allo stesso modo, visto da dietro.
Integro, intero, visto da dietro, ignaro,
sembra quasi un volo questo cammino
educato al discorso, quasi musicale, lento,
visto da dietro, indifeso, è commovente il distacco.

Un elemento di disturbo è dato dall’uso frequente di anafore che talvolta sembrano annacquare il discorso:

Ci vorrebbe una notte di sonno
di sonno e di riposo.
Una notte senza paure,
ci vorrebbe una notte di sonno,
che si potesse anche vedere.
Ci vorrebbe una notte stellata.
La notte e le stelle,
e un riposo senza paure.
Ci vorrebbe una notte
che rendesse sontuose le rovine,
e ragionevoli le disperazioni.
Se solo ci fosse una notte di silenzio

L’utilizzo di queste anafore addolcisce il testo, rendendolo più “innocuo”; invece è proprio nel suo essere inarrestabile, impetuosa e imprevedibile l’elemento di maggiore forza della scrittura di Pasquale Vitagliano.

  

  • Anna Magnavacca:

Ringrazio per essere stata coinvolta in questa interessante rubrica “a dire” sull’opera “HABEAS CORPUS” del poeta Pasquale Vitagliano.
E’ stato facile individuare i pregi dell’opera e piuttosto difficile estrapolare un difetto.

Il primo pregio di questa silloge è l’assoluta importanza attribuita alla potenza della
“parola” nel senso più lato: parola vera- ribelle- invisibile- giusta; parola senza voce- parola corpo-parola silenzio- parola nuda-parola denuncia “…il nostro mare è ormai una fogna…… …se il mare vomita la terra è malata..” ( da- A guardare bene le foto) ;
“ …la vita è inesorabile quando scorre cieca,/il cibo, la sete, il fango, le feci sotto la neve…” (da- Via dai canili) “…con la golia in bocca fra i ponti d’oro..” ( da- Una parodia)

La parola

Pronunciò piano la parola
e la camera si riempì di quel suono,
ne fu subito piena e fu ascoltata
come se fosse pronunciata la prima volta,
arrivata senza volerlo, non invocata, nuda.
Sconosciuta eppure concreta e nuova
come solo le cose più elementari
sanno esserlo.
Inspiegabile eppure chiara.

Il secondo pregio è quello della variegata umanità che il poeta descrive nell’attenta osservazione della vita in tutti suoi trabocchetti, i suoi doppifondi, i suoi mascheramenti e la sua precarietà. Un’umanità densa di abbandoni e tristezze, di illusioni e delusioni.
La vita a 360 gradi.

Mi sono inchiodato
allo stipite della porta,
un saliscendi sulla spiaggia di Ostia.
Sembro l’allegoria meccanica
che batte a mezzogiorno
su una piazza senza turisti.
Zitto, non si mostra la vita,
al massimo resta il compro-oro
dove svendere le cose.
Si potrebbe ricavarne 500 euro,
meglio che lasciarle morire sui corpi,
con quelli dovrei farcela a finire il mese.

Sono sopravvissuto alle viole
stracciate,
alle foto che nessuno
scarica più,
ai giornali on-line
che non hanno più alcun odore,
alle chiavi invisibili
che non puoi più prestare,
alle penne senza inchiostro
che non scrivono più alcuna lettera.
Sono sopravvissuto alle viole
stracciate.
Sono la pietra
lasciata sulla mia tomba.
Sono la pietra che lanciava
quel ragazzo per rompere i vetri
che poi riparava.

Un altro pregio dell’opera “HABEAS CORPUS” è il linguaggio che il poeta Vitagliano usa. Linguaggio colto, ricco di assemblaggi sintattici di grande vis creativa, ma ben comprensibile. Versi intensi, coinvolgenti e realistici.
Il lettore può proseguire agevolmente la lettura e ritrovare situazioni attuali e vere “ Ho visto le menti migliori della mia generazione/ distrutte dalla noia, affamate, brillanti autistiche,/ trascinarsi per corridoi di portaborse all’alba in cerca di / un lavoro, un posto” (da Una parodia)

Annoto un difetto (se vogliamo chiamarlo così) ma è soltanto una mia impressione.
Il poeta sente tutto lo sfacelo di questo mondo “ Le menzogne stanno sotto il tappeto,/………Odio i tappeti dalle finestre,/ per questo li butterò e incendierò il letto:” (da Odio i tappeti). Ciò nonostante si avverte- fra le righe- una sottile, percettibile constatazione del poeta sulle enormi difficoltà per trovare un rimedio al male del mondo   “…se il sole tornerà a Novembre/ sarà tardi perchè i frutti saranno marci…” ( da Giugno con le ombre ) “ E’ che non ho più nulla da dire…”
(da Non faccio più lo stesso sogno-); “ Bisognerebbe rimettere a posto le cose/ se solo fosse possibile,/ma ormai l’intero armadio è crollato…” ( da La scelta di Sophie); “…ma a questo punto io resto immobile,/ e resisto in attesa che arrivino i marziani/ a dirci che la terra è piatta e senza confini” ( da Giorno dopo giorno).

In questo contesto voglio citare il grande scrittore olandese Cees Nooteboom che così si esprime “ Ecco, quando vedo quel che sta succedendo, penso che mi piacerebbe che la poesia fosse una cura. Usare i versi per curare il mondo. Ma ho il sospetto che non basti….” (da Repubblica 21/12/2015)-

Profondo e significativo il lavoro del poeta Pasquale Vitagliano. Lo ringrazio per aver avuto possibilità di leggerlo.

                          

  • Mara Sabia:

Primo pregio “Habeas corpus” è un’opera onesta. Con un punto di vista dichiarato. Quello dell’autore. Non ha finzioni, non si nutre di escamotage. È il poeta che osserva, spietato, il mondo che lo circonda, il proprio corpo, la natura massacrata, la propria immobilità utilizzando comunque e sempre la potenza della forma lirica come punto di osservazione privilegiato. Anche quando si distacca da sè, e anela ad un altro punto di vista, l’autore torna a sè.
… Vorrei essere al posto di chi mi guarda per godermi la sua vista senza giudicarla, da fuori persino potrei provare il rimpianto di essere stato alla finestra, senza buccia, senza rumore, alla chiusura. (A parti invertire)

Secondo pregio È un libro che parla di quotidiano e inferno quotidiano, ma senza cedervi. La quotidianità insegna e fagocita, può essere cambiata, alle volte, con fatica. A volte l’inferno si sceglie. A volte sorprende. Anche se tutto fuori urla, una giornata può anche iniziare bene. Non si cede all’inferno, lo si coltiva inesorabilmente, ma lo si scavalca.
In ogni casa c’è un angolo di inferno, l’inferno che accettiamo, l’inferno quotidiano, l’inferno che vogliamo. … (Il bagno lo facciamo lo stesso)
Ed è in questa quotidianità che si rivela il midollo del poeta, capace d’innamorarsi delle cose piccole come dell’immenso e passarlo al lettore dandogli forza di parola: nervosa, sonora, stridente, ermetica eppure comprensibilissima per una mente avvezza al verso.

Terzo pregio È un libro scritto col cuore e con il sangue. Un libro per il corpo e che ha corpo e lo rivendica fin dal titolo. Un libro che vuole rivalutare il battito del cuore come memoria interiore ed essenza della vita. Come muscolo come evidente segnale di vitalità, prima dell’anima, eppure traccia e presenza dell’anima stessa.
… Ma con me hanno sbagliato i conti, perché non sono un uomo per forza, ed allora spero che la mia faccia, sia più misteriosa della sindone di un dio, con ventidue più ventidue punti incrociati e che alla fine oltre il mio corpo resti molto di più di ventuno grammi di qualcos’altro. (Hanno scoperto un algoritmo)
… Cuore, cuore, non devo più temere di pronunciare questo nome cuore, cuore, cuore. Il cuore non è un astro. è il muscolo invisibile che mi strozza. (Non sono un animale)

Il difetto È un libro che ha più idee che lingua. La parola spesso è citata, il catalogo continuo non è avvertito dal lettore come colto, ma dà pesantezza, nonostante le maiuscole evitate per far entrare nel quotidiano anche lo spirito enciclopedico. La parola in poesia respira maggiormente quand’è curata, anelata, scelta con lavoro paziente. D’altra parte qui la parola non è che un battito cardiaco che, infinita, si rinnova in infinite declinazioni dei colori che titolano le sezioni.
… Ma con un’idea sì, con un’idea si può fare poesia. E l’idea qui è che non c’è mai la fine, e ogni parola non è mai l’ultima ma la prima, capace di toccare il polso con il pollice. (Poetica)

immagine d'apertura: Branciforte, "Frutta su un piano", 2004, olio su ardesia
immagine d’apertura: Branciforte, “Frutta su un piano”, 2004, olio su ardesia

 

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